lunedì 3 marzo 2014

American Hustle


77 - American Hustle (marzo 2014)




Irving Rosenfeld da piccolo truffatore occasionale si ritrova ben presto e suo malgrado in un'operazione dell'FBI di portata nazionale escogitata dall'agente Richie DiMaso che ben presto si rivela fuori controllo. La vera storia dell'operazione Abscam andata in scena negli anni '70 e che ripercorre la storia di quell'America.

Sulla storia non c'è molto altro da dire, se non che è tragicomicamente aderente ai fatti e che i personaggi con le loro bizzarrie ne estremizzano ulteriormente i caratteri. Gli intrecci si reggono infatti tutti sul loro aspetto fisico e sulla loro tratteggiatura psicologica, su cui il film preme molto aggiungendo una narrazione fuori campo che, assieme all'argomento del film, ammicca al noir (la femme fatale della Adams) proprio di quegli anni.

Lo stesso fanno costumi e scenografia, oltre che musiche, assolutamente all'altezza. La regia di Russell non è priva di alcuni buoni momenti ed è essenziale, asciutta nel dare voce al cast, di prim'ordine, che è l'unica vera cosa che risalta.
La bravura di Bale non conosce limiti, se la cavano benissimo anche A. Adams, J. Renner e B. Cooper, mentre l'asso nella manica è Jennifer Lawrence la cui importanza attoriale oltre che evidente non è né sorprendente né marginale.

Gli acuti recitativi, che fra l'altro annoverano un'incursione di R. De Niro, riescono a sopperire in parte ai ritmi tutt'altro che impressionanti, con una sceneggiatura a tratti molto poco convincente e le cui stravaganze sortiscono l'effetto di distogliere l'attenzione dello spettatore, rapendolo e portandolo in una dimensione né prettamente drammatica né precisamente comica.

L'impalcatura narrativa è molto vecchia e pesante, poco sopportabile nel suo complesso e non basta qualche battuta per farcelo dimenticare, anzi semmai lo rende più evidente. Anche l'introspezione funziona poco e sembra più un riempitivo che un'effettiva necessità.

La conclusione è che il successo pubblicitario di cui ha potuto godere sta quasi esclusivamente nei nomi dei protagonisti (incluso un David Russell che perde qualcosa rispetto a The Fighter e Il lato positivo) e nella grossa spinta mediatica, perché anche se c'è una storia curiosa che è simpatica da ascoltare, attori bravi (ma non eccelsi) e la fattura del film sia più che buona, questo rimane un film che non raggiunge né una originalità né una profondità né un intrattenimento né una suspence tale da definirlo importante; cioè, un film di cui si poteva tranquillamente fare a meno.


Scena scelta










domenica 2 marzo 2014

12 anni schiavo


76 - 12 anni schiavo (marzo 2014)




McQueen sceglie l'odissea di Solomon Northup, basato sull'omonima biografia, per affrontare da regista di colore britannico qual è il tema dello schiavismo americano.
Una storia essenzialmente straziante che vede il suo protagonista, da un giorno all'altro, essere svuotato di tutto ciò che ha e quindi di tutto ciò che è.

Con questo atto introduttivo, McQueen inizia quindi la sua opera di messa a nudo (non solo dal punto di vista fisico): il suo film è inevitabilmente legato all'esperienza del dolore come lo sono stati prima Hunger e poi Shame; anche qui c'è tutta una esteriorizzazione della sofferenza che non è solo quella apertamente ostentata nella violenza delle torture e nelle punizioni corporali, ma che si trova anche fra esilii e lontananze, nelle lettere scritte e poi bruciate, nell'incapacità di trasmettere gioia ad un corpo che riconosce le note di un violino suonato.

In una cornice scenica ricreata ad arte dove è illustrata con dettaglio la condizione della schiavitù e dove si incastrano le vite che incontriamo lungo il cammino, la prospettiva che ci viene regalata è quella di un uomo ferocemente aggrappato alla propria umanità: un uomo che in 12 anni di segregazione è costretto a compiere atti disdicevoli per sopravvivere, ad ignorare i propri impulsi e sentimenti umani ma che cerca al contempo di non perderli del tutto.
È questa determinazione, racchiusa nella penosa compostezza del suo protagonista a parlare fra le righe di un film altrimenti amorfo.

Una prova non facile per Chiwetel Ejiofor che però si dimostra all'altezza di un cast che comprende Fassbender, Giamatti, P. Dano, B. Pitt e che dà all'insieme probabilmente la maggior ricchezza attoriale ed espressiva fra i film di punta di quest'anno.
Una recitazione notevole che ha il merito di oscillare fra bene e male senza ridurre il tutto ad una vuota rappresentazione manichea sul rapporto schiavo-padrone e senza soprattutto regalare sensazionalismo o retorica, prede facili nella trattazione di una realtà simile.

Anche la dicotomia bianco-nero non è gretta, superficiale nel suo corrispondere a male-bene; l'intento di McQueen sembra invece quello di cercare disperatamente, attraverso gli occhi del suo protagonista, proprio qualcuno che possa smentire questi stereotipi ed è a questo prezzo, a questo rischio implicito, che il regista vincola la difesa della propria dignità, la conservazione del proprio spirito.
Lavorando con la cinepresa, McQueen offre una vastità di cenni ai rituali, alla ripetizione (come in quell'atroce piano sequenza dell'impiccagione), in parte per trasmettere l'idea claustrofobica di un tempo che sembra non passare mai - la resa qui non è perfetta ed è fra i difetti del film - e in parte determinando una sorta di scissione fra materia e anima perorando in un certo senso l'ipotesi che la seconda possa sfuggire o anche sentirsi fortificata nell'afflizione inferta a ciò che la contiene solo se adeguatamente nutrita con la negazione della sottomissione.


In tutto ciò, a spiccare sono sicuramente le scene più brutali e truci, ma il film non se la cava con facili scorciatoie o morali. Tentare di rimuovere le falsità senza venire a compromessi e promuovendo allo stesso tempo qualcosa di diverso per raccontare di un lirismo simbolico disseminato ovunque è qualcosa che fa di questo film un film a suo modo audace, originale: impara la lezione dai suoi predecessori ma ci aggiunge un'angolazione fresca, personale e rimuove le censure così da compenetrare lo spettatore e renderlo partecipe di qualcosa che non si ferma ad una nuda narrazione schematica, ma che vuole lasciare il marchio indelebile in ciò che racconta.

Fra tutto quello che funziona in questo senso, da ricordare anche il ritratto offerto dalla performance di Lupita Nyong'o, che nella sua capacità di incrinare e agitare le coscienze, ha un'influenza importante su quello che per estensione ed intensità non può che essere un soverchiante sentimento di sopraffazione difficile da digerire che il film è molto attento a non sminuire e che porta con sé fino all'ultimo respiro, ansimante, del suo protagonista.

Scena scelta










sabato 1 marzo 2014

Dallas Buyers Club


75 - Dallas Buyers Club (marzo 2014)




Quando per una serie di cause fortuite Ron Woodroof riceve la notizia di avere contratto l'HIV, assieme ai suoi occhi si apre anche il sipario su una malattia, l'AIDS, che funge da soggetto di una vicenda personale a tinte fortemente drammatiche ma che è anche oggetto di indagine sociale, rivelatrice di un sostrato di omertà, collusione e sofferenza seppellito sotto alla normalità del pregiudizio.

Lo sfondo sociale, molto più che accennato, non è casuale: siamo nel Texas dalle idee conservatrici ed omofobe degli anni '80, dove la dimostrazione virile (evidente sin dalla prima scena) e mentalmente ristretta, nel suo semplicismo dogmatico con cui ricollega la malattia all'omosessualità (evidente nel riferimento a Rock Hudson), determina i tratti di un uomo che è figlio di un ambiente che è anche quello che lo scarica non appena viene a conoscenza della sua condizione.

McConaughey incarna, in una performance che gli è valsa il plauso della critica, questa figura prima machista e poi tollerante, perché forzato alla tolleranza prima di tutto verso di sé e perché la malattia rappresenta il momento fondamentale in cui ogni atto di ignoranza deve essere messo da parte.

Nell'evoluzione che l'attore sopporta sulle sue spalle, assieme al resto del corpo ridotte a poca roba dopo gli oltre 20 kg persi per la parte, c'è un percorso di comprensione del dolore e soprattutto delle logiche con cui si viene ad avere a che fare con esso che è un colossale atto di denuncia delle più minacciose pratiche di inciviltà e di ingiustizia sociale.

Da una parte, lo sbugiardamento del cliché trogloditico nei confronti di un tema evidentemente considerato con superficialità e dall'altra il parziale inseguimento di quello stesso ideale giustizialista già visto nell'Andrew Beckett di Tom Hanks in Philadelphia salvo che questa volta il bersaglio contro cui puntare il dito è quello delle case farmaceutiche e dell'FDA, oltre che più in generale del sistema assistenziale-ospedaliero americano, nell'attacco feroce del film, più orientato all'interesse privato che al benessere dei suoi malati.

Nasce così il Dallas Buyers Club, come tentativo di affermare il principio della lotta sociale, di una causa comune portata avanti con l'impronta di una disperazione legata al tempo che fugge che è fotografata nei corpi scarni e trasformati dei due protagonisti (dove anche il trucco lascia il segno).

È un film di attori, in cui l'aspetto che più risalta è proprio la recitazione, e che vuole sollevare questioni, riaprire ferite e continuare una battaglia che ha vissuto momenti peggiori di questo, ma che non è finita.
McConaughey e Leto si completano, si attraggono e si repellono allo stesso tempo, compiono qualcosa di artisticamente meritorio e specialmente il primo è una grande sorpresa. Il regista tende a non intromettersi nel loro stato di grazia ed evita il più possibile di togliere la cinepresa dalla faccia del suo protagonista, al punto che lo spazio ritagliato al supporting cast è così marginale che solo la recitazione qua e là impressionante di Leto riesce a farci dimenticare quale one-man show sia in realtà questo dramma (il che però allo stesso tempo la dice lunga sulla sua bravura).

La storia ritratta è, ancora una volta, infallibile nella sua raffigurazione, per quanto nei ritmi non sempre eccelsa e condizionata da quel genere di performance che riescono poche volte nella vita di un attore.
Un film comunque che pur distinguendosi non è eccezionale, che si tinge di verità nella sua denuncia ed entra nella sfera di un civil right movie con più prospettiva ancora.

Uno sguardo furioso e insieme pietoso raccolti in un'esperienza che ha molto di corporeo, di umano, di vero, di aderente ma a cui l'interpretazione caparbia, orgogliosa e trionfante di McConaughey regala una nuova dimensione; e al film una lontana grandezza.


Scena scelta