domenica 29 gennaio 2012

Lasciami entrare (Låt den rätte komma in)



38 - Lasciami entrare (Låt den rätte komma in) (gennaio 2012)



Oskar osserva il suo riflesso: guarda una vittima ma immagina un carnefice; nella sua mente prendono forma i contorni di un equo giustiziere capace di ristabilire l'equilibrio perduto e dare definizione al concetto di giustizia, o almeno al concetto bambinesco di giustizia, rinchiuso in una mente giovane, sì, ma anche logora e prigioniera di una esistenza che ha per lui ben poco di soddisfacente.
Eli lo osserva, di notte, compiere il suo strano rituale come un gioco, senza capirne il significato; ha dodici anni come lui, ma la sua esperienza le ha insegnato cose diverse.

A guardarli a prima vista non potrebbero essere più diversi, né le rispettive storie potrebbero essere raccontate senza riconoscervi una scissione radicale, antropologica, palese quanto la differenza fra il giorno e la notte. Eppure è il sottofondo comune rappresentato dal bisogno di essere intimamente compresi, per la prima volta da qualcuno, a forzare l'unione delle loro solitudini, a mostrare ora in una luce totale un volto prima raffigurato solo a metà.
Oskar si affaccia così, finalmente, al di là del muretto eretto a riparo della sua incolumità, mentale prima ancora che fisica. Per Eli non c'è invece cambiamento, nessuna possibilità di permettersi di avere pietà di ciò che è; può solo fare i conti con la realtà e lottare per la propria sopravvivenza.

Nel rigido clima innevato si confondono gli sguardi di ghiaccio, privi di emotività dei due protagonisti, fino a perdere le tracce del resto dell'universo che li circonda (enfatizzato dalle potenti immagini di assuluti vuoti e silenzi dello scenario svedese) e riconoscere solamente l'empatia, che prima ancora di ogni altro gesto o verbo sintetizza l'amicizia-affinità fra i due ragazzi. Mentre intorno a loro vagano le macchiette paesane del tutto irrilevanti, essi si isolano nel migliore microcosmo da loro creato e lo rinfocolano con il desiderio di una fuga da una società triste e impotente, come l'ultima sequenza sembra suggerire.

T. Alfredson adatta per il cinema il romanzo di Lindqvist, obbedendo oltre che alla sceneggiatura dello stesso romanziere, a tutti i canoni della mitologia vampiresca, emblematica nel titolo stesso (solo chi viene invitato può legittimamente entrare), non mascherandosi semplicemente dietro agli stilemi dell'horror-thriller con le cruente scene in cui il sangue sgorga abbondante e le facce contorte o deturpate disturbano l'immaginario dello spettatore, ma delinenando un più complesso e profondo legame capace di resistere e di alimentarsi della barbarie inevitabile, un vincolo di sangue dentro e fuori la metafora. Il tutto elaborato con l'eleganza e la stessa simmetria con cui una morte fa da contrappeso alla salvezza di una vita.

Conta un remake anglofono (Blood Story), ma anche solo per una questione sentimentale, preferisco gli originali. Questo film non potrà contare su un cast di livello, o su trucchi visivi incredibili, ma in un certo senso è proprio la naturalezza e la genuinità di determinate scelte a rendere il film riuscito; ciò senza contare l'enorme impatto di alcune sequenze (come quella verso la fine, della piscina) avvalorate da una più generale attitudine a mostrare il lato B, anziché dirompere in affrettate (e banali) scene splatter di ormai risibile effetto.

Un film (da me) inaspettato, originale, che coglie l'enfasi di un lungo momento che va oltre il bieco superficialismo dell'argomento di cui pare trattare. Un calarsi progressivo in uno scenario sovrannaturale di per sé, ma tratteggiato di ondate di dettagli che riportano alla mente e al centro di tutto l'uomo, e il modo che ha di relazionarsi con il "diverso".


Scena scelta







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