lunedì 27 gennaio 2014

Bronson


67 - Bronson (gennaio 2014 - riedito)



È la storia, vera, di Michael Peterson. Come la didascalia del film ci ricorda, il più famoso detenuto nella storia del Regno Unito nonché individuo affetto da un evidente squilibrio che lo porta a manifestare una spiccata personalità violenta - in ragione della quale ottiene il soprannome di "Bronson", come Charles, il giustiziere della notte - ed imprevedibile, nel perseguimento di quella che lui chiama la sua vocazione, cioè la notorietà.

Per lui ogni prigione non è che un palcoscenico sul quale esibirsi, proprio come quello in cui si misura realmente nella geniale scelta di Refn sin dalle battute iniziali, ed in cui ottenere dal suo pubblico il riconoscimento che pensa di meritare.
Il suo continuo andare oltre le righe, aggravato peraltro dalle motivazioni futili, come la ricerca ossessiva della violenza che gli continua a valere l'isolamento da più di 30 anni, definisce in modo tale il suo personaggio che è, di fatto, impossibile scindere l'uomo che vorrebbe essere da quello che è.
La missione che insegue è presa con serietà artistica, sempre per dimostrare qualcosa.

Con un personaggio del genere, contraddittorio, controverso, dalla natura inesplicabilmente feroce, fortemente viscerale e comunque dal magnetismo inesauribile, Refn riesce a costruire un film che allo stesso modo del suo protagonista, mentre ne descrive le "gesta", si mantiene su un precario equilibrio fra tragedia e comicità, fra realtà e finzione, fra artistico e ridicolo.
Non è il più semplice dei compiti, ma il regista (ormai uno dei registi più affermati in circolazione) evidentemente attratto da una certa schematicità, molto evidente nei forti contrasti che caratterizzano i suoi film nonché nei tratti che accomunano i suoi protagonisti, intravede proprio in questo bilanciamento tutte le potenzialità che gradualmente con il grandissimo apporto sullo schermo di Hardy deflagrano tanto realmente quanto reali sono le esplosioni della rabbia di Bronson, mantenendo un sottofondo grottesco che è frutto, più che della storia in sé, dell'ottima originalità con cui Refn cavalca l'ironia surreale direttamente attinta dalla vita vera, quotidiana.

Il suo messaggio più efficace, perché autentico, è quello con cui fa di una personalità così complessa e allo stesso tempo così scenica (teatrale, appunto) un'entità che si riesce a toccare, che è volgarmente materiale tanto quanto è isterico il linguaggio emotivo del film.

E quindi proprio nella fisicità, nel linguaggio del corpo, nell'espressività della mimica facciale, nell'ambivalenza con cui riesce a far emergere e dialogare le sue personalità o a monologare (potrebbe sembrare la stessa cosa, ma non lo è) è definitivamente clamoroso il servizio che la prova di Tom Hardy rende al film. Il suo è in pratica un one man show, una parentesi lunga quanto tutto il film in cui rimane devoto all'essenza del personaggio, sempre dall'effetto dinamitardo ma evidenziandone oltre le superficialità anche i tratti meno animaleschi con mestiere. Refn si fida di lui e ne coglie il grande impulso, regalando le solite sperimentazioni, fra inquadrature poco convenzionali, ralenti, esplosioni musicali improvvise (sempre intenso il ricorso alle atmosfere dell'ethereal wave e del synthpop) in un incedere condiscendente di un occhio sempre curioso ed inquieto.

Film bizzarro. Basterebbe prendere la scelta del soggetto per rendersi conto che per Refn l'idea di interessante è quantomai eterogenea, ma poi la lettura che compie, così personale, è qualcosa che in un certo modo nasce dall'esigenza di evadere dagli schemi e lasciare un'impronta visibile. Casualmente (o magari no) come Bronson, questa figura imponderabile e non propriamente risolta a cui non importa davvero di passare 30 anni in isolamento, dietro le sbarre, o lontano da esse: conta il momento, catturare la performance.
L'arte.

L'uomo rimane l'uomo, nient'altro che un corpo nudo ma l'idea viaggia trasversalmente: è qui, nella simbiosi che infetta tutte le componenti del processo che Refn ottiene il suo più grande risultato, che è quello di produrre coinvolgimento e sospensione da questa storia, nonostante non ci sia propriamente una storia, e a dispetto delle molte riserve che ognuno di noi potrebbe avere, compresa la repulsione. E l'esito della sperimentazione ottiene di gettare, assieme alle ombre, un fascino su un uomo che, qualunque cosa sia esattamente, altrimenti non ne meriterebbe.


Scena scelta










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