domenica 24 gennaio 2016

Me and Earl and the Dying Girl


96 - Me and Earl and the Dying Girl (gennaio 2016)




Dopo aver cercato di nascondere la propria personalità rifugiandosi nell'anonimato e allontanando qualsiasi forma di rapporto vero e proprio, eccentrico ma estremamente incerto, Greg Gaines si trova finalmente dirottato dalla madre nella inattesa situazione di offrire conforto alla (a malapena conoscente) "Ragazza Morente", in quanto affetta da leucemia, Rachel.

Come uno schiaffo sardonico, una terapia d'urto dai contorni improbabili, questo immediato ribaltone colmo di paradosso e goffo umorismo viene amplificato attraverso la cassa di risonanza delle fobie sociali del protagonista, finalmente costretto a credere all'esistenza di altro intorno a sé, ad espandere i propri orizzonti ed accettare il disagio che è condizione universale dell'essere (o sentirsi) soli e incompresi.

Con l'amico (che lui però definisce "collega") Earl fanno e rifanno filmini amatoriali che non mostrano in giro per paura dei giudizi negativi. Sono di stampo parodistico e immortalano alcune delle opere più coraggiose e ambiziose del Cinema (Herzog, Kubrick) finendo per essere ridotte a sequenze semplici e ironiche: un po' la caricatura della caricatura della fase adolescenziale di Greg, che, per dirla con Alice Cooper, "get confused every day", e cerca di riempire tutti i silenzi imbarazzanti convertendoli in una originale forma creativa di umorismo dissociato dalla realtà e dalle sue regolarità.

Il caos, il vuoto esistenziale, il rifiuto del fagocitante futuro, le ansie sociali e i rifugi dell'immaginazione in questo ritratto di alienazione e di progressivo distacco da ciò che è realtà mostrano un ottimo film sul virtuosismo delle vulnerabilità e sulle barriere che innalziamo per cercare di proteggerle, sfumate in una paura disordinata che è una sorta di comune fardello indistricabile radicato nell'insostenibile leggerezza dell'essere, nella sospensione dei significati e nella ricerca di punti d'appiglio.

La sceneggiatura davvero ben architettata e dai rimandi molto cinefili trova in Gomez-Rejon il regista perfetto: una descrizione leggera e intimistica di un esponenziale bisogno di distrazioni dalle complicazioni della vita, praticamente una fantasia dentro la fantasia strutturata con una sorta di meccanica metacinematografica che sfocia nell'orgia postmodernista dell'emergente regista americano, sempre pronto a sperimentare, a stupire e a citare, sia dentro che fuori dal perimetro del film con tutto un armamentario di riprese e angolazioni surreali e stranianti. Da sbalzi improvvisi a scudisciate vere e proprie di camera ad altre sequenze ben più quiete e distanti - un miscuglio che richiama persino omaggi a tecniche in disuso come lo stop-motion, anche una delle più sperimentali non a caso - l'occhio si innalza, si astrae e si muove con vigore attorno alle simpatiche/dolorose vicende di questi personaggi in cerca di un happy ending; imbroglia e distorce mitigando e aggiornando le aspettative un po' alla volta come la vita di cui offre uno spaccato non esclusivamente rappresentativo del microcosmo teen dei suoi personaggi ma che si allarga in uno spettro di comune esperienza.

Attraverso un racconto onesto, organico e delicato che non lesina sorprese lungo la via, è comunque la mano sicura del regista a rendere quella che è una storia - seppur piena di peculiarità - non molto dissimile da altre di recente tendenza una sorpresa visiva ed emotiva costante, intelaiata su crescenti contrasti, climax evanescenti, un montaggio catchy e una scelta metodica di un sottofondo musicale legato anche alla valorizzazione della scena piuttosto che al suo meramente banale riempimento.

Gran Premio della Giuria al Sundance Festival 2015, per quest'esordio promettente che non si può che promuovere.



Scena scelta