venerdì 30 dicembre 2016

Polytechnique


107 - Polytechnique (dicembre 2016)




Terzo lungometraggio di Denis Villeneuve (Sicario), Polytechnique sfrutta l'occhio clinico e il particolarismo dello stile visivo del suo autore per rappresentare in scena i fatti accaduti realmente nel succitato Polytechnique di Montreal, nel 1989.

L'opera tremenda di Villeneuve, tratteggiata sulla base di un'impostazione realistico-visiva, cerca di rivivere il momento nella sua crudezza più che destreggiarsi in un'analisi psicologica o sociologica approfondita delle cause o delle conseguenze, che sono sì parte integrante del racconto ma sfuggono al centro d'interesse più estetico e formale del regista canadese (e in questo senso è meno "profondo" ad esempio dell'Elephant di Van Sant, con cui condivide in parte i ritmi macabri della ritualità e la strutturazione, ma non gli stessi intenti critici).

Da quest'ultimo punto di vista, a partire dalla scelta del contrasto tonale nel b/n che nell'evidenziare il conflitto interiore gioca un po' su quello stesso concetto di entropia (il grado di disordine introdotto in un ambiente dall'esterno, qui ovviamente in senso microcosmico il politecnico e in senso macrocosmico l'universo e la vita dei sopravvissuti che si mescola a quella di chi non ce l'ha fatta) e di frammentazione psicologica reiterato nelle scelte di regia, è evidente da subito la mano ferma di Villeneuve che a questo impone una condensazione temporale insopportabile anche se necessaria.

Nel tentativo di firmare un memoriale, quasi un documento storico più che un film narrativo, Villeneuve preme appena sulla questione politica, anche se incisiva, di quel Canada e indirizza la coralità vocale del film su un piano multiprospettico, legando il carnefice alla vittima, il decesso alla sopravvivenza, la prigionia (spirituale, fisica, cromatica di un b/n privato dei colori e dunque della "gioia di vivere") alla liberazione da un peso dell'anima che si tramanda, aumentando pian piano anche il peso di quell'entropia che provocherà un nuovo equilibrio.
In tal senso è fortissimo quel senso di "inevitabilità" che permea tutto il film, con la scena immediatamente iniziale che ne costituisce una sorta di manifesto: lo squilibrio (mentale, d'ordine) è destinato a diventare così eccessivo (di nuovo un input: Guernica di Picasso) che solo un drastico punto di svolta può rappresentarne la valvola di sfogo, e la stasi successiva.

L'intimità all'interno della pellicola è ricreata a regola d'arte, che si tratti di spiare a macchina da presa lontana con potenti primissimi piani la fragile mente di un assassino (su modelli Scorsesiani) o che riguardi il momento condiviso di terrore cristallizzato in slow-motion o in empatiche two shots. C'è anzi a tratti un'apparenza spietata velata di un irreale patina poetica che si direbbe capace di creare ambiguità piuttosto che empatia.

Nel poco più dell'oretta che Villeneuve si prende per raccontare la sua storia non ci sono molti dialoghi o, se è per questo, comunicazioni di tipo verbale, eppure il film comunica nel modo più potente possibile per tutta la sua durata attraverso la decostruzione e la radiografia di un caos intellettivo, sociale, mentale e morale che dovrebbe (nella teoria, non secondo Villeneuve) essere in grado di spiegare la tragedia sotto i nostri occhi ma che invece non fa che creare dubbi ulteriori, spezzando sul nascere anche le poche parole rimaste.

Quelle parole che però sono la chiave di un rebus e di un processo di anti-disumanizzazione molto lungo da percorrere e superare, in sostanza un buio e profondo corridoio.