sabato 1 marzo 2014

Dallas Buyers Club


75 - Dallas Buyers Club (marzo 2014)




Quando per una serie di cause fortuite Ron Woodroof riceve la notizia di avere contratto l'HIV, assieme ai suoi occhi si apre anche il sipario su una malattia, l'AIDS, che funge da soggetto di una vicenda personale a tinte fortemente drammatiche ma che è anche oggetto di indagine sociale, rivelatrice di un sostrato di omertà, collusione e sofferenza seppellito sotto alla normalità del pregiudizio.

Lo sfondo sociale, molto più che accennato, non è casuale: siamo nel Texas dalle idee conservatrici ed omofobe degli anni '80, dove la dimostrazione virile (evidente sin dalla prima scena) e mentalmente ristretta, nel suo semplicismo dogmatico con cui ricollega la malattia all'omosessualità (evidente nel riferimento a Rock Hudson), determina i tratti di un uomo che è figlio di un ambiente che è anche quello che lo scarica non appena viene a conoscenza della sua condizione.

McConaughey incarna, in una performance che gli è valsa il plauso della critica, questa figura prima machista e poi tollerante, perché forzato alla tolleranza prima di tutto verso di sé e perché la malattia rappresenta il momento fondamentale in cui ogni atto di ignoranza deve essere messo da parte.

Nell'evoluzione che l'attore sopporta sulle sue spalle, assieme al resto del corpo ridotte a poca roba dopo gli oltre 20 kg persi per la parte, c'è un percorso di comprensione del dolore e soprattutto delle logiche con cui si viene ad avere a che fare con esso che è un colossale atto di denuncia delle più minacciose pratiche di inciviltà e di ingiustizia sociale.

Da una parte, lo sbugiardamento del cliché trogloditico nei confronti di un tema evidentemente considerato con superficialità e dall'altra il parziale inseguimento di quello stesso ideale giustizialista già visto nell'Andrew Beckett di Tom Hanks in Philadelphia salvo che questa volta il bersaglio contro cui puntare il dito è quello delle case farmaceutiche e dell'FDA, oltre che più in generale del sistema assistenziale-ospedaliero americano, nell'attacco feroce del film, più orientato all'interesse privato che al benessere dei suoi malati.

Nasce così il Dallas Buyers Club, come tentativo di affermare il principio della lotta sociale, di una causa comune portata avanti con l'impronta di una disperazione legata al tempo che fugge che è fotografata nei corpi scarni e trasformati dei due protagonisti (dove anche il trucco lascia il segno).

È un film di attori, in cui l'aspetto che più risalta è proprio la recitazione, e che vuole sollevare questioni, riaprire ferite e continuare una battaglia che ha vissuto momenti peggiori di questo, ma che non è finita.
McConaughey e Leto si completano, si attraggono e si repellono allo stesso tempo, compiono qualcosa di artisticamente meritorio e specialmente il primo è una grande sorpresa. Il regista tende a non intromettersi nel loro stato di grazia ed evita il più possibile di togliere la cinepresa dalla faccia del suo protagonista, al punto che lo spazio ritagliato al supporting cast è così marginale che solo la recitazione qua e là impressionante di Leto riesce a farci dimenticare quale one-man show sia in realtà questo dramma (il che però allo stesso tempo la dice lunga sulla sua bravura).

La storia ritratta è, ancora una volta, infallibile nella sua raffigurazione, per quanto nei ritmi non sempre eccelsa e condizionata da quel genere di performance che riescono poche volte nella vita di un attore.
Un film comunque che pur distinguendosi non è eccezionale, che si tinge di verità nella sua denuncia ed entra nella sfera di un civil right movie con più prospettiva ancora.

Uno sguardo furioso e insieme pietoso raccolti in un'esperienza che ha molto di corporeo, di umano, di vero, di aderente ma a cui l'interpretazione caparbia, orgogliosa e trionfante di McConaughey regala una nuova dimensione; e al film una lontana grandezza.


Scena scelta










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