mercoledì 16 novembre 2011

Recensioni Giugno/Dicembre 2011


32 - Chatroom - I segreti della mente (novembre 2011)




Il film affronta il complicato rapporto di cinque ragazzi con le rispettive vite, mettendoli di fronte ai propri problemi attraverso lo strumento della Chat inteso come mezzo per evadere dalla realtà cosciente e proiettarsi nella "room" personalizzata, permeata di rassicurazioni illusorie e quindi idonea allo scopo della creazione di un riparo, grazie a cui scompaiono le difficoltà di comunicazione e tutto sembra più sopportabile.

Se non fosse che Nakata (divenuto celebre per The Ring e poco altro, anzi direi niente altro), da sempre interessato a relazionarsi con gli strumenti tecnologici del nostro tempo, usa questo espediente non per analizzare il mezzo, quanto le storture che ne possono derivare, le implicazioni che un approccio completamente acritico e privo di autodifese può provocare nella labile psiche di persone alla mercé della vita che vivono, al punto da essere facilmente manipolabili anche da chi si finge amico per soddisfare le proprie perversioni.

Il rapporto controverso fra reale e virtuale viene reso mettendo in chiaro una dicotomia anche e soprattutto visiva, fatta da una parte delle luci e dei colori vividi che caratterizzano le Chatrooms patinate nelle quali i ragazzi appaiono molto più a proprio agio, e dall'altra del pallido grigiore delle strade della vita reale, che richiamano alla mente le incomprensioni e l'insofferenza del loro mondo.

In definitiva una sorta di thriller atipico, con una buona idea di partenza - interessante quella di far apparire le chatrooms come stanze reali, in cui discutere faccia a faccia, e non vissute con l'effettivo distacco che le caratterizza nell'apparenza - sviluppata però forse non nel più interessante dei modi.
I personaggi sono stereotipi viventi ma il problema è che non sono molto più di questo e fondamentalmente il cervellotico piano del leader del gruppo prende il sopravvento su ogni altra cosa, anche sull'esigenza di raccontare e scavare più a fondo sulla psiche dei personaggi.

Un film decisamente rivedibile per la realizzazione, ma piacevole, che comunque non va molto oltre i meriti della ricerca astratta della novità in un genere ormai in difficoltà.



33 - Paranormal Activity (novembre 2011)




Micah ha una nuova telecamera.
Potrebbe sembrare soltanto un altro fichissimo videoamatore, ma invece scopriamo che ha uno scopo ben più elevato: riprendere ininterrottamente per tutta la notte quello che accade nella casa che condivide con Katie, la quale presto gli confida di essere perseguitata da un demone da quando era piccola.
A nulla serve accanirsi contro le fondamenta dell'abitazione, perché ci viene fatto chiaramente capire che esiste un filo diretto personale fra il demone e Katie, ragion per cui si odono mormorii, sussurri, cigolii di porte, lamenti enigmatici, scricchiolii del legno delle scale ed altre amene rappresentazioni sovrannaturali dell'emotiva suggestione.

La situazione evolve e nelle immagini delle riprese notturne (perché è solo in quella fascia oraria che l'entità si manifesta) si confeziona il crescendo della violenza psicologica instillata nello spettatore.
I rumori si fanno via via più inquietanti ed arcani, tanto che si rende necessario ascoltare il parere di illustri esperti, quali il demonologo che prima precisa la sua specializzazione in fantasmalogia, respingendo l'intenzione di voler aver a che fare con entità del tutto più complicate come i demoni, e successivamente li mette in guardia dallo sfidare l'ira della cosa ignota (contribuendo alla grande al senso del film).

Ma naturalmente è un horror e si pretende che i personaggi facciano cose stupide.
Quindi Micah non segue i suggerimenti del dotto specialista ed alimenta una sorta di ossessiva caccia all'uomo invisibile che sfocia in una situazione fuori controllo.

Il film, low-budget per definizione (è costato solo 15.000 dollari), è improntato ad un minimalismo quasi maniacale.
L'ambientazione si limita alla casa (di proprietà del regista fra l'altro), ed in particolare a massimo due, tre stanze, di cui è soprattutto quella da letto ad essere teatro degli avvenimenti.
Visivamente viene concesso poco o nulla, la suspence è ricercata e raggiunta con un sapiente mix di effetti sonori ed espedienti in debito con il filone cinematografico dell'iperrealismo (vedere Blair Witch Project), al punto che più o meno ci si può immaginare dove andrà a parare il film.
Lo stile infatti non è in quasi nulla dissimile da molti altri titoli dello stesso genere, recenti.

Insomma, Oren Peli tira fuori una gran furbata, confermata dal box office particolarmente munifico, ci aggiunge (scopiazzando) qualche ritocco claustrobico e l'esasperazione della telecamera sempre puntata addosso, poi rivisita il sottoprodotto del pesante retaggio della superstizione demoniaca e della mitologia cristiana ed il gioco è fatto.
Se proprio si richiede di trovare una spiegazione alla risposta massiva del pubblico, è da ricercare dunque più nella sostanza di un substrato residuale di quell'ancestrale iperemotività che viene scatenata da ciò che non vediamo (il vedo-non vedo è reso abbastanza bene nel film) che non da qualche upgrade tecnico di qualche rilievo, soprattutto in considerazione della ripetitiva invadenza degli effetti sonori.

«È una gran boiata, una scemenza pazzesca che non fa nemmeno paura. È stato solo un fenomeno pubblicitario» (Dario Argento)



34 - Into the wild (novembre 2011 - riedito)




Dieci anni dopo la biografia ad opera di Jon Krakauer ( Nelle terre estreme ) - tanto è il tempo impiegato da Sean Penn per ottenere i diritti e per concepire questo film - la straordinaria avventura di Cristopher McCandless diventa un film, tradotto in immagini dalla carta stampata (ancor prima di essere un libro, la sua storia aveva interessato i giornali e le riviste, fra cui Outside, per la quale scriveva proprio Krakauer).

Un viaggio di due anni, se volessimo attenerci allo spaccato della vita di Chris che è oggetto della narrazione; un'odissea ben più elaborata e che affonda le sue radici molto più lontano nel tempo se in realtà ci rendessimo conto di chi era questo personaggio e di quali fossero le motivazioni che lo spinsero a girovagare per ben due anni, subito dopo la laurea all'Università di Emory, in stato di nomadismo e animato da uno spirito di avventura e di autosussistenza basati unicamente sulla ricerca di una concezione di vita più alta, più nobile, e per questo necessariamente separata da tutto ciò che la Società contamina.

Lontano dalle falsità, dalle ipocrisie consumistiche (i cenni sono ovunque: la scena del denaro al rogo, i 24.000 dollari nel suo conto in banca ceduti in beneficienza, il rifiuto del regalo di un'auto nuova in favore del sentimentalismo provato per la sua Datsun) e dalle bugie, anche e soprattutto della sua famiglia e di suo padre.
Un rapporto molto complesso e conflittuale, quello con i genitori, che il film usa (anche troppo) e su cui calca la mano nei momenti di maggior difficoltà e quindi più drammatici.
I rapporti personali mai vissuti con pienezza e rifuggiti con ostinazione, nella consapevolezza di non volerli (e forse non saperli) gestire, non tanto perché non desiderati, ma perché limitanti, riduttivi, quasi egoistici di fronte all'immensità del mondo da esplorare, alla riflessione fortificata dall'ascetismo sul senso del proprio posto nel mondo.

Giunto nella regione del Denali, in Alaska, dopo una serie piuttosto ricca di esperienze nell'Ovest degli States di cui il film dà risalto in modo un po' disordinato con ripetuti passi indietro rispetto alla storyline, Chris si avventurava finalmente nella sua esperienza di vita massimale, per tutta la vita agognata, quella che finalmente gli avrebbe fornito la misura del suo valore.
il Nord, in una parola. La Terra narrata dai suoi idoli letterari, come London, il miraggio poetico contenente tutti i suoi sogni, gli stessi in cui si perdeva condividendo i nobili ideali di Tolstoj e di Thoreau.
Quell'animus vivendi, l'irrequietudine e l'imprudenza che lo portavano a desiderare nuove sfide ogni giorno erano però anche gli stessi tratti caratteriali che lo portarono, in quei 112 giorni a commettere tanti, troppi errori, sicuramente in parte legati anche all'inesperienza, ma in fondo parte di un disegno più grande di cui McCandless dava prova di non pentirsi troppo, con le sue ultime parole ("I HAVE HAD A HAPPY LIFE AND THANK THE LORD. GOODBYE AND MAY GOD BLESS ALL").

A parte le imprecisioni narrative e le distorsioni legate alle esigenze della fiction, un film attento e con l'intento sincero di trasporre una storia talmente piena di spunti, più filosofici che altro, che alla fine si trasforma forse in un fardello troppo grave da portare nel cammino dei 140 minuti di pellicola.
Penn, che fa ottima figura anche in qualità di regista, taglia e cuce cercando di dare un senso armonioso al dispiegarsi degli eventi, prova a sopperire all'eloquenza delle parole allestendo un'atmosfera da 10 e lode e su cui non c'è nemmeno da dibattere.
Con la fotografia - davvero qualcosa di inenarrabile -, gli scorci e le inquadrature sui panorami paesaggistici, i dettagli catturati qua e là con grande sapienza e le musiche (Eddie Vedder e Kaki King dovrebbero dire abbastanza), il vero punto di forza del film in tal senso, si raggiunge una sorta di contiguità tale da restituire al visivo e all'udito sensazioni probabilmente impagabili.

Per contro, notevoli certi "arrangiamenti" stilistici e certe superficialità di fondo, anche in alcune scelte tese a puntare insistentemente su tutta una serie di aspetti intimi, famigliari e ambientali di McCandless, sulle sue difficoltà ad accettare la realtà del modello sociale americano e molto tacendo però delle reali ragioni, idealistiche e rigorosamente morali, che lo avevano accompagnato sin da giovane.
Ecco, di tutto questo il film non fa quasi per nulla cenno, e la sensazione finale, per chi non avesse letto il romanzo di Krakauer, è che si tratti di una sorta di ripicca, di una fuga adolescenziale, di un capriccio in sostanza ai danni dei genitori oppressivi e litigiosi (e non sono casuali le insistenze sul figlio scomparso di Jan, la hippie conosciuta nel Nord California), in un certo senso avallando le critiche anche feroci piovute su McCandless all'indomani della pubblicazione dell'articolo originario della sua morte su Outside, che spinsero proprio il giornalista (Krakauer) ad andare più a fondo.

In conclusione un film d'atmosfera, in cui spicca la buona prova di Emile Hirsch (qui praticamente in un one-man show) e che in generale, se si tratta di considerare la pura aderenza agli eventi e di rispondere al primo scopo di un lungometraggio di genere biografico, si può dire ben riuscito, ma che lascia qualcosa a desiderare per quanto riguarda il piano più contenutistico e si rivela troppo poco incisivo sull'indagine psicologica e spirituale di McCandless; per quella rivolgetevi a Krakauer: non ve ne pentirete di certo.



35 - Orphan (novembre 2011)




Per la serie praticamente interminabile di film horror con a soggetto una famiglia messa in pericolo dall'avvento di un intruso vestito di buone intenzioni ma che in realtà si rivela non esserlo, ecco Orphan, produzione statunitense-canadese (fra cui c'è anche lo zampino di L. Di Caprio), diretta da Collet-Serra, che aveva alle spalle l'esperienza di genere de "La maschera di cera", segnalatosi più che altro come blando blockbuster.

Il pretesto è quello dell'adozione, necessario rimedio contro l'infelicità e il vuoto causato da un recente lutto nella vita di John e Kate.
Esther si trova in un orfanotrofio e si capisce subito che non è una bambina come le altre: è in disparte, si dedica (con una certa abilità) alla pittura, è capace di dimostrarsi affabile quanto basta perché i due si dimentichino in fretta di quel suo modo di essere eccentrico e decidono di prenderla in adozione, assommandola al resto della progenie: Daniel, da subito diffidente, e Max, bambina sordo-muta ma molto sveglia.

Silenziosamente e con grande astuzia, Esther si guadagna l'affetto incondizionato del padre, mentre illude la madre per tenerla a distanza di sicurezza, prima di attuare il suo machiavellico piano.
Una volta conquistata la fiducia del genitore e trovato il modo di sfruttare a suo vantaggio gli scheletri nell'armadio della madre, ogni piccolo particolare sembra convergere nella direzione prestabilita.

Niente di troppo originale, a livello di sviluppo e di sceneggiatura, tema già visto e stravisto, nelle sue innumerevoli sfaccettature, e del resto non esistono particolari imprevisti o deviazioni da far pensare a qualcosa di trascendentale.
Però, e va detto, Orphan è un film che funziona.

Funziona dal punto di vista della narrazione perché produce un buon background, ma soprattutto perché si affida totalmente alla tratteggiatura del personaggio di Esther, vero meccanismo di innesco della suspence, ben gestita sin dalle prime battute del film. La maturità e persino la volgarità della bambina, finendo con lo stridere con l'innocenza del suo aspetto creano il presupposto per catturare l'attenzione dello spettatore, mescolando assieme elementi certamente già visti in un'alchimia che produce l'effetto sperato, e non è trascurabile per un buon thriller-horror che si rispetti.

Difficile ormai riuscire a suggestionare il pubblico degli aficionados, un po' per l'ovvia ristrettezza di cui risente fisiologicamente il genere, sia per l'inflazione di titoli similari.
Questo film ovviamente, a tratti esce dal seminato, e incappa in qualche banalità, e direi che il finale non è il suo punto forte, ma il lavoro nella sua globalità merita sicuramente almeno una sufficienza tonda.



36 - The Road (dicembre 2011)




La strada di Cormac McCarthy è una via impervia, misteriosa, ambigua: può celare pericoli dietro ogni angolo, ma è l'unico sentiero lungo il quale coltivare la speranza, per quel poco che ne è rimasto.
Anno imprecisato, in un futuro ipotetico.
Una coltre di nebbia ed oscurità è diventata il cielo; mesi dopo la catastrofe la cenere cade ancora dall'alto come neve, gli alberi si sradicano e rovinano a terra, in un lento ed assurdo tormento.

Ci ritroviamo un vecchio uomo (magnifico Viggo Mortensen) ormai allo stremo della vita, e un bambino (Kodi Smit-McPhee), che quella vita l'ha appena iniziata a conoscere, e che non ha ricordi di un mondo precedente, in cui il mare era blu e vivere non significava sopravvivere; non ce l'ha, perché è nato dopo.
Il sole è oscurato, un altro inverno è alle porte e fa sempre più freddo. Sono in viaggio verso sud, come aveva detto lei, la madre del bambino, prima di sparire nell'oblio, rassegnata e stanca.

John Hillcoat traspone il romanzo di McCarthy in un modo che definire fedele è riduttivo. Difficile pensare di trasformare la prosa nuda ed essenziale dello scrittore americano, simile ad un diario di viaggio, quasi una fredda cronaca degli eventi; Hillcoat si serve quindi di immagini monotòne, di lunghi silenzi misurati, e scambi di battute rapidi e senza censure buoniste, nella più empia devozione allo sprezzante sentimento che fa da sfondo ad un pianeta in ginocchio.
La fotografia è lucida, realistica; l'alternanza fra il grigionero del presente e i colori accesi e vividi del passato conducono l'occhio dove ancora non è arrivata la coscienza. Il trucco è incisivo, lodevole, funziona perché è coerente, ed è immediata la reazione umana, perché per quanto fantasiosa sia l'ipotesi prefigurata, non lo può essere mai abbastanza.

La ricerca in profondità dell'uomo ridotto alla solitudine e allo stato selvaggio è raffigurata nei volti emaciati, i corpi pelleossa, e quell'andatura ciondolante che risparmia solo chi ha rinunciato; la fatica e la sofferenza sono erette a virtù imponderabili.
Cosa è disposto a fare un uomo quando ha perso tutto? Non c'è più posto per l'ingenuità, né per la bontà. Le parole perdono senso e sono solo le azioni a poter definire una persona, se ancora la si può definire così.

Il bambino, iniziato ad un cinismo che non è nelle sue corde, racchiude in sé tutto ciò che è fuori posto, in quel nuovo mondo ("Se il suo non è il verbo di Dio, allora Dio non ha mai parlato"); custodisce la speranza e la generosità, beni ormai estinti, ma è anche capace di provare la paura di chi non ha ancora compreso cosa sia il distacco dalle cose belle, di chi non ha vissuto abbastanza per poter fornire una misura di ciò che si aspetta dal mondo.

Gli incontri si susseguono via via, lungo la Strada, come un male necessario. Alla ricerca della salvezza, se ne esiste ancora una, in qualunque forma essa sia.
Sperando in un po' di fortuna, sperando di accompagnarsi ad altri che, da qualche parte, come loro, portano il fuoco.



37 - Non lasciarmi - Never let me go (dicembre 2011)




Katie, Ruth e Tommy, esempi di un'intera generazione di esseri umani destinati alla donazione degli organi, nascono e crescono nella struttura di Hailsham, dove verranno istruiti per la vita che li aspetta, ma tacendo loro la verità sulla loro esistenza e sul loro destino.
Lo scopriranno grazie ad una tutrice colta dal richiamo dell'empatia e dalla loro stessa vita dopo aver compiuto i 18 anni, che proseguirà attraverso stadi già pianificati per permettere loro di compiere il ciclo che li vedrà esaurire la propria utilità nel mondo.

Il progresso scientifico ha debellato le malattie, ha sconfitto la morte, consacrando ai benefici della vita "nuova" l'arte, la creatività, l'individualismo; ciò che rende umana una persona. In un'esistenza segnata da tappe già scritte e nessuna deviazione possibile non esiste altro conforto se non quello dell'intensità dei pochi attimi che separano una parvenza di vita - ma pur sempre una vita - da una morte inumana, quasi animalesca.

L'ideale di una società perfetta è raggiunto con la progressiva affermazione di quel razionalismo di cui scriveva Huxley nel suo "il mondo nuovo", questa volta non per controllare le masse e garantire la stabilità sociale, ma sacrificando vite artefatte, create in laboratorio all'altare del desiderio da sempre inespresso di tutta l'umanità: la possibilità di vivere per sempre.

Senza avere probabilmente la pretesa di offrire risposte a tutte le domande scatenate dall'affondo coraggioso del tema, questo film ci offre una visione estremamente limitata e di parte, cioè quella delle cavie, non con l'obiettivo di parlare dell'umanità (inteso come genere umano), ma per riflettere tutte le considerazioni sull'umanità (intesa come caratteristica essenziale) di chi viene qui considerato spoglio di un'anima, privo di uno spirito, costretto a rinunciare a se stesso per vocazione, finendo con l'offrirsi ad altri, a lui (o lei) peraltro ignoti.

Cercano il significato delle cose di cui nessuno ha spiegato loro l'utilità: l'arte ricorda loro che nessuno può essere costretto a sentirsi solo utile; il focus sui loro sentimenti vacui e sulle relazioni non dissimili da quelle di tutti gli altri esseri umani stanno a dimostrare l'evidente richiamo d'affetto di cui essi sono meritevoli.

Un taglio drammatico affligge tutto il film, la cui struttura risulta già piuttosto appesantita dalla scelta di ritmi molto lenti e cadenzati. Le inquadrature puntano molto sull'inespressività dei protagonisti (Carey Mulligan, Keira Knightley, Andrew Garfield) con una decisa propensione per i primi piani.

Piuttosto straziante, tutto considerato. Aggraziato, comunque, se la cava cercando di costruire nello spettatore una sensazione di disagio e di rassegnazione, in modo da ottenere una reciprocità con i suoi protagonisti.
Il risultato non sarà sensazionale, ma il messaggio arriva forte e chiaro.

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