domenica 21 gennaio 2018

IT


125 - IT (gennaio 2018)




In un momento storico come quello attuale, un film che richiama una grossa fetta di pubblico nelle sale è una rarità. Chi ci è riuscito di recente tende a sfruttare l'effetto domino creando franchise e/o allungando il brodo oltre la misura, più spesso confidando su nicchie su cui è sicuro puntare perché tanto i loro adepti sono già "fidelizzati" in partenza e accomunati da un sottinteso culto originato, come in questo e più casi, da un libro, quello di Stephen King.

Il romanzo che King scrisse nel 1986, un classico e un capolavoro del romanzo americano di formazione, che è al suo interno molte più cose di quanto la superficie orrorifica non rifletta, è da allora rimasto cucito in milioni di menti prima di approdare alla TV (con la miniserie del 1990) e poi sul grande schermo, e come tanti romanzi di King considerato a lungo non perfettamente traducibile. Ma occorre innanzitutto provarci.

Un primo appunto al film verte sull'opportunità di spezzarlo in due parti (presumibilmente) di oltre due ore quando poi, in quelle due ore, non si sa nemmeno raccontare la più sentimentalmente banale delle storie. Eppure è, e doveva per forza, essere questo il senso di una tale dilatazione: permettere al pubblico di addentrarsi nella vicenda e nello spaccato delle vite dei personaggi, che invece vengono presentati frettolosamente da un particolare aneddoto legato all'incontro con IT e sviliti da dialoghi che non riflettono la profondità del romanzo. King li introduceva in un'ottica stereotipata per renderli subito riconoscibili ad un giovane pubblico desideroso di immedesimarsi ma per poi inquadrarli nella loro, disagiante, marginalizzante unicità che non fosse fine a se stessa, ad evidenziarne la stravaganza; ma di quell'unicità resta pochissimo, negli attributi fisici autoevidenti o della parola (coprolalia, balbuzie, logorrea, ecc.), senza la piena disponibilità emotiva di un contesto che li sappia sottilizzare.

Venendo alla logica più meccanica del film, sembra chiaro che il motto, come ormai è di moda, sia stato "aggiornare": così la scelta incomprensibile di adattare la storia degli anni '50 agli anni '80 (poiché chi leggeva il romanzo lo faceva quando era ragazzo negli anni '80 ma qui ovviamente occorre stare attenti a non ferire i sentimenti di millennials e nostalgici dell'ultima ora che vorrebbero tutto delimitato dai propri riferimenti generazionali), così la scelta di arruolare attori a caso solo perché provengono dal successo di serie come Stranger Things (il peggior Richie che potesse mai venire in mente e le cui "battute" erano addirittura improvvisate), così un IT modificato quel tanto che basta da somigliare alla congerie di clown che affollano (contrariamente ad allora) moltissimi horror, un clown che non fa paura e viene imbottito di effettistica facendo leva sempre e solo sullo spavento "di pancia" e mai sulle corde emotive o psicologiche che tra parentesi erano proprio il senso del romanzo, così il mastodontico impiego di grafica computerizzata e montaggio (visivo e sonoro) che lo appiattisce di molto perché chiaramente riempie tutto il prezioso silenzio necessario ad entrare in sintonia con i drammi dei personaggi al fine di venire incontro al gusto di oggi e specialmente di chi ama gli horror di oggi, quelli che cercano solo il richiamo di un'immagine e un suono come tanti altri che si legano assieme come in una catena di montaggio e un grosso mal di testa alla fine.

Duole dirlo: la miniserie TV tanto vituperata, pur nella limitatezza dei suoi mezzi tecnici, o forse grazie a questo, ha saputo coglierne lo spirito molto meglio, sintetizzando in scene significative (senza dilungarsi) quelle code di immagini mentali che il libro ha cercato di imprimere per centinaia di pagine, quindi non stupisce troppo che le due scene più riuscite - o se vogliamo dire meglio, le uniche - del nuovo IT siano scopiazzate pari pari (scena d'apertura e Bev nel bagno, la quale in particolare racchiude un senso che il film eclissa a favore di una svolta narrativa).

È stato un agevole compitino con cui ci si è limitati a riprodurre la patina di un romanzo che del "facile", di ciò che "appare" è tutto l'opposto, con cui ci si è seduti sulla comodità di avere per le mani un prodotto già così noto e apprezzato al punto di avere una propria cerchia di fan senza provare a infondergli niente di coraggioso, innovativo, o anche semplicemente sentito, in cui si è dato troppo peso a certi personaggi e troppo poco ad altri o al loro background, in cui non ci si è resi conto che un buon casting è il 50% della buona riuscita di un film del genere (e invece la sola ottima scelta è quella di "Bev", per quanto diretta approssimativamente) e così via.

Mentre il comparto visivo fa affidamento esclusivamente su una fotografia seducente e sull'effetto sorpresa, quello sonoro è davvero soltanto scadente, mai in grado di evocare mistero o inquietudine perché tutto il film è tetragono al concetto di climax e perfino incapace di alleggerire, proprio come la sceneggiatura, quei momenti in cui veniva fuori tutta la sostanza indistricabile dell'amicizia, del vivere la giornata sapendo di non essere più soli (vedi Barrens), del lato positivo dell'infanzia (già, perché questa sarebbe una storia di crescita, nel caso qualcuno non l'avesse notato) di cui sono rimaste solo le fastidiose biciclettine, gli zainetti, gli occasionali abbracci finti; e perfino le battute sconce di Richie, che in origine ne insinuavano le insicurezze e la solitudine e trovavano un posto ben preciso nello schema del gruppo, diventano solo imbarazzante cacofonico sottofondo, materiale fotocopiato e serializzato, infilato a casaccio senza il minimo tatto o comprensione del momentum del film.

Un film diretto da e rivolto a chi il romanzo non lo ha amato, al contrario della scarna miniserie, e che probabilmente verrà ricordato solo per l'epico finale che la miniserie ovviamente non poteva riprodurre con i mezzi di cui all'epoca disponeva, e cui invece questo film nella sua seconda parte voterà ogni cosa, perché si è appreso che i contenuti diventano secondari davanti al passaparola e il passaparola funziona finché regge il contagio dato dall'immaginazione, sia quella prodotta dalla nostalgia sia quella vacua delle cose fatte in grande.

Quanto al personaggio centrale, IT (che rientra in quel discorso sul "50%" del casting), oltre a dover essere giudicato immediatamente più debole di quello memorabile di Tim Curry, viene spontaneo chiedersi se il problema non sia prettamente storico: dopotutto quanti horror sui clown esistevano nei primi anni '90 e quanti adesso? Forse più che sull'impatto visivo, allora, giustificato in epoca pre-digitalizzata quando si poteva ancora genuinamente sobbalzare davanti a una maschera, sarebbe stato il caso di entrare nel fitto delle perversioni psicologiche che governano il rapporto unico fra ogni personaggio e i suoi demoni metaforizzato proprio in IT.
Il film però si ferma a un livello diverso, e di tutto quel potenziale subconscio non resta altro se non visioni mostruose che ammiccano pericolosamente a fenomeni mediatici come The Walking Dead e furiosi stacchi di montaggio in linea con i canoni dell'Horror impersonale contemporaneo che permettono allo spettatore di mettere a fuoco l'inconsistenza del clown il meno possibile. L'interpretazione di Skarsgård è poi quanto più lontana potrebbe essere rispetto sia a quella di Curry che rispetto alla tratteggiatura complessa che se ne dà nel romanzo, e fallisce in realtà proprio nelle sue basi, lì dove non trasmette mai nulla di equivoco se non una sensazione viscida, che fa ritrarre d'istinto, priva di quel gioco di emozioni e suggestioni che avrebbe dovuto far esplodere nella mente dei ragazzini capitatigli a tiro.
E sperabilmente in quella degli spettatori.