mercoledì 29 novembre 2017

Flashbacks: We need to talk about Lynne Ramsay






Credo che la ragione principale per cui ho amato Lynne Ramsay fin dal principio risieda nell’ambiguità che è in grado di apportare alle sue opere, stracolme di segni personali, di messaggi cifrati, di significati importantissimi, la cui frammentarietà non è altro che uno specchio della mente umana, della sua tendenza contorta ad assimilare gli eventi che ci occorrono, specialmente di quelli tragici.
Chi è, più o meno familiare, con i pochi ma buoni film della regista/autrice scozzese, saprà certamente che tutti i suoi lungometraggi (e anche cortometraggi) respirano inequivocabilmente un’aria densa e minacciosa nel cui particolato sinistro si nasconde l’imminenza di un evento che segna irreversibilmente, indelebilmente, l’esistenza dei suoi protagonisti. Non è casuale l’utilizzo del termine “esistenza”: non è semplicemente la loro sopravvivenza negli angusti ambienti che li contengono ad esserne sconvolta, ma proprio la radice più profonda delle sue premesse, psicologiche ed esistenziali, che li pone sempre al bivio di un impellente imperativo biologico: la realtà che li circonda e l’isolamento privato che ne deriva.

Uno dei suoi primi cortometraggi, "Kill the day" (1996), ritrae confusamente la giornata di un uomo qualunque probabilmente alle prese con depressione e tossicodipendenza, i cui avvenimenti (non è chiaro se effettivi o allucinatori) lo ritraggono intrappolato in una routine e in un momento successivo effettivamente in gabbia, in prigione — la metafora, in questo cortometraggio che mi ha ricordato vagamente Un chien andalou vuole accostare la ripetitività quasi inutile della vita dovuta ad un contesto ambientale che non offre molte possibilità e la condizione di chi per sfuggirgli finisce inevitabilmente per battere strade che lo condannano in via più perentoria a quella stessa sorte, cioè quella della detenzione. Il collegamento è puramente visivo ed astratto, forse neanche c'è, tanto surreale è la materia di cui sono fatti i sogni di questo spaccato di indistinguibile apatia. Già in questo breve esempio, come nel successivo Ratcatcher, si insinua la doppia traccia di un'evasione (la fantasia, l'allucinazione) dalla realtà (il tessuto sociale).

Questa apparente e insieme intrigante contraddizione, che ha portato nel tempo i suoi estimatori a parlare di un “realismo poetico” (quasi a rimandare al movimento letterario e cinefilo degli anni ’30, con più di una motivazione valida), e che sovrappone all'esperienza oggettiva quella interiore del personaggio di cui la Ramsay narra l’evoluzione, è chiara ed evidente in tutti i suoi film e rientra nel profilo della Ramsay come autrice che anche quando dà l’impressione di non sapere cosa voglia dire in realtà lo sa perfettamente: quest’affermazione è facilmente dimostrabile attraverso la ricorrenza degli schemi dei suoi film.
Leitmotif, gestualità, filosofia del colore, messa a fuoco, morbosità dell’inquadratura, ellissi e altre distorsioni temporali, slow-motion, ricerca di angolazioni studiate nei minimi dettagli, posizione della macchina da presa. Niente di tutto questo è mai casuale.


In Ratcatcher, il suo primo lungometraggio (ottimamente accolto dalla critica, nonostante qualche polemica e nonostante non abbia mai raggiunto una vera e propria distribuzione), il bildungsroman del suo giovane protagonista è definito dall'urgenza dello squallore e del disagio sociale della Glasgow sottoproletaria dei primi anni ’70 che lo circondano; mentre le immagini oniriche e intimiste che pervadono il protagonista prendono possesso di lui e della sua realtà interiore, la realtà, là fuori, sembra meno reale, meno disperata, e perfino i ratti che sgusciano fra i sacchi della spazzatura abbandonati sui marciapiedi diventano sia un elemento oggettivo (la sporcizia, lo squallore) che un appiglio su cui erigere una fantasia romantica da ragazzini (il ratto, legato per la coda al palloncino, che vola “verso la luna, dove fonderà una colonia”). Elementi destabilizzanti, che sembrano provenire da una Ramsay più osservatrice, più documentarista, più “sociologista” creano la struttura soffocante che è poi l’anarchismo necessario dell’io privato a stravolgere, lottando per sottrarsi alla sua presa e sfuggire alla sua vaga, indistinta, ineluttabile tragicità.



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Ratcatcher (1999); la tecnica del frame-within-a-frame dà accento a una dimensione che sembra scavata all'interno di una nicchia nel crudo realismo del film, la coltivazione idealistica di un’evasione che è allo stesso tempo reale ed impossibile.



In Morvern Callar, a stridere non è tanto l’ambientazione ma più che altro la distorsione dello spazio visivo: l’evento drammatico che colpisce la protagonista all’inizio del film la costringe all’angustia di una piccola stanza (pensata in senso contrappuntistico con il cadavere che spicca in modo macabro accanto alle festose luci dell'albero di natale), e i piani ravvicinati della Ramsay che stringono sul volto della ragazza rinsaldano l'idea di un’atmosfera opprimente, claustrofobica, e di nuovo, del grottesco disagio della non-accettazione (il cadavere marcescente scavalcato come niente fosse, lo stupido baluginare del cursore sullo schermo del computer che contiene il romanzo postumo dello scrittore “maledetto", la sublime ambiguità di quell'"I love you”).
Sebbene da spettatori e quindi da osservatori obiettivi abbiamo già individuato la fonte del problema, l’immaterialità della questione è filtrata da una Samantha Morton quasi catatonica, apatica. Non è dato conoscerla prima dell’evento che ha cambiato la sua vita, possiamo però afferrare con una sensazione netta, vivida, il modo in cui quell’evento l’ha cambiata, la sta cambiando davanti ai nostri occhi, man mano che la protagonista evade la questione sia nella realtà esterna (fugge, letteralmente) che nei complicati recessi del suo cervello (negando, a un livello razionale, il fatto del suicidio a se stessa finisce con l'evitare di farne parola, e così non diventa mai reale, rimane confinato alla fantasia della negazione).
Con il trauma sempre in sottofondo, la protagonista riacquista un po' alla volta il controllo di sé: la fotografia algida e notturna delle invernali lande scozzesi che la ritraeva con luci asettiche e fredde lascia il posto ai toni seppia che sorridono agli scenari assolati della Spagna, alle sue viste sull'oceano, alle sue promesse di libertà. I colori cambiano, e le onde di luce naturale pian piano rivelano il disgelo emotivo indotto dal trauma.





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Morvern Callar, 2002. Uno dei tanti segni distintivi ricorrenti della regia della Ramsay: un'inquadratura che tiene a distanza la protagonista come per concederle il suo spazio e osservarla (spiarla) da lontano, tagliandola nello stesso tempo con una precisione geometrica in due parti: quasi un rimando allo stato mentale del personaggio. Lo stesso, nell'immagine sotto, in We need to talk about Kevin, 2011.



Infine, in We need to talk about Kevin, il grande contrasto (meno scozzese e più americano, ovviamente) è dato dalla turpe, inimmaginabile, cruenta crudeltà che si consuma lentamente lasciando estenuanti tracce, fisiche ed emotive, lungo un’altra problematica esperienza formativa ambientata nella (provocatoriamente) tranquilla realtà suburbana da ceto medio americana. Per certi versi questa è una variante tematica quasi speculare in Lynne Ramsay: esiste una speranza anche in situazioni terribili, sembrava dire sommessamente Ratcatcher; esistono situazioni senza speranza anche in scenari estremamente favorevoli, imbeccati dalla retorica americana dell’American Dream e del suo “vietato fallire”, sembra invece dire We need to talk about Kevin.

Ovviamente alla fine la realtà è sempre e solo una, è lenta e inesorabile, ci consuma dentro e prende il sopravvento per quanto si tenti di sfuggirle; la Ramsay è un’autrice, una cineasta sì ricca di talento e di competenza tecnica ma di cui sono soprattutto le qualità di osservazione, di empatia, di sensibilità a condurne lo sguardo oltre la fredda orologeria dell’ingranaggio filmico e a stagliarlo in modo partecipato sui volti dei suoi personaggi, perduti nei silenzi delle proprie riflessioni, anestetizzati dal bisogno di cercare dentro di sé un motivo per continuare ad esistere sebbene la vita non glielo permetta (o ne ricalcoli le coordinate); guardando (e riflettendo) il loro stesso sguardo possiamo ricavarne un’anima, un lamento vitale.
Nei primissimi piani, nel controllo della luce e delle angolazioni in cui riprende i volti bianchi e consunti dei suoi personaggi, nella qualità proprio fotografica delle sensazioni che è capace di immortalare, nell'espressività che sa ottenere dai suoi attori, nella modulazione esemplare dei toni, del mood con cui mescola l’elemento visivo a quello sonoro, e in definitiva nella sua capacità di guardare all’inquadratura come qualcosa di preesistente, come “trovato per miracolo”, catturato nella sua immortale ordinarietà la Ramsay dipinge fughe su tela, ritrae l’incombenza ferale con il tocco di chi chiuda gli occhi ed immagini un sogno. Fino a confondere la realtà con la sua elaborazione.
In questo, e solo in questo tutto sommato, l’accostamento con il “Realismo Poetico” è pertinente.



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We need to talk about Kevin, 2011. In una delle tantissime memorabili istantanee di un film che dice tutto senza proferire parola, la Ramsay esterna quel senso di oppressione e di volontà di fuga sfruttando l'acutezza della composizione con elementi anche grottescamente umoristici. Dal contrasto visivo, che specchia quello mentale (nella madre cresce un odio innaturale per il figlio appena nato) si ricava un'idea che è ripetutamente insinuata fino ad accrescere in un parossismo esiziale.



Accadono cose terribili (il ragazzino di Ratcatcher, fra le altre cose, vede morire un coetaneo per annegamento, Morvern Callar si apre con una sequenza in cui la protagonista è distesa a terra in silenzio accanto al ragazzo-scrittore morto suicida, We need to talk about Kevin è praticamente un’intera reminiscenza di un’escalation di crudeltà e perversione che esplode nel climax della strage), ma più che l’evento in sé ricordiamo il procedimento con cui la Ramsay ce lo ha portato, e ovviamente le conseguenze che ne derivano.
Quasi sempre quello che accade non viene nemmeno nascosto; quasi alla Hitchcock, quasi ad affidare al nostro intuito l’abilità di leggere tra le righe. E poiché a colpirci non è mai il fatto stesso ma la sua interpretazione, mediata dalla nostra sensibilità, i film della Ramsay sembrano quasi sfidare la nostra capacità di comprensione, di reagire, di gestirne le conseguenze. Ma forse la questione è ancora più sottile: siamo in grado di guardare nel fondo dell'abisso e non impazzire?

In "Ratcatcher" ad esempio, nella scena dell’annegamento, accade tutto in un tempo reale molto vivido (oltre che precoce) tanto davanti ai nostri occhi che in quelli del protagonista, non c’è alcuna alterazione diegetica, i silenzi estenuanti sono gli stessi sia per noi che per loro, non c’è un sottofondo sonoro a sottolinearne la gravità, e non ci sono nemmeno (inopportune) derive melodrammatiche; in "Morvern Callar" addirittura sappiamo tutto dal principio (la scelta sperimentale la porta a giocarsi una carta narrativamente molto pesante e non priva di rischi) ma ci affascina il meccanismo di risposta; e in "We need to talk about Kevin", sebbene più dipendente dallo sviluppo della monotematicità della storia e sebbene sembri seguire un po’ troppo archetipi già abusati, sappiamo sin da subito che qualcosa di terribile è successo, lo presagiamo dall'uso compulsivo del rosso, dal montaggio, dalla grammatica di regia e dalla recitazione ancora prima che dalla sceneggiatura, il cui ultimo fine è rendere sempre più evidente quell'iniziale presagio e trasformarlo in fatto.
È come se la Ramsay stesse mettendo a fuoco l'obiettivo: partendo dalla sensazione si arriva a definire i contorni della realtà ma è anche un procedimento palindromo visto che si inserisce un discorso di "prima-dopo" e per questo fondamentalmente ermetico, chiuso su se stesso.



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We need to talk about Kevin, 2011. Una scena innocente e altrimenti ordinaria come questa guardata attraverso la lente distorta della Ramsay si trasfigura completamente in una consapevolezza del male. È ancora una volta, il contesto a fare la differenza. La Ramsay lo ha costruito pazientemente fin lì agendo sui contrasti e sulla fallacia delle apparenze. Non c'è niente di più destabilizzante del pregiudizio, e della difficoltà nell'ammettere di avere paura di qualcosa che si dovrebbe amare. La prigionia è psicologica prima che allegorica, e insieme, profondamente disturbante.

Il concetto è più volte ribadito nelle ingegnose soluzioni visive:






Questo terzo film è probabilmente quello che più si discosta dai precedenti, così basato sul decostruttivismo e sulla suspence: se il primo aspetto è comunque inquadrabile nella tendenza storica della Ramsay a spezzare le strutture lineari convenzionali, il secondo sembra davvero qualcosa che non c’entra molto con la Ramsay "scozzese"; e tuttavia, la grandezza del film, la sua “bellezza americana”, la si deve proprio alle insinuazioni (etiche, culturali, politiche, psicologiche, sociologiche) sospese in ogni singolo gigantesco fotogramma, ciascuno costruito pezzo per pezzo per comporre il quadro più grande dell'evento: non è più soltanto la storia di una persona, è la storia di un'intera comunità, adesso.
Di nuovo il procedimento attraverso cui madre-figlio sono messi in una relazione perversa, enfatizzata come un Horror soprannaturale eppure verosimile, è davvero la parte affascinante di ciò che individuiamo del risultato finale e non viceversa; come se la grande domanda che preme sulla storia in un certo senso fosse indifferente al Big Bang, ma più interessata a comprenderne la forza scatenante, la sua entropia. In altre parole, è la filosofia; è lo studio del perché. È il boom che scuote l’esterno emanando il dubbio che sarà l’interiorità stravolta a cercare di spiegare, se proprio non è possibile sfuggirgli (e non è possibile sfuggire all’inevitabile).

Per quanto avvolti da una condiscendente ambiguità, sappiamo già che il protagonista di "Ratcatcher" non otterrà mai la vita che desidera, sappiamo già che il compagno della protagonista di "Morvern Callar" è morto suicida e sappiamo già (se non lo sappiamo lo intuiamo ad un livello di coscienza secondario) che Kevin è una bomba ad orologeria che è già esplosa, da qualche parte, in qualche modo. Ma è solo la maestria della Ramsay nell’imprimerne i tratti borderline nella sfuggevolezza del contesto a creare quella consapevolezza e ad allontanare il giudizio definitivo dello spettatore, che per la Ramsay sarebbe la morte del film.

Perché l’obiettivo della Ramsay, ammesso che ne abbia uno, sembra essere quello di sfuggire con tutte le sue forze alla chiarezza etica di ciò che rappresenta; non si può rischiare di “imporre” un’emozione o un pensiero ma filmando la verità e la nuda onestà di una tragedia senza senso si sposta l’obiettivo da “ciò che dovrebbe essere” (l’accettazione, in qualche modo) al “ciò che è”: nel momento in cui viviamo questo (e non “ci rendiamo conto” di questo) diventiamo come co-protagonisti del film, o meglio osservatori interessati al pari della sua regista; cominciamo a credere a quello che viene rappresentato e quindi cominciamo a maturare un reale sentimento per le sorti dei personaggi, che non è affatto come se quel sentimento fosse stato introdotto nella mente con rozza ovvietà.
Si può dire che gran parte della sfida del cinema della Ramsay – sfida sia come idea di concepimento sia nelle modalità di ricezione – si gioca proprio su quanto naturalistico riesce a mantenere il tono del suo film e sull'efficacia con cui i messaggi vengono inseriti trasversalmente all’interno di schemi riconoscibili ma di non immediata assimilazione, perché appunto figli di quell’”anarchismo” di fondo che mina la convenzionalità delle forme filmiche e del pensiero prevalente.

Se per la Ramsay è ammessa la trasgressione al realismo è solo ed esclusivamente nella misura del piccolo ricettacolo chiuso dall’interno che è la mente umana, solo lì le cose possono essere rimescolate, forse accettate, comunque vissute e interiorizzate. Ma tanto dentro quanto fuori, rimane immacolato il mistero, talvolta terribile, talvolta però stupendo.

Il motivo per cui di una autrice come la Ramsay si nota immediatamente il talento è proprio in questo mix di intuito incredibilmente sviluppato per la fotografia, per il mood, e insieme della cerebralità che pure esiste dietro all’enigmatico sistema di labirinti che percorrono la psiche di ogni suo personaggio.
Sono personaggi molto umani, ma al tempo stesso incomprensibili; sono talmente “vicini” nell’inquadratura strettissima che possiamo sentirli, quasi toccarli, auscultarli ma le espressioni atonali ci restituiscono solo freddezza ed estraneità. Perfino le loro azioni paiono al limite dell’insondabilità.
Ma non si ha mai la sensazione di distacco che una tale tesi suggerirebbe, e questo perché, ancora una volta, la Ramsay non dice “il personaggio sta soffrendo”, e non dice semplicemente “al personaggio sta accadendo questo”, ma tutt’al più lascia supporre che le azioni siano collegate in qualche modo a quello che sappiamo gli è accaduto. È lo spettatore, comunque, a dover ricollegare i fili per dare un senso a quell’esperienza, o meglio è lo spettatore a trasferire la sua esperienza nel film andando a colmare le zone d’ombra con quello che sembra intellettualmente più vero, ed è questo aspetto a stimolare una risposta (auto)soddisfatta perché, come ci insegnano i più grandi, da Ejsenstein a Kubrick, se vuoi trasmettere un’idea, se vuoi davvero trasmetterla in modo potente, devi insinuarla ma tenerla nascosta il più possibile.





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In un'istantanea improvvisa, che è ancora una conferma del fatto che niente è casuale nella meccanica visuale di storytelling della regista, raccogliamo tutto il senso dell'impotenza del personaggio, letteralmente "con le spalle al muro".



La sperimentalità della Ramsay trova radici in Bresson (di lui l’autrice scozzese sottolinea l’importanza nel capire quando la semplicità dell’immagine - o del suono - è autosufficiente, di come quindi sia dannoso cercare di strafare, e di cui quindi riprende la visione sottrattiva e legata al dettaglio e al particolare), nel Surrealismo (oltre alla ricorrenza più evidente del simbolismo, del tema del sogno, dell’attenzione psicologica ossessiva e delle forme distorte della realtà, ci sono veri e propri rimandi diretti a Buñuel, Dalì, Lynch, solo per citarne alcuni), nella pittura di Andrew Wyeth e Jackson Pollock.

I.





II.





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Ratcatcher (1999) e l’Opera di Andrew Wyeth: come per la Ramsay, la pittura di Wyeth era caratterizzata da uno stile realista — sebbene egli si definisse un astrattista — e da accentuati toni naturalistici originati dal profondo legame del pittore con la sua terra; non è difficile ricollegare il suo mondo, fatto di abitudinarie passeggiate, costrizioni domestiche ed eccitati aneliti di fuga con quello spesso dipinto dalla Ramsay, particolarmente in Ratcatcher.



Nonostante la celebrazione che l’autrice può trovare fra queste righe il suo successo e la sua popolarità non toccano vette clamorose, avendo cominciato a riscuotere una certa pubblicità solo dopo “We need to talk about Kevin” e questo, come in parte spiegato, sembra dovuto ad una serie di fattori sia distributivi che di appeal; riguardo al secondo aspetto, si può quasi avere l’impressione che la Ramsay sin dai suoi esordi, con il cortometraggio Small Deaths (1996), abbia voluto intenzionalmente restringere il più possibile il target dei suoi film: storie molto personali se non fortemente autobiografiche (è addirittura la stessa figlia a recitare nei primi cortometraggi), ambientazioni “domestiche”, l’uso estremo e senza compromessi dei forti accenti/dialetti di Glasgow nella recitazione (che richiesero la sottotitolazione perfino nelle sale britanniche in cui Ratcatcher venne proiettato), e il disinteresse più totale per un’estetica necessariamente strumentale all'esistenza di una storia, ecc. sono tutte considerazioni che non possono che avvalorare, assieme al dato di una produzione alquanto esigua (appena 4 lungometraggi nell’arco di una ventina d’anni), un’inclinazione artistica e professionale ben precisa che è quella di una cineasta che ha studiato fotografia perché accattivata da quelle complesse strutture di linguaggio di cui ha poi conservato le caratteristiche anche una volta evolutasi in regista di cinema, e come allora fosse ancora un paziente “studio” il centro del suo interesse, uno studio della materia umana che la avvicina ai più grandi e per cui meriterebbe molta più attenzione di quella che appare ricevere in questo momento.

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