domenica 23 febbraio 2014

Il sospetto


68 - Il sospetto (febbraio 2014)



Lucas, un insegnante d'asilo con passato nebuloso e rapporti pendenti incrinati con la famiglia viene messo in una fragile posizione quando una bambina, Klara, dà ad intendere di essere stata da lui molestata. Non fosse che, probabilmente per una piccola ripicca infantile e certamente nascondendoci qualcosa, la bimba si sia inventata tutto di sana pianta.

Ma la parola è seminata con una tale veemenza, propria dell'ingenua e naturale franchezza dei bambini, che immediatamente viene accolta all'interno di tutta la comunità, trasformandone i connotati.
E dato che con una adeguata cassa di risonanza anche il più piccolo sussurro può trasformarsi in un boato terrificante, nasce e si ingrossa, passando di bocca in bocca e di pregiudizio in pregiudizio il sospetto.

Il film di Vinterberg si focalizza su un argomento tanto delicatissimo quanto ricco di sfaccettature; sicuramente sociologicamente zeppo di spunti interessanti.
Assistiamo di fatto al progressivo inspessirsi di una metaforica lente, una lente che ogni membro della società adotta con Lucas e che ne determina via via la colpevolezza, attraverso la perdita o l'offuscamento della prospettiva opposta.

Non si tratta cioè propriamente della certezza della colpevolezza, non più dal momento in cui la pulce viene messa nell'orecchio e il ronzio, vero o presunto che sia, diventa reale. Diventa vero perché sentimento partecipato, condiviso, impossibile da rimuovere senza esserne emarginati a propria volta; il semplice aver preso in considerazione l'ipotesi fa dell'ipotesi, e quindi del ronzio incessante, una tortura a cui si può resistere solo permettendole di diventare verità.

Naturalmente la legge fa il suo corso, ma il giudizio popolare, quello della gente a stretto contatto della quale si vive viaggia su binari separati: la prima necessita di prove tangibili per emettere una sentenza certa; il secondo ha il "vantaggio" (discutibile) di formare il proprio (pre)giudizio indipendentemente da esse.

Al di là della vicenda, sicuramente in sé già trattata svariate volte, è la sovrapposizione delle facciate sul piano psicologico, e umano, che monopolizza l'attenzione del film, tingendosi inoltre chiaramente di metafora per tentare di approssimare il suo punto di vista (stilisticamente parlando molto precisi i riferimenti alla natura delle cose, generalmente intesa).

Partendo dal presupposto di avere a che fare con qualcosa di necessariamente invisibile, strisciante, indistinto, corroborato dai lunghi silenzi interiori ed indagatori che si mischiano a quelli delle languide boscaglie tardoautunnali in cui viene praticata la caccia (il film originale porta appunto questo titolo decisamente più centrato), il tutto fuso nell'interpretazione poco meno che perfetta di Mikkelsen nel ritrarre questo tipo di personaggio, tristemente demonizzato, ostracizzato, trascinato alla più totale infamia sulla base di un semplice pettegolezzo (poco rileva che l'intenzione non fosse questa e che il tema nella sua importanza meriti ben altro appellativo), il film riesce in maniera superba a comporre un ritratto autentico di una situazione autentica.

Ovviamente alcuni dei suoi personaggi arrivano a certi passaggi un po' forzati, però sono complessivamente efficaci alla rappresentazione di un controllo che sfugge a tutti i suoi livelli più essenziali, fino a giungere al buon senso; la recitazione di Mikkelsen come detto aiuta moltissimo in questa direzione. Il progressivo disfacimento interiore è scolpito nel volto consunto del suo Lucas e proprio nella sua perdita (definitiva?) di qualsiasi tipo di credibilità sta la forza granitica delle idee come quelle cui si riferisce il titolo, probabilmente impossibili da estirpare perché è dove ci conduce la collettivizzazione come meccanismo di difesa contro il singolo individuo, sia questi una reale minaccia per la comunità o sia solo il fantasma di un'angoscia sociale la cui ammissione è sempre preferibile alla convinzione della propria vulnerabilità.


Scena scelta










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