lunedì 5 marzo 2012

Drive, una mente complessa nella complessità moderna


48 - Drive (marzo 2012)



Il protagonista di questo film è un tipo solitario, taciturno, schivo. Al punto che di lui non sapremo nemmeno il nome, ma solo che si tratta di un driver, un pilota che si guadagna da vivere fornendo i suoi servigi al volante di una qualunque auto, senza badare troppo alla legalità o alla dignità del lavoro.

Ambientato nella suggestiva città degli angeli, delle cui luci sono inondate le riprese notturne che accompagnano il viaggio silenzioso lungo le strade metropolitane, questo Driver si fa notare poco per volta, non lesinando anche una serie di lungaggini manieristiche peraltro gradevoli, per poi esplodere in un vortice di violenza (e di clichè).

E' un film caratterizzato dai forti contrasti, condizionato pesantemente dal timbro del suo regista, che fa seguire ai ritmi molto cadenzati di partenza accelerate improvvise e che alterna scene di assoluta delicatezza ad altre di cui la violenza è solamente la rappresentazione visiva più immediata di un contesto genericamente più drammatico. E' anche un film di poche parole, letteralmente, dove ciò che non viene espressamente mostrato fa il paio con i lunghi silenzi espressivi e il non-detto diventa il miglior complice all'interno di un'opera che non vuole offrire risposte, ma le cui domande si prestano volutamente a più interpretazioni. Così lo spettatore diventa una parte integrante dell'equazione e non un semplice voyeur.

N. Winding Refn, che già ci aveva abituati alla sua schizofrenia stilistica dietro la macchina da presa con Bronson, prende spunto dal romanzo di Sallis per raccontare una storia di ordinaria criminalità che non fornisce di per sé appigli particolarmente nuovi al cinema (anzi), ma lo riveste del suo stile certamente intrigante ed usa gli strumenti a sua disposizione per raffigurare in Ryan Goslin (un'interpretazione abbondantemente sopra la sua media, la sua) il volto emblematico dell'alienazione e della solitudine, che non potrebbe trovare miglior espressione se non nell'immagine dell'uomo, singolo e sperduto, in una delle città più grandi e popolose al mondo.

Per farlo, Refn richiama a sé tutti i cenni, fin troppo ovvi, ad un capolavoro del genere, ovvero quel Taxi Driver il cui parallelismo è riscontrabile non solamente nella caratterizzazione del protagonista o nella violenza scaturente dalle vicende in cui è coinvolto ma anche nel sottotesto, nell'introspezione psicologica che tenta di mettere a nudo il dramma. E se Travis Bickle veniva travolto dalla propria follia mentale nel tentativo di districare la matassa del degrado a cui assisteva impotente e diventare eroe, qui il driver è una mente molto più lucida e fredda che si troverà suo malgrado a dover prendere forse per la prima volta una decisione che sarà la sola che realmente potrà prendere, traducendosi in un Real hero, un eroe reale dei giorni nostri.
L'uomo identificato nel tutt'uno con il mezzo (in questo caso un veicolo) diventa dimostrazione dell'incapacità di adattarsi alla necessità di legami personali e allo stesso tempo ne è strumento di indagine e di risoluzione.

Andando oltre quelle che sono le atmosfere - comunque validissime, consacrate da una colonna sonora piuttosto adatta e ben riuscita, caratterizzata dai suoni artefatti dei synth e sonorità in linea con quello che è il minimalismo visivo - di questo film non si può non apprezzare la regia non convenzionale di Refn (premiata a Cannes), capace di calarsi con indifferente naturalezza sia nella sinteticità dei silenzi che nell'impeto dell'azione e la cui verve creativa trova molta libertà: dalla scelta delle inquadrature all'assemblaggio di alcune sequenze particolarmente efficaci ed artisticamente degne di nota, dalla scommessa interpretativa su cui incardina buona parte del suo lavoro (la monoespressività di Gosling è più funzionale di quanto si pensasse) alla polivalenza concettuale del finale.

Il risultato è qualcosa di non trascendentale e forse con il sapore di scopiazzatura, d'accordo, ma dietro all'attenzione per la storia c'è un modo tutto personale di raccontarla che la rende a suo modo diversa e quindi interessante. Refn scongiura il pericolo di enfasi (visto il genere) e di logorrea spingendo forte sul tasto opposto e mettendo lo spettatore nella posizione di intuire e di interpretare. Parte del merito va ovviamente a Gosling, ma senza dimenticare una Carey Mulligan ridotta al minimo sindacale e i bravi attori di nicchia come Bryan Cranston, Ron Perlman e ovviamente quello stesso Albert Brooks che 36 anni orsono recitava proprio in Taxi Driver.
Sembra passata un'eternità, eppure le storie che ci rappresentano e che ci coinvolgono finiscono per rimanere sempre le stesse, come le canzoni.


Scena scelta









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