domenica 29 gennaio 2012

The Artist, un ritorno alle origini


39 - The Artist (gennaio 2012)



Hollywood, 1927. George Valentin (Jean Dujardin) è uno dei più famosi attori del cinema muto, la sua popolarità tocca vette impareggiabili, il personaggio dei suoi film è come quello fuori: amabile, pittoresco, talentuoso. E' un vero e proprio istrione, ma è anche orgoglioso, e impulsivo. Come quando si prende le scene (e gli applausi) tutte per sé, o quando fa di una semplice fan incontrata sulle passerelle la co-protagonista del suo nuovo film, con buona pace del produttore (un John Goodman che è sempre un piacere vedere).

Il tempo passa in fretta, e arriva il 1929: sul cinema incombe l'introduzione del sonoro, sull'America il crack di Wall Street; mentre le sale cinematografiche vengono invase dalle seducenti promesse della nuova frontiera auditiva, comincia il declino di Valentin, d'un tratto obsoleto, fuori luogo, ridicolo, quasi. Viene scaricato dalla Kinograph, la sua casa cinematografica, che svolta con una nuova star: Peppy Miller (Bérénice Bejo), la ragazza da lui notata e aiutata qualche anno prima.
L'ascesa di lei è anche il contemporaneo declino di lui, è una rottura definitiva: nello stesso incedere in cui muore il seguito di Valentin, muore l'uomo, l'anima, l'artista. Colui che mai si piegherà alle effimere amenità introdotte dalle trovate commerciali a buon mercato. L'inflessibile devozione alle proprie idee è temprata dalla strenua orgogliosa resistenza ad un cambiamento troppo difficile da venire, perché interiore, perché capace di mettere in discussione tutto ciò in cui crede.

Persa la sua strada, persa gran parte dei suoi averi per ovviare alle difficoltà economiche e perse (quasi) tutte le persone che può considerare care, trova nell'improbabile (il fedele cane amico) e nell'inconfessabile (Peppy) le chiavi della sua salvezza e di quell'autoindulgenza che lo porta a rivoluzionare non solo il concetto di sé, ma anche, forse, la stessa opinione che egli può avere dell'arte stessa.

Il film di Hazanavicius è un film che trova la propria originalità, paradossalmente, in un ritorno alle origini del cinema; il film, quasi interamente muto, e girato nel vecchio classico b/n si fonde con i film (muti anch'essi, ovviamente) di cui narra, entrando nella sfera del metacinema e (ri)facendo suoi gli strumenti base della recitazione. L'unico sottofondo è quello delle musiche (peraltro splendide, di Ludovic Bource); se la rivoluzione sonora infierisce i suoi colpi sul protagonista, lo spettatore non conosce miglior fortuna, perché egli si deve immedesimare in Valentin, che fino all'ultimo cercherà di mantenere la propria integrità.
Ed è solo con l'abbandono del residuo rifiuto e con l'accettazione da parte del protagonista, che lo spettatore può conoscere finalmente ciò che si nasconde al suo orecchio: per la prima volta le musiche si fermano, lasciando ad un assordante silenzio e alle prime parole udibili degli attori l'onore di chiudere un film la cui apertura rappresenta ormai il passato, proprio come il cinema muto rappresenta i primordi dell'industria cinematografica.

Nostalgico, questo "The Artist", non è passato inosservato alla Foreign Press Associated, che l'ha premiato con ben 3 Golden Globes, mentre l'Academy gli ha riservato il più alto numero di nominations in vista degli Oscar 2012 (10).
Di sicuro è un film che farà parlare di sé: regia, sceneggiatura originale, musiche. La prova degli attori è, in buona sostanza, ecumenica: su livelli altissimi quella dei due attori protagonisti, Dujardin e Bejo, ma tutto il contorno funziona, grazie all'esperienza di attori formidabili, quali John Goodman, James Cromwell e persino Malcolm McDowell in una breve apparizione.

Una felice intuizione, in definitiva, e anche se a volte non si perdona al cinema la sua vena retro e citazionista (sia cinefila che extracinefila), non si può non guardare a questo lavoro con quell'affetto sincero con cui pensiamo ai primi pionieri di un'arte che col passare del tempo si raffina, accresce le proprie potenzialità comunicative con un arsenale visivo e sonoro sempre più notevole, ma che forse allo stesso tempo si distanzia sempre più dalle esigenze di un pubblico che, decadi a parte, rimane sempre lo stesso.


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Lasciami entrare (Låt den rätte komma in)



38 - Lasciami entrare (Låt den rätte komma in) (gennaio 2012)



Oskar osserva il suo riflesso: guarda una vittima ma immagina un carnefice; nella sua mente prendono forma i contorni di un equo giustiziere capace di ristabilire l'equilibrio perduto e dare definizione al concetto di giustizia, o almeno al concetto bambinesco di giustizia, rinchiuso in una mente giovane, sì, ma anche logora e prigioniera di una esistenza che ha per lui ben poco di soddisfacente.
Eli lo osserva, di notte, compiere il suo strano rituale come un gioco, senza capirne il significato; ha dodici anni come lui, ma la sua esperienza le ha insegnato cose diverse.

A guardarli a prima vista non potrebbero essere più diversi, né le rispettive storie potrebbero essere raccontate senza riconoscervi una scissione radicale, antropologica, palese quanto la differenza fra il giorno e la notte. Eppure è il sottofondo comune rappresentato dal bisogno di essere intimamente compresi, per la prima volta da qualcuno, a forzare l'unione delle loro solitudini, a mostrare ora in una luce totale un volto prima raffigurato solo a metà.
Oskar si affaccia così, finalmente, al di là del muretto eretto a riparo della sua incolumità, mentale prima ancora che fisica. Per Eli non c'è invece cambiamento, nessuna possibilità di permettersi di avere pietà di ciò che è; può solo fare i conti con la realtà e lottare per la propria sopravvivenza.

Nel rigido clima innevato si confondono gli sguardi di ghiaccio, privi di emotività dei due protagonisti, fino a perdere le tracce del resto dell'universo che li circonda (enfatizzato dalle potenti immagini di assuluti vuoti e silenzi dello scenario svedese) e riconoscere solamente l'empatia, che prima ancora di ogni altro gesto o verbo sintetizza l'amicizia-affinità fra i due ragazzi. Mentre intorno a loro vagano le macchiette paesane del tutto irrilevanti, essi si isolano nel migliore microcosmo da loro creato e lo rinfocolano con il desiderio di una fuga da una società triste e impotente, come l'ultima sequenza sembra suggerire.

T. Alfredson adatta per il cinema il romanzo di Lindqvist, obbedendo oltre che alla sceneggiatura dello stesso romanziere, a tutti i canoni della mitologia vampiresca, emblematica nel titolo stesso (solo chi viene invitato può legittimamente entrare), non mascherandosi semplicemente dietro agli stilemi dell'horror-thriller con le cruente scene in cui il sangue sgorga abbondante e le facce contorte o deturpate disturbano l'immaginario dello spettatore, ma delinenando un più complesso e profondo legame capace di resistere e di alimentarsi della barbarie inevitabile, un vincolo di sangue dentro e fuori la metafora. Il tutto elaborato con l'eleganza e la stessa simmetria con cui una morte fa da contrappeso alla salvezza di una vita.

Conta un remake anglofono (Blood Story), ma anche solo per una questione sentimentale, preferisco gli originali. Questo film non potrà contare su un cast di livello, o su trucchi visivi incredibili, ma in un certo senso è proprio la naturalezza e la genuinità di determinate scelte a rendere il film riuscito; ciò senza contare l'enorme impatto di alcune sequenze (come quella verso la fine, della piscina) avvalorate da una più generale attitudine a mostrare il lato B, anziché dirompere in affrettate (e banali) scene splatter di ormai risibile effetto.

Un film (da me) inaspettato, originale, che coglie l'enfasi di un lungo momento che va oltre il bieco superficialismo dell'argomento di cui pare trattare. Un calarsi progressivo in uno scenario sovrannaturale di per sé, ma tratteggiato di ondate di dettagli che riportano alla mente e al centro di tutto l'uomo, e il modo che ha di relazionarsi con il "diverso".


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