domenica 16 settembre 2012

Il mondo attraverso gli occhi di Greenberg


49 - Lo stravagante mondo di Greenberg (settembre 2012)



Roger Greenberg (Ben Stiller) è appena uscito da un ospedale psichiatrico, quando il fratello e la famiglia si concedono una vacanza in Vietnam. L'impellenza di pensare alla bella casa e di badare al cane Mahler diventa così l'occasione per lui di dimostrare che è di nuovo pronto ad assumersi responsabilità, che può ancora esibire qualche utilità nel mondo reale.
Nel farlo, s'imbatte nella deliziosa Florence (Greta Gerwig), l'assistente personale della famiglia Greenberg, la quale, solerte ed amorevole, comincia con lui un complicato rapporto fondato su un'intesa reciproca tanto intensa quanto indefinibile.

Stiller presta il suo talento comico ad un ruolo che di comico non ha (se non per vie traverse) davvero nulla. Tuttavia, la potente latenza ironica di un personaggio definito "incapace di ridere di se stesso" emerge in sottofondo, silenziosamente insinuandosi e contrastando con ferocia il contegno simil-drammatico che l'attore tenta di darsi, innescando un'alchimia che funziona.
Mentre il suo personaggio è completamente fuori dagli schemi, instabile, ai limiti della follia, a fare da deciso contraltare è la Gerwig, che con grande capacità e naturalezza fa di Florence una persona fin troppo "raggiungibile", umana, ingenua, cosicché è semplice entrare in contatto con lei, comprenderne le emozioni.

La distanza che esiste nella realtà fra i due è elusa sia dalla percezione che uno ha dell'altra sia dall'idea, non proprio comune, che ognuno dei due ha della normalità; ma anche dalla fisicità stessa (il contatto fisico è facilmente accessibile, il substrato emotivo che comporta molto meno) a cui supporto si instaura una sincerità molto forte, che trova grande rappresentazione nella scelta durante i momenti chiave dei dialoghi, diretti e spontanei. Le stesse sequenze, pur caricate in parte di tutta la "stravaganza" di cui questo film è portatore, sono arditamente costruite all'insegna di una banalizzazione che finisce per sottrarre alla vista e al pensiero ciò che invece viene insinuato nel sottotesto.

Pur non potendosi certo definire una commedia romantica (e nemmeno una commedia, a parer mio), è però il rapporto con Florence quello che meglio definisce l'analisi del protagonista, il quale pur imperversando fra comparsate e reunion con vecchi amici, ricordi di giovinezza ed incursioni nei rimpianti dei propri fallimenti, non riesce ad evitare ciò che vorrebbe evitare, compiendo (forse) un primo passo verso la sua matura e tardiva formazione.
Si riescono ad avvertire note di grande dolcezza ed empatia nei confronti di questa pellicola, ma se la sensibilità ed il tocco delicato della regia di Baumbach sono magnetici ed assolutamente riconoscibili (il che va a merito del film) non sempre l'effetto spiazzante riesce ad andare a segno senza risultare fine a se stesso; non di meno, trattasi di un lungometraggio che non potrà che accontentare i fedeli sostenitori del genere. Un'opera che pur senza dirsi eccezionale arriva al traguardo: ha uno script interessante, si fa apprezzare, non è boriosa e non è un'altra di quelle commedie che pretende di ricavare un insegnamento per ognuno di noi dalla vita incasinata di uno dei protagonisti.

"Stravagante", è l'aggettivo che meglio si addice al microcosmo del protagonista, nonché al film stesso (sebbene il titolo originale manchi di questo cenno, ed evidentemente un motivo c'era); e nonostante ciò sia la dimostrazione, al solito, di come lo spettatore italiano si ritrovi ad essere continuamente imbeccato (ed imboccato) dalla critica nell'esplorazione cinematografica di quei film apparentemente distanti da un punto di vista culturale, non potrà però mancare di riconoscere in se stesso il bisogno di smarrirsi fino in fondo nei meandri dell'originale ambiguità di questo copione, vero punto di forza di un Noah Baumbach che ne è anche il regista.

Baumbach rimane fedele alla propria linea di pensiero, la corrente ideologica che lo spinse a girare (e a scrivere) l'ottimo (ma mai troppo citato) Il calamaro e la balena e il non-disconoscimento di quella sua forte appartenenza alla scuola dei grandi scrittori di pellicole indipendenti di cui è, ormai, uno dei massimi esponenti è ciò che ne rafforza il fascino, che ne avvalora, agli occhi di un ammiratore, la creatività.
Baumbach non scrive esplicitamente per intrattenere, né per far ridere o per stupire, ma inevitabilmente finisce per farlo. Ciò che viene osservato attraverso la sua personale lente è un mondo stracolmo di cose incomprensibili, un caos immane che disorienta, allontana ed intimorisce. E sono proprio i suoi personaggi, che molto hanno di autobiografico, ad incidere; perché la riflessione stessa è parte dell'esperienza e sorriderne, sebbene ci si arrivi attraverso strade del tutto contingenti o poco ortodosse, aiuta a dipingere un quadro generale in cui si può semplicemente tirare una riga e prendere coscienza della nostra (av)versione del mondo e di come imparare a farci i conti.

Da qui il sottofondo agrodolce comune ai suoi film del vuoto esistenziale, che può essere ingenerato da un dramma famigliare (il divorzio dei genitori) o dalla piega inaspettata della propria vita (la perdita di vista del significato, lo sgretolamento del sogno e la transizione verso l'età adulta, le aspettative, il realismo) che rappresenta sempre il punto di partenza ideale per raccontare del genus dell'evasione dalla realtà in un disperato tentativo di richiamare a sé qualche certezza, qualche garanzia di non mandare tutto all'aria.
Che sia il fingersi chi non si è, che sia l'isolamento o il rifuggire ogni genere di responsabilità, l'illusione porta con sé l'enorme fardello di una felicità utopistica, ma soprattutto l'assillante dubbio del cosa fare quando (e se) si presenta l'occasione di trasformarla in felicità reale.


Scena scelta