mercoledì 16 novembre 2011

Recensioni Giugno/Dicembre 2011


32 - Chatroom - I segreti della mente (novembre 2011)




Il film affronta il complicato rapporto di cinque ragazzi con le rispettive vite, mettendoli di fronte ai propri problemi attraverso lo strumento della Chat inteso come mezzo per evadere dalla realtà cosciente e proiettarsi nella "room" personalizzata, permeata di rassicurazioni illusorie e quindi idonea allo scopo della creazione di un riparo, grazie a cui scompaiono le difficoltà di comunicazione e tutto sembra più sopportabile.

Se non fosse che Nakata (divenuto celebre per The Ring e poco altro, anzi direi niente altro), da sempre interessato a relazionarsi con gli strumenti tecnologici del nostro tempo, usa questo espediente non per analizzare il mezzo, quanto le storture che ne possono derivare, le implicazioni che un approccio completamente acritico e privo di autodifese può provocare nella labile psiche di persone alla mercé della vita che vivono, al punto da essere facilmente manipolabili anche da chi si finge amico per soddisfare le proprie perversioni.

Il rapporto controverso fra reale e virtuale viene reso mettendo in chiaro una dicotomia anche e soprattutto visiva, fatta da una parte delle luci e dei colori vividi che caratterizzano le Chatrooms patinate nelle quali i ragazzi appaiono molto più a proprio agio, e dall'altra del pallido grigiore delle strade della vita reale, che richiamano alla mente le incomprensioni e l'insofferenza del loro mondo.

In definitiva una sorta di thriller atipico, con una buona idea di partenza - interessante quella di far apparire le chatrooms come stanze reali, in cui discutere faccia a faccia, e non vissute con l'effettivo distacco che le caratterizza nell'apparenza - sviluppata però forse non nel più interessante dei modi.
I personaggi sono stereotipi viventi ma il problema è che non sono molto più di questo e fondamentalmente il cervellotico piano del leader del gruppo prende il sopravvento su ogni altra cosa, anche sull'esigenza di raccontare e scavare più a fondo sulla psiche dei personaggi.

Un film decisamente rivedibile per la realizzazione, ma piacevole, che comunque non va molto oltre i meriti della ricerca astratta della novità in un genere ormai in difficoltà.



33 - Paranormal Activity (novembre 2011)




Micah ha una nuova telecamera.
Potrebbe sembrare soltanto un altro fichissimo videoamatore, ma invece scopriamo che ha uno scopo ben più elevato: riprendere ininterrottamente per tutta la notte quello che accade nella casa che condivide con Katie, la quale presto gli confida di essere perseguitata da un demone da quando era piccola.
A nulla serve accanirsi contro le fondamenta dell'abitazione, perché ci viene fatto chiaramente capire che esiste un filo diretto personale fra il demone e Katie, ragion per cui si odono mormorii, sussurri, cigolii di porte, lamenti enigmatici, scricchiolii del legno delle scale ed altre amene rappresentazioni sovrannaturali dell'emotiva suggestione.

La situazione evolve e nelle immagini delle riprese notturne (perché è solo in quella fascia oraria che l'entità si manifesta) si confeziona il crescendo della violenza psicologica instillata nello spettatore.
I rumori si fanno via via più inquietanti ed arcani, tanto che si rende necessario ascoltare il parere di illustri esperti, quali il demonologo che prima precisa la sua specializzazione in fantasmalogia, respingendo l'intenzione di voler aver a che fare con entità del tutto più complicate come i demoni, e successivamente li mette in guardia dallo sfidare l'ira della cosa ignota (contribuendo alla grande al senso del film).

Ma naturalmente è un horror e si pretende che i personaggi facciano cose stupide.
Quindi Micah non segue i suggerimenti del dotto specialista ed alimenta una sorta di ossessiva caccia all'uomo invisibile che sfocia in una situazione fuori controllo.

Il film, low-budget per definizione (è costato solo 15.000 dollari), è improntato ad un minimalismo quasi maniacale.
L'ambientazione si limita alla casa (di proprietà del regista fra l'altro), ed in particolare a massimo due, tre stanze, di cui è soprattutto quella da letto ad essere teatro degli avvenimenti.
Visivamente viene concesso poco o nulla, la suspence è ricercata e raggiunta con un sapiente mix di effetti sonori ed espedienti in debito con il filone cinematografico dell'iperrealismo (vedere Blair Witch Project), al punto che più o meno ci si può immaginare dove andrà a parare il film.
Lo stile infatti non è in quasi nulla dissimile da molti altri titoli dello stesso genere, recenti.

Insomma, Oren Peli tira fuori una gran furbata, confermata dal box office particolarmente munifico, ci aggiunge (scopiazzando) qualche ritocco claustrobico e l'esasperazione della telecamera sempre puntata addosso, poi rivisita il sottoprodotto del pesante retaggio della superstizione demoniaca e della mitologia cristiana ed il gioco è fatto.
Se proprio si richiede di trovare una spiegazione alla risposta massiva del pubblico, è da ricercare dunque più nella sostanza di un substrato residuale di quell'ancestrale iperemotività che viene scatenata da ciò che non vediamo (il vedo-non vedo è reso abbastanza bene nel film) che non da qualche upgrade tecnico di qualche rilievo, soprattutto in considerazione della ripetitiva invadenza degli effetti sonori.

«È una gran boiata, una scemenza pazzesca che non fa nemmeno paura. È stato solo un fenomeno pubblicitario» (Dario Argento)



34 - Into the wild (novembre 2011 - riedito)




Dieci anni dopo la biografia ad opera di Jon Krakauer ( Nelle terre estreme ) - tanto è il tempo impiegato da Sean Penn per ottenere i diritti e per concepire questo film - la straordinaria avventura di Cristopher McCandless diventa un film, tradotto in immagini dalla carta stampata (ancor prima di essere un libro, la sua storia aveva interessato i giornali e le riviste, fra cui Outside, per la quale scriveva proprio Krakauer).

Un viaggio di due anni, se volessimo attenerci allo spaccato della vita di Chris che è oggetto della narrazione; un'odissea ben più elaborata e che affonda le sue radici molto più lontano nel tempo se in realtà ci rendessimo conto di chi era questo personaggio e di quali fossero le motivazioni che lo spinsero a girovagare per ben due anni, subito dopo la laurea all'Università di Emory, in stato di nomadismo e animato da uno spirito di avventura e di autosussistenza basati unicamente sulla ricerca di una concezione di vita più alta, più nobile, e per questo necessariamente separata da tutto ciò che la Società contamina.

Lontano dalle falsità, dalle ipocrisie consumistiche (i cenni sono ovunque: la scena del denaro al rogo, i 24.000 dollari nel suo conto in banca ceduti in beneficienza, il rifiuto del regalo di un'auto nuova in favore del sentimentalismo provato per la sua Datsun) e dalle bugie, anche e soprattutto della sua famiglia e di suo padre.
Un rapporto molto complesso e conflittuale, quello con i genitori, che il film usa (anche troppo) e su cui calca la mano nei momenti di maggior difficoltà e quindi più drammatici.
I rapporti personali mai vissuti con pienezza e rifuggiti con ostinazione, nella consapevolezza di non volerli (e forse non saperli) gestire, non tanto perché non desiderati, ma perché limitanti, riduttivi, quasi egoistici di fronte all'immensità del mondo da esplorare, alla riflessione fortificata dall'ascetismo sul senso del proprio posto nel mondo.

Giunto nella regione del Denali, in Alaska, dopo una serie piuttosto ricca di esperienze nell'Ovest degli States di cui il film dà risalto in modo un po' disordinato con ripetuti passi indietro rispetto alla storyline, Chris si avventurava finalmente nella sua esperienza di vita massimale, per tutta la vita agognata, quella che finalmente gli avrebbe fornito la misura del suo valore.
il Nord, in una parola. La Terra narrata dai suoi idoli letterari, come London, il miraggio poetico contenente tutti i suoi sogni, gli stessi in cui si perdeva condividendo i nobili ideali di Tolstoj e di Thoreau.
Quell'animus vivendi, l'irrequietudine e l'imprudenza che lo portavano a desiderare nuove sfide ogni giorno erano però anche gli stessi tratti caratteriali che lo portarono, in quei 112 giorni a commettere tanti, troppi errori, sicuramente in parte legati anche all'inesperienza, ma in fondo parte di un disegno più grande di cui McCandless dava prova di non pentirsi troppo, con le sue ultime parole ("I HAVE HAD A HAPPY LIFE AND THANK THE LORD. GOODBYE AND MAY GOD BLESS ALL").

A parte le imprecisioni narrative e le distorsioni legate alle esigenze della fiction, un film attento e con l'intento sincero di trasporre una storia talmente piena di spunti, più filosofici che altro, che alla fine si trasforma forse in un fardello troppo grave da portare nel cammino dei 140 minuti di pellicola.
Penn, che fa ottima figura anche in qualità di regista, taglia e cuce cercando di dare un senso armonioso al dispiegarsi degli eventi, prova a sopperire all'eloquenza delle parole allestendo un'atmosfera da 10 e lode e su cui non c'è nemmeno da dibattere.
Con la fotografia - davvero qualcosa di inenarrabile -, gli scorci e le inquadrature sui panorami paesaggistici, i dettagli catturati qua e là con grande sapienza e le musiche (Eddie Vedder e Kaki King dovrebbero dire abbastanza), il vero punto di forza del film in tal senso, si raggiunge una sorta di contiguità tale da restituire al visivo e all'udito sensazioni probabilmente impagabili.

Per contro, notevoli certi "arrangiamenti" stilistici e certe superficialità di fondo, anche in alcune scelte tese a puntare insistentemente su tutta una serie di aspetti intimi, famigliari e ambientali di McCandless, sulle sue difficoltà ad accettare la realtà del modello sociale americano e molto tacendo però delle reali ragioni, idealistiche e rigorosamente morali, che lo avevano accompagnato sin da giovane.
Ecco, di tutto questo il film non fa quasi per nulla cenno, e la sensazione finale, per chi non avesse letto il romanzo di Krakauer, è che si tratti di una sorta di ripicca, di una fuga adolescenziale, di un capriccio in sostanza ai danni dei genitori oppressivi e litigiosi (e non sono casuali le insistenze sul figlio scomparso di Jan, la hippie conosciuta nel Nord California), in un certo senso avallando le critiche anche feroci piovute su McCandless all'indomani della pubblicazione dell'articolo originario della sua morte su Outside, che spinsero proprio il giornalista (Krakauer) ad andare più a fondo.

In conclusione un film d'atmosfera, in cui spicca la buona prova di Emile Hirsch (qui praticamente in un one-man show) e che in generale, se si tratta di considerare la pura aderenza agli eventi e di rispondere al primo scopo di un lungometraggio di genere biografico, si può dire ben riuscito, ma che lascia qualcosa a desiderare per quanto riguarda il piano più contenutistico e si rivela troppo poco incisivo sull'indagine psicologica e spirituale di McCandless; per quella rivolgetevi a Krakauer: non ve ne pentirete di certo.



35 - Orphan (novembre 2011)




Per la serie praticamente interminabile di film horror con a soggetto una famiglia messa in pericolo dall'avvento di un intruso vestito di buone intenzioni ma che in realtà si rivela non esserlo, ecco Orphan, produzione statunitense-canadese (fra cui c'è anche lo zampino di L. Di Caprio), diretta da Collet-Serra, che aveva alle spalle l'esperienza di genere de "La maschera di cera", segnalatosi più che altro come blando blockbuster.

Il pretesto è quello dell'adozione, necessario rimedio contro l'infelicità e il vuoto causato da un recente lutto nella vita di John e Kate.
Esther si trova in un orfanotrofio e si capisce subito che non è una bambina come le altre: è in disparte, si dedica (con una certa abilità) alla pittura, è capace di dimostrarsi affabile quanto basta perché i due si dimentichino in fretta di quel suo modo di essere eccentrico e decidono di prenderla in adozione, assommandola al resto della progenie: Daniel, da subito diffidente, e Max, bambina sordo-muta ma molto sveglia.

Silenziosamente e con grande astuzia, Esther si guadagna l'affetto incondizionato del padre, mentre illude la madre per tenerla a distanza di sicurezza, prima di attuare il suo machiavellico piano.
Una volta conquistata la fiducia del genitore e trovato il modo di sfruttare a suo vantaggio gli scheletri nell'armadio della madre, ogni piccolo particolare sembra convergere nella direzione prestabilita.

Niente di troppo originale, a livello di sviluppo e di sceneggiatura, tema già visto e stravisto, nelle sue innumerevoli sfaccettature, e del resto non esistono particolari imprevisti o deviazioni da far pensare a qualcosa di trascendentale.
Però, e va detto, Orphan è un film che funziona.

Funziona dal punto di vista della narrazione perché produce un buon background, ma soprattutto perché si affida totalmente alla tratteggiatura del personaggio di Esther, vero meccanismo di innesco della suspence, ben gestita sin dalle prime battute del film. La maturità e persino la volgarità della bambina, finendo con lo stridere con l'innocenza del suo aspetto creano il presupposto per catturare l'attenzione dello spettatore, mescolando assieme elementi certamente già visti in un'alchimia che produce l'effetto sperato, e non è trascurabile per un buon thriller-horror che si rispetti.

Difficile ormai riuscire a suggestionare il pubblico degli aficionados, un po' per l'ovvia ristrettezza di cui risente fisiologicamente il genere, sia per l'inflazione di titoli similari.
Questo film ovviamente, a tratti esce dal seminato, e incappa in qualche banalità, e direi che il finale non è il suo punto forte, ma il lavoro nella sua globalità merita sicuramente almeno una sufficienza tonda.



36 - The Road (dicembre 2011)




La strada di Cormac McCarthy è una via impervia, misteriosa, ambigua: può celare pericoli dietro ogni angolo, ma è l'unico sentiero lungo il quale coltivare la speranza, per quel poco che ne è rimasto.
Anno imprecisato, in un futuro ipotetico.
Una coltre di nebbia ed oscurità è diventata il cielo; mesi dopo la catastrofe la cenere cade ancora dall'alto come neve, gli alberi si sradicano e rovinano a terra, in un lento ed assurdo tormento.

Ci ritroviamo un vecchio uomo (magnifico Viggo Mortensen) ormai allo stremo della vita, e un bambino (Kodi Smit-McPhee), che quella vita l'ha appena iniziata a conoscere, e che non ha ricordi di un mondo precedente, in cui il mare era blu e vivere non significava sopravvivere; non ce l'ha, perché è nato dopo.
Il sole è oscurato, un altro inverno è alle porte e fa sempre più freddo. Sono in viaggio verso sud, come aveva detto lei, la madre del bambino, prima di sparire nell'oblio, rassegnata e stanca.

John Hillcoat traspone il romanzo di McCarthy in un modo che definire fedele è riduttivo. Difficile pensare di trasformare la prosa nuda ed essenziale dello scrittore americano, simile ad un diario di viaggio, quasi una fredda cronaca degli eventi; Hillcoat si serve quindi di immagini monotòne, di lunghi silenzi misurati, e scambi di battute rapidi e senza censure buoniste, nella più empia devozione allo sprezzante sentimento che fa da sfondo ad un pianeta in ginocchio.
La fotografia è lucida, realistica; l'alternanza fra il grigionero del presente e i colori accesi e vividi del passato conducono l'occhio dove ancora non è arrivata la coscienza. Il trucco è incisivo, lodevole, funziona perché è coerente, ed è immediata la reazione umana, perché per quanto fantasiosa sia l'ipotesi prefigurata, non lo può essere mai abbastanza.

La ricerca in profondità dell'uomo ridotto alla solitudine e allo stato selvaggio è raffigurata nei volti emaciati, i corpi pelleossa, e quell'andatura ciondolante che risparmia solo chi ha rinunciato; la fatica e la sofferenza sono erette a virtù imponderabili.
Cosa è disposto a fare un uomo quando ha perso tutto? Non c'è più posto per l'ingenuità, né per la bontà. Le parole perdono senso e sono solo le azioni a poter definire una persona, se ancora la si può definire così.

Il bambino, iniziato ad un cinismo che non è nelle sue corde, racchiude in sé tutto ciò che è fuori posto, in quel nuovo mondo ("Se il suo non è il verbo di Dio, allora Dio non ha mai parlato"); custodisce la speranza e la generosità, beni ormai estinti, ma è anche capace di provare la paura di chi non ha ancora compreso cosa sia il distacco dalle cose belle, di chi non ha vissuto abbastanza per poter fornire una misura di ciò che si aspetta dal mondo.

Gli incontri si susseguono via via, lungo la Strada, come un male necessario. Alla ricerca della salvezza, se ne esiste ancora una, in qualunque forma essa sia.
Sperando in un po' di fortuna, sperando di accompagnarsi ad altri che, da qualche parte, come loro, portano il fuoco.



37 - Non lasciarmi - Never let me go (dicembre 2011)




Katie, Ruth e Tommy, esempi di un'intera generazione di esseri umani destinati alla donazione degli organi, nascono e crescono nella struttura di Hailsham, dove verranno istruiti per la vita che li aspetta, ma tacendo loro la verità sulla loro esistenza e sul loro destino.
Lo scopriranno grazie ad una tutrice colta dal richiamo dell'empatia e dalla loro stessa vita dopo aver compiuto i 18 anni, che proseguirà attraverso stadi già pianificati per permettere loro di compiere il ciclo che li vedrà esaurire la propria utilità nel mondo.

Il progresso scientifico ha debellato le malattie, ha sconfitto la morte, consacrando ai benefici della vita "nuova" l'arte, la creatività, l'individualismo; ciò che rende umana una persona. In un'esistenza segnata da tappe già scritte e nessuna deviazione possibile non esiste altro conforto se non quello dell'intensità dei pochi attimi che separano una parvenza di vita - ma pur sempre una vita - da una morte inumana, quasi animalesca.

L'ideale di una società perfetta è raggiunto con la progressiva affermazione di quel razionalismo di cui scriveva Huxley nel suo "il mondo nuovo", questa volta non per controllare le masse e garantire la stabilità sociale, ma sacrificando vite artefatte, create in laboratorio all'altare del desiderio da sempre inespresso di tutta l'umanità: la possibilità di vivere per sempre.

Senza avere probabilmente la pretesa di offrire risposte a tutte le domande scatenate dall'affondo coraggioso del tema, questo film ci offre una visione estremamente limitata e di parte, cioè quella delle cavie, non con l'obiettivo di parlare dell'umanità (inteso come genere umano), ma per riflettere tutte le considerazioni sull'umanità (intesa come caratteristica essenziale) di chi viene qui considerato spoglio di un'anima, privo di uno spirito, costretto a rinunciare a se stesso per vocazione, finendo con l'offrirsi ad altri, a lui (o lei) peraltro ignoti.

Cercano il significato delle cose di cui nessuno ha spiegato loro l'utilità: l'arte ricorda loro che nessuno può essere costretto a sentirsi solo utile; il focus sui loro sentimenti vacui e sulle relazioni non dissimili da quelle di tutti gli altri esseri umani stanno a dimostrare l'evidente richiamo d'affetto di cui essi sono meritevoli.

Un taglio drammatico affligge tutto il film, la cui struttura risulta già piuttosto appesantita dalla scelta di ritmi molto lenti e cadenzati. Le inquadrature puntano molto sull'inespressività dei protagonisti (Carey Mulligan, Keira Knightley, Andrew Garfield) con una decisa propensione per i primi piani.

Piuttosto straziante, tutto considerato. Aggraziato, comunque, se la cava cercando di costruire nello spettatore una sensazione di disagio e di rassegnazione, in modo da ottenere una reciprocità con i suoi protagonisti.
Il risultato non sarà sensazionale, ma il messaggio arriva forte e chiaro.

Recensioni Gennaio/Giugno 2011

20 - Slevin (gennaio 2011)




Slevin Kelevra (Josh Hartnett) capita nell'appartamento dell'amico Nick Fisher, assiduo scommettitore. Da qui l'azione: prima incontra Lindsey (la vicina - Lucy Liu) e poi viene "prelevato" con la forza prima dagli scagnozzi de "Il Boss" (Morgan Freeman) e quindi da quelli de "Il Rabbino" (Sir Ben Kingsley), i quali non gli credono quando dice di non essere Nick Fisher, lo scommettitore con il quale vantano entrambi un credito notevole. Così Slevin viene tratto nel bel mezzo di una faida tra i due potenti uomini, che si odiano profondamente, nascosti ognuno nel proprio edificio l'uno di fronte all'altro, divisi dalla fama, dai soldi e dal potere, gli stessi che un tempo li avevano uniti.
Slevin dovrà fare i conti con le richieste dell'uno e dell'altro, temporeggiare e pensare attentamente agli ultimatum che gli si presentano, resistere ai "rapimenti" del detective Brikowski (S. Tucci) in cerca di risposte annidate fra trame intricate e allo stesso tempo vivere la propria vita proprio come se niente fosse, come se l'incredibile serie di vicende che lo coinvolgono costituisse un banale intermezzo fra una doccia e un appuntamento a cena.
In questa chiave sono usate le scene fra Slevin e Lindsey, che servono sia a inframezzare e a stemperare, sia a raccordare gli eventi, in modo che appaiano più chiari e definiti.
Nel frattempo Mr. Goodcat (B. Willis) si muove nell'ombra, rivelando il proprio personaggio (apparentemente secondario) via via lungo il film.
Alla vicenda principale fa da incipit l'antefatto (una storia di scommesse finita male), situato in un tempo più lontano di circa vent'anni, che sembra slegato dal resto della storia, ma che diventerà in realtà l'episodio scatenante di una vendetta narrata e consumata.

Un buon copione e un ottimo cast da cui esce fuori un film interessante e misterioso diretto da Paul McGuinness, improntato sugli stilemi dell'action-thriller, ma anche ispirato alla narrativa di spionaggio; non mancano in tal senso le citazioni illustri, su tutte quelle dell'"agente 007" romanzato e cinematografico, da cui si prendono "a prestito" alcuni trucchetti dietro cui si cela tutto il film, come l'identità segreta, lo scambio di nomi, l'equivoco e il doppio-gioco. Ad arricchire il miscuglio ci si mette però anche lo screen-writer, capace di ideare (o riutilizzare?) la cosiddetta "Mossa Kansas City", quella per cui: "Mentre tutti guardano a destra, tu vai a sinistra".
Si gioca molto sulla sorpresa e sull'effetto spiazzamento, narrativo e figurato, inscenato ed atteso allo stesso tempo, tanto da non permettere allo spettatore di rendersi conto (così come alcuni dei protagonisti) di come sia stato effettivamente preso in contropiede.

Lineare nella sua stesura, quanto ingarbugliato nella sua costruzione, "Slevin - Patto Criminale" si segnala per essere un film per cultori del genere (The Snatch) e per edonisti assetati dallo stucchevole tema della vendetta (i riferimenti a Tarantino - e alla branca di cinema a cui egli stesso si ispira - non sono assolutamente casuali), senza trascurare però una certa attenzione ai dettagli; per quanto siano prevedibili certi colpi di scena e i ritmi non siano proprio perfetti (la frenesia dei "face-to-face" e del sangue che si alterna a qualche momento morto di troppo), non si può dire che non sia un film ben riuscito anche sotto l'aspetto tecnico. Semmai gli si può rimproverare di prendere troppo da troppi e di metterci poco del suo, ma questa forse è un'altra storia...



21 - Il cigno nero - Black Swan (febbraio 2011)





Nina (una meravigliosa ed emozionante Natalie Portman) viene scelta per la parte della Regina nel famigerato "Lago dei Cigni", parte impegnativa, che richiede esperienza, disciplina ma anche scioltezza e sensualità; se infatti da un lato lei è naturalmente predisposta alla parte del "Cigno Bianco" (in cui la Principessa viene trasformata da un incantesimo per rompere il quale dovrà conquistare l'amore del Principe) con la sua spontanea eleganza e leggiadria, dovrà imparare a far emergere l'altro ed inesplorato lato di se stessa per interpretare il temibile ed ostico ruolo del "Cigno Nero" (la controparte meschina che ruberà alla gemella l'amore del Principe, con l'inganno).

Nina è oppressa da una madre ballerina fallita che le trasferisce ansie e timori della pressione esercitata da un grande ruolo come quello che non ha mai avuto, rintuzzata continuamente dal coreografo di grande successo che l'ha voluta protagonista della sua opera - nonché suo punto di riferimento - Thomas Leroy (un Vincent Cassel asciutto ed essenziale) che le sta addosso perché riesca ad abbandonare la sua rigidità e a lasciarsi andare, ed oscuramente minacciata dalla figura ingombrante di una collega del balletto (una enigmatica Mila Kunis) pronta a soffiarle il posto; Nina deve cercare di lasciarsi dietro le debolezze, di non farsi sopraffare dalla grandezza stessa di ciò che rappresenterà.
Deve essere "perfetta", fino a far coesistere due duellanti personalità antitetiche (i due Cigni) nell'interezza di un'unica persona; solo sacrificando se stessa, nella sua limitatezza ed incompletezza potrà riuscire a sbarazzarsi di ciò che la àncora a terra, fino a spiccare il volo del Cigno che è diventata, figurativamente e non, e come la magnifica scena finale immortala fin troppo bene.
Impossibile separare i suoi piedi dal filo del rasoio sul quale balla, in bilico o in equilibrio, fra ossessioni e timori, fra le visioni speculari di una follia sulla quale si affaccia la sua tenacia, la sua inenarrabile ricerca di una liberazione a lungo agognata.

D. Aronofsky, al secondo lavoro consecutivo di un certo spessore (da ricordare il precedente "The Wrestler") si conferma conoscitore del mestiere proiettandosi nell'olimpo dei migliori registi contemporanei.
Mette in scena quella che è una sorta di ideale continuazione col film precedente, dove il protagonista era un uomo che trovava la propria dimensione esistenziale solo all'interno di un ring davanti al suo pubblico, mentre qui sarà la ballerina di talento Nina a combattere la sua nemesi, contro se stessa, pur di recitare la parte a cui ha sempre aspirato.
Il piano recitativo è notevole, ed intenso: spicca la prova maiuscola di un'entusiasmante Natalie Portman, che offre il suo volto ed il suo cuore ad una creatura fragile e docile e al contempo meschina, offesa eppur vendicativa, intimidita e dapprima debole ma giunonica ed orgogliosa poi.
La tensione narrativa è in pieno stile thriller (che è la vera struttura di questo dramma), pittato qua e là di sprazzi di horror, tra l'altro con alcune scene di grande impatto); le parole sono centellinate quasi come se fossero di troppo, e in effetti significativi sono i silenzi caricati dell'espressività della Portman, dei suoi movimenti, della tensione dei lineamenti sul suo volto, quella mancanza di pace che sembra mancarle costantemente, per quanto si sforzi, persino alla notizia della parte ottenuta.
Le note dell'opera di Tchaikovsky aggiungono poesia, ma anche esasperazione ad un conflitto interiore (e visionariamente ad una mutazione estetica vera e propria) che è destinato a portare Nina in alto, all'apice dello splendore della sua stella, in un climax tecnicamente perfetto e coinvolgente, appena prima dell'epilogo, cinico ed ingiusto.
"Sono stata perfetta", sono le ultime parole del cigno del film.
Vero.
E probabilmente è alto il prezzo da pagare per la perfezione.


22 - Il Grinta - True Grit (febbraio 2011)




I Coen tornano con "Il grinta", remake del film del '69, autentico western vecchio stampo, che aveva all'epoca avuto soprattutto il merito di sottolineare
la figura mitica di un John Wayne sempre e per forza sopra le righe, un eroe senza confini per un'intera nazione.
Questo film, rifatto alla maniera dei due fantastici registi hollywoodiani però, come sempre, offre una rilettura più attenta e simbolica, meno macchiettistica e più profonda, le cui sfumature si perdono all'interno di quello che è dopotutto (e innanzitutto) un gran bel viaggio, una caccia all'uomo (o "ai procioni") che trascende ogni vincolo, sia esso legale o sociale, per avvicinarsi a quello che "è giusto fare", con annessa citazione nei titoli di testa ai testi sacri: "I malvagi fuggono quando nessuno li insegue".
Ed è da questo preciso punto allora, e su questi fondamenti che inizia la caccia: laddove la speranza si placa e la tenacia viene meno, laddove il coraggio non basta o la paura basta a fermarti, il malvagio riesce a farla franca.

Il malvagio, ovverosia Tom Chaney: un assassino, che ha ucciso e derubato di un cavallo il padre di Mattie Ross, una ragazzina di 14 anni tanto scaltra a contrattare quanto intenzionata a vendicare la morte del padre, interpretata da un talento prodigioso che ti lascia senza parole come quello di Hailee Steinfeld, peraltro candidata all'oscar nella categoria "miglior attrice non protagonista" (a cui vanno i miei favori, per quanto dura si annuncia la lotta con Amy Adams ed Helena Bonham-Carter).

Mattie, afflitta dalla perdita del padre, dall'insufficienza della madre (che "non sa nemmeno fare lo spelling di CAT") e soprattutto dalla noncuranza degli uomini di legge verso Chaney, decide quindi di assoldare uno sceriffo federale, colui che secondo quanto le viene riferito, possiede quella "True Grit", la Grinta (uno straordinario Jeff Bridges, ancora una volta), per poter stare addosso ad un criminale così abile.
Il patto prevede però inderogabilmente la presenza della piccola Mattie, che vuole giustizia per sé, e vuole vedere l'uomo incriminato non per uno dei tanti reati da lui commessi (come ad esempio quello ben più grave dell'omicidio di un senatore del Texas) ma solamente per quello ai danni di suo padre.
Vuole che sia giudicato e impiccato su territorio della contea di Yell, e non dove capita. Ma la leggenda di Chaney ha attirato l'interesse di tanti.
Mattie si batte con la parola e con i fatti per avere ciò che vuole. Questa è la sua storia al fianco de Il Grinta.
A loro due si unirà un terzo uomo sulle tracce di Chaney, cioè LaBouef (Matt Damon), un texas ranger che finirà menomato ma mai domo, rivendicando il suo orgoglio yankee.

Il resto è, in una parola, western. Fra inseguimenti di tracce, richiami di sparo di pistola, impiccagioni, trappole, sparatorie e colpi di scena a non finire, per un finale davvero bello ed intenso.
Come pure l'epilogo raccontato da una Mattie di 25 anni più vecchia, ormai abbruttita dagli anni, sola e distaccata da un mondo che non è il suo, che ha come unico pensiero quello di ritrovare i compagni con cui quel giorno, tanto tempo prima, aveva condiviso quel viaggio, aveva risposto alla sua Missione; aveva fatto quello che era giusto fare.
"Il tempo ci fugge via" risuona nell'aria come un'eco in un burrone, mentre i titoli di coda si prendono gli ultimi minuti del film.

Dopo il precedente non proprio riuscito perfettamente "A serious man", i Coen si riprendono alla grande, dimostrando ulteriormente il loro usuale acume e il loro citazionismo (fra sacro e profano), e restituendo allo spettatore un sorriso amaro, figlio di uno sguardo al futuro condizionato da una visione realistica e cinica del mondo.
E' un film dove lo pseudo-eroe, il Grinta, viene giudicato in un processo per omicidio (la prima sequenza in cui appare Jeff Bridges, sul banco degli imputati) durante l'espletamento delle proprie mansioni di uomo di legge; dove si racconta uomo misterioso dalle tante avventure burrascose e dal triste passato; dove viene rappresentato come ubriacone che chiede per ricompensa per la cattura di Chaney 100 dollari di whisky (anche se poi si accontenterà della metà).
Allo stesso modo, Mattie è al di fuori dello stereotipo che dovrebbe incarnare nel periodo storico di cui si parla, tanto da dover vincere il pregiudizio che le si incolla come un'ombra.
Personaggi molto ben definiti, dunque. Una trama avvincente, sceneggiatura non-originale (per cui è candidato all'oscar) tratta dal romanzo di C. Portis; battute ora ridotte all'essenziale per andare dritto al punto (in pieno stile Coen, il massimo dell'eloquenza senza perifrasi...), ora abbellite di parole blaterate quasi a vanvera per alimentare la leggenda (su tutti Jeff Bridges che nella versione originale bofonchia, quasi incomprensibilmente). Le rare sequenze senza "parlato" dominate dai colori scuri che si spandono nell'occhio di chi guarda, mentre le note di piano chiudono il film come l'avevano in precedenza aperto, dando un senso ermetico e compiuto al lungometraggio.
10 sono le candidature agli Academy Award 2011, fra cui quella di "Miglior film" e "Miglior regia". Cui si aggiungono gli applausi della critica a questi due maestri di cinema che sembrano tornati ai fasti - neanche troppo lontani - di "Non è un paese per vecchi", che vinse l'oscar nel 2008.
Stavolta se la giocheranno con Inception e The Social Network.
Intanto Chapeau, ancora una volta.


23 - 127 ore (febbraio 2011)





E' la storia di Aron Ralston, ingegnere di professione ma amante dell'avventura e degli sport estremi, delle sfide impossibili, dell'idea dell'"uomo solo con se stesso", l'individuo che supera le avversità chiedendo al proprio corpo e alla propria mente di arrivare oltre i limiti del sopportabile.
E quale migliore occasione per staccare da tutto, dalla routine e le sue noie, se non un weekend escursionistico nel Grand Canyon?
Qui, armato di vari utensili, per lo più dozzinali - come rimpiangerà in seguito - da scalatore e di una telecamera, che lo filmerà come in un reportage per tutti e cinque i giorni del suo forzato soggiorno nella località rocciosa diventando l'unico mezzo di comunicazione eventuale col mondo esterno, decide dunque di concedersi all'ebbrezza del rischio, mosso dal suo istinto.
In un certo senso è proprio il suo istinto il vero protagonista del film: è ciò che lo spinge a sfidare il pericolo, che lo costringe al martirio di quel che ne segue, ma è anche quello che lo salva, alla fine.

Dopo aver fatto la conoscenza di due ragazze, perdutesi lungo il sentiero, che lui aiuta ad orientarsi e con le quali poi ci fa immergere per i primi minuti nell'abbacinante atmosfera assolata del luogo, Aron scivola in un crepaccio durante la sua scalata; in quel momento un grosso e vecchissimo masso per una serie sfortunatissima e rapidissima di eventi scivola con lui e si blocca proprio in corrispondenza del suo braccio, dando ufficialmente inizio al suo calvario.
Da questo momento - vale a dire per oltre un'ora di film - Aron (James Franco) rimarrà infatti imprigionato, senza o quasi senza viveri e pochissima acqua, con i suoi inutili oggetti, e la sua zavorra di "flashback" (che dipingono la memoria e quindi la nostra conoscenza del suo passato) e di "premonizioni".
Proverà a scheggiare la roccia, ad estrarre il braccio a forza, a chiedere aiuto a gran voce, ma nulla di tutto questo risulterà utile quanto il suo ultimo e disperato tentativo, un inno all'istinto di sopravvivenza dell'uomo che è più forte di qualunque cosa: Aron dovrà amputarsi manualmente (con un coltellino spuntato e di pessima qualità) l'arto per potersi estrarre dal crepaccio e ottenere i soccorsi che gli salveranno la vita.

James Franco esce in una luce tutta particolare da questo ultimo film di D. Boyle (Trainspotting, The Millionaire), che si potrebbe quasi definire un "one-man-show", dato che il suo protagonista catalizza l'attenzione in pratica per tutto il film. La sua reattività sia nei momenti di sofferenza, dolore e disperazione sia di gioia e liberazione è la testimonianza più emblematica e riuscita di quello che ha dovuto sopportare il vero Aron (trattasi infatti di una storia vera), riuscendo nella non facile impresa di creare "un film d'azione con un ragazzo che non può muoversi", come l'ha definito Boyle.
L'uso di varie tecniche, peraltro abituali per il regista irlandese, come lo split-screen, le accelerazioni video frenetiche (che l'hanno reso celebre in Trainspotting), gli slow-motion; lo stesso uso della handycam, che ricorda di riflesso l'esperimento di Blair Witch Project e di corredo quel quid amatoriale che si subodora già dall'inizio del film, ricordando più lo stile di un documentario, di un videoracconto in prima persona, tecniche che si alternano di volta in volta fino a costruire una base dinamica all'evoluzione dell'accaduto e così facendo creano i presupposti per "rapire" l'attenzione dello spettatore.
Il quale si immedesima nelle vicende di un uomo che lotta in svariati modi per rimanere in vita, per un film che non ha bisogno di spingere sul triviale e scadente sensazionalismo, magari invocabile in alcuni momenti più trash (un po' gratuiti), come ad esempio nelle scene in cui Aron è costretto a bere la propria urina, piuttosto che quella splatter in cui ci viene mostrata l'auto-amputazione dell'arto, ma che anzi fa uso di questi espedienti per riflettere l'immagine logora, fisicamente e psichicamente, di Aron e per condurlo al bivio finale e alla scelta penosa ma necessaria del dolore e del sacrificio.

J. Franco ha ammesso di essere rimasto un po' turbato dopo aver visionato il materiale documentato dalla telecamera del vero Aron Ralston (che vediamo nei titoli di coda, con la moglie); di sicuro, la sua performance ne è una buona testimonianza: ottima prova per il candidato all'oscar come "miglior attore protagonista".
Buona l'idea e l'intuizione di Boyle e valevole, anche grazie all'attore principale, la sua messa in pratica; i rischi superavano gli eventuali benefici di un film del genere.
Un thriller, o un action-thriller atipico, visto che l'azione viene ricreata dalla telecamera, mentre la staticità dell'attore si impone, che non demerita e non stanca, esigendo però talvolta una buona dose di pazienza e sopportazione, come nelle scene di sofferenza estrema.
Un po' inutili i riferimenti al destino (tema a cui Boyle è avvezzo) o comunque al fatalismo ("Quel masso mi ha atteso da tutta la vita!").
Per il resto godibile.


24 - The fighter (febbraio 2011)





La telecamera della HBO riprende Dicky Eklund, un ex pugile professionista che è diventato "l'eroe di Lowell", combattendo in un match discusso contro il famigerato Sugar Ray Leonard. Davanti all'obiettivo però non c'è traccia di un eroe sportivo, ma solo di un omino pallido e smunto, scavato in volto e ormai devastato dalla droga. Il vortice della tossicodipendenza nel quale è entrato come in una spirale lo ha portato sempre più in basso. E la HBO vuole immortalarlo e raccontare la sua storia di autodistruzione, perché possa essere da esempio agli altri.
Accanto a lui c'è il fratello, Micky Ward (nato dalla stessa madre ma da padre diverso) stesso mestiere di pugile ma carattere opposto: ha meno talento di Dickie ma è anche meno impulsivo e più riflessivo. Venera il fratello, dal quale ha imparato tutto quello che sa sulla boxe, e che lo allena.

Micky ha un fratello e una madre che ne curano gli interessi professionistici e un'intera accozzaglia di sorelle a formare una famiglia che lo possiede psicologicamente.
Dickie non si presenta agli allenamenti, la madre gli "organizza" pessimi incontri; è costretto ad accettare di sfidare un avversario fuori forma, ma di ben 8 kg di peso superiore, per assecondare le pressioni dei suoi familiari, interessati al denaro promesso dalla ESPN per l'incontro.
Micky perde. E cade in un baratro che sembra condurlo alla fine inesorabile della sua carriera, a 31 anni suonati e un'autostima pressoché fatta a pezzi, tanto è l'imbarazzo che gli impedisce di farsi vedere dalla gente che conosce.
Intanto Dickie viene arrestato e lui per aiutarlo ottiene una mano fratturata.
E' l'ora del distacco dalla famiglia, per quanto doloroso sia. La ragazza di cui si innamora, Charlene (Amy Adams), lo aiuta a prendere coscienza dei propri mezzi e lo supporta nel suo processo di indipendenza: assieme a un nuovo manager, potrà tornare a combattere e a farsi una reputazione, a patto che non abbia più contatti con la famiglia. Micky si allena e vince qualche buon incontro, guadagnandosi la serenità per tornare ad essere un pugile importante.
In un incontro decisivo per la sua vita, ottiene la possibilità di sfidare il campione del mondo dei pesi welter, grazie alle dritte del fratello più che alla strategia dei suoi coach. I due si riavvicinano quindi prima dell'incontro che cambierà la sua carriera e la sua vita per sempre e che darà forma e consistenza al sogno di un pugile dato per finito per quasi tutto il tempo, erroneamente.

Micky, ovvero un grande Mark Wahlberg, è il personaggio protagonista di questo film, ma anche per le vicende (basate sulla sua vera storia) che si intrecciano durante le riprese (del film e non), il suo non è un ruolo che strabordi, che si imponga per eccesso di istrionismo; insomma, niente a che vedere con il Jake LaMotta di Toro Scatenato o tantomeno con il Rocky Balboa dell'altrettanto premiato oscar Rocky .
Corrisponde invece più al profilo dell'outsider, dato per sconfitto in partenza o comunque svalutato in relazione a ciò a cui viene paragonato.
Emblematico l'esempio del fratello Dickie (uno straordinario Christian Bale, qui nuovamente dimagrito spaventosamente per il ruolo) che lo mette in ombra sempre. Lui sì eccentrico, dalla parola facile e la lingua tagliente, dalla simpatia primigenia che lo fa benvolere anche quando si riduce umanamente a poca cosa. Micky stesso non smette mai di nutrire ammirazione nei suoi confronti, nonostante sappia della sua dipendenza dal crack, nonostante sappia che la sua assenza agli allenamenti si ripercuoterà sulla sua preparazione, nonostante i continui problemi che il fratello continua a causargli e dopo la separazione fisiologica e dolorosa e l'arresto di Dickie, Micky non smetterà mai di fidarsi di lui, perché in fondo è il suo personale eroe, per quanto non incarni quella figura perfetta ed inappuntabile.

Mikie è anche in un profondo conflitto, interiore che riguarda la sua voglia di scappare da ciò che lo ostacola (la famiglia) senza ferire nessuno ed esteriore che si palesa con le scelte che gli vengono sottoposte continuamente.
Se distaccarsi dal fratello, se chiedere rispetto per se stesso, se farsi gestire da un altro manager, se accettare le condizioni di quest'ultimo che prevedono la fine dell'ingerenza di Dickie nella sua vita pugilistica.
Micky è stufo di questo peso, perché vorrebbe semplicemente che tutti coloro a cui vuole bene o con cui lavora bene fossero lì con lui, ad aiutarlo e a supportarlo, a gioire delle sue vittorie. Gran parte della sua fatica consiste in questo, nel riunire un entourage capace di dargli fiducia.
Al confronto, la vittoria del titolo sembra una passeggiata.

Film dalla produzione piuttosto travagliata (il regista originario doveva essere Aronofsky che dopo lo sciopero degli sceneggiatori aveva abbandonato il progetto, andando a dirigere The Wrestler , mentre la parte di Dickie doveva essere assegnata prima a Matt Damon e poi a Brad Pitt, prima di andare ufficialmente all'eccezionale C. Bale, candidato come "Miglior attore non protagonista"), venuto alla luce con ben due anni di ritardo, ma che alla fine ha dimostrato di valere tanta attenzione. David O. Russell, colui che l'ha infine diretto e che ha più creduto nel suo valore assieme ad un Wahlberg molto professionale nell'entrare nella parte (si è allenato nonostante i rinvii), dirige questo film con eleganza e lascia spazio alle prove incoraggianti di tutti gli attori presenti. Se Wahlberg e Bale da soli valgono il film, non va dimenticato che il supporting cast è di tutto rispetto, con Melissa Leo (Alice) ed Amy Adams (Charlene) a contendersi il premio per l'attrice non protagonista.
Una sceneggiatura originale scritta molto bene (altra nomination), tante cose succedono in successione e tengono alta la guardia, non facendo mai recriminare per tempi morti o lungaggini gratuite. Non assenti poi scene di livello, capaci di scavare nella psiche e nella storia personale dei personaggi, prima su tutte quella di Dickie in macchina con la madre che lo ha appena scoperto a fuggire nuovamente dalla "casa del crack", e mentre lei cerca di rimproverare al figlio (e a se stessa) ciò che ha davanti agli occhi, non riesce a fare a meno di commuoversi per la filastrocca che Dickie le canta sorridendo e poi di unirsi a lui.

E' anche un film sull'essere eroi nuovi o decaduti, sulla fama prima conquistata poi elemosinata, sul bisogno di dimostrare qualcosa a se stessi e agli altri, sulla miseria o sulla presunta ricchezza, sull'ignoranza o sulla bontà d'intenzioni, nonché sulla linea molto sottile che separa il vincente dal perdente. Invasiva in tal senso è la T.V., genericamente intesa, usato sia come mezzo di risonanza (le scene del combattimento di Dickie contro Sugar Ray, quelle di Micky vincente sul ring) che di patibolo mediatico volto a dare l'esempio (il filmato dell'HBO sulla tossicodipendenza di Dickie, i giochi di denaro e di potere con cui vengono gestiti e commentati certi incontri); ma con una voce che si eleva sopra il coro contrario, sia esso il pubblico di casa che tifa per il proprio beniamino (do you remember Rocky?) o commentatori televisivi già "indirizzati" verso una preferenza, ed è quella dell'uomo, da solo, che va oltre le previsioni e spodesta il favorito.
Il trionfo dell'uno contro tutti però passa in rassegna e il film ci propone piuttosto un eroe in un senso tutto nuovo per il genere cinematografico in questione che non ottiene una forma di riscatto sociale vincendo su un ring ma che riesce a vincere sul ring solo quando la sua vita ha trovato una quadratura.
Il film si chiude con una nuova telecamera della HBO, ma questa volta le luci sono tutte per Micky.
Per Micky e per chi gli sta attorno.


25 - Inception (febbraio 2011)



Dom Cobb (L. Di Caprio) ha ereditato dal padre un'abilità notevole: quella di navigare nella mente delle persone. Per sua sfortuna si tratta di una capacità poco utile se non a fini illegali. E' infatti qualcosa per cui le compagnie con grandi interessi economici pagherebbero profumatamente, ed è così che Dom lavora, inserendosi nel subconscio dei soggetti in questione per carpire loro segreti o informazioni chiave.
Cobb inoltre è ricercato per l'omicidio della moglie Mal in America ed è quindi esiliato altrove, costretto a trovare lavori da fare con il sogno di tornare un giorno a casa, dove ha lasciato due figli senza cui non intende continuare a vivere.
L'occasione propizia gli capita quando Saito, un potente uomo d'affari giapponese, gli offre la possibilità di esaudire il suo desiderio a patto che riesca a convincere Fischer Jr. (C. Murphy) a smantellare l'impero economico del padre, rivale di Saito. Impresa ardua, perché se è relativamente un gioco da ragazzi prelevare informazioni, non lo è altrettanto instillare idee completamente nuove in qualcun altro. Soprattutto, potrebbe rivelarsi nocivo per la salute e l'identità stessa del soggetto.

Cobb si avvale di una squadra: il fidato Arthur (J. Gordon-Levitt) e l'architetto Ariadne, Arianna in Italia (Ellen Page), la quale dovrà far valere la sua competenza in fatto di costruzione di spazi e labirinti virtuali (citando l'Arianna della mitologia greca); spazi che verranno in seguito riempiti dai ricordi e dalle percezioni di colui che sogna. L'impresa si presenta difficile, perché occorrerà costruire (e risalire) ben tre livelli nel subconscio di Fischer, per una struttura stratificata complessa e soprattutto tutto dovrà essere eseguito nei tempi previsti.
In sospeso, ma parallelamente al filone principale della trama, si rielabora attraverso sogno e memoria la sottotrama del rapporto fra Cobb e la moglie, che lui ama ancora disperatamente e che per questo non riesce a lasciare andare, sconvolto dai sensi di colpa per il modo in cui è morta di cui lui si sente responsabile. Sarà necessario affrontare uno ad uno tutti gli spettri, prima di poter mettere la parola fine alla questione pendente.
Non è il caso di svelare troppo della trama, attorcigliata su se stessa come un grande rebus da risolvere gradualmente.

Nolan arriva a questo film nel punto giusto della sua carriera, ci arriva con grande consapevolezza e maturità, dopo essersi barcamenato con un film ancora un po' acerbo come Memento ed aver affinato le sue abilità illusionistiche ed enigmatiche con The Prestige .
Non c'è da sorprendersi tanto, cioè, se pronti-via ci imbattiamo nel bel mezzo di un sogno pianificato e costruito, con una missione in corso e tanti colpi di scena che si succedono senza che si sia in grado di capirci alcunché. E' lo stile di Nolan quello di infilare più elementi possibile spingendo il piede sull'acceleratore (anche dal punto di vista dei dialoghi) in modo da stimolare una iperattività del cervello dello spettatore.
Non è bassa infatti la soglia d'attenzione che questo film richiede, inizialmente. Man mano che si procede l'intrigo viene disciolto, lasciando spazio ad almeno una mezzoretta abbastanza bruttina, nella quale un film con ottimi presupposti e buone idee getta un po' tutto al vento facendosi prendere dall'estasi delle esplosioni, delle sparatorie, del pathos tipico del cinema d'azione che si va a mescolare al drammone fantascientifico.

Non si può certo dire che questo film affronti temi mai visti al cinema... anzi, molti sono gli esempi anche recenti di tentativi di destreggiarsi fra realtà e finzione, fra sogno e realtà, però va detto che rispetto a quegli esempi, Inception mostra di aver imparato e poi applicato quanto suggerito da altri in un film che di certo non pecca di sostanza.
Una trama estremamente cervellotica, si diceva, come qualche grande film deve avere a volte per essere veramente visto e capito, per non rimanere solo un'idea astratta campeggiante a tutto schermo da guardare a bocca spalancata; una concretezza non dissimile a quella di cui si parla nel film.
Inception proietta anche in un futuro ipotizzabile un mondo in cui niente più di noi è veramente al sicuro dall'"oscuro scrutare" altrui, dove persino i nostri sogni nel concepimento dell'intimità possono essere setacciati, non mancando di alludere al coraggio che in certi casi è richiesto per andare avanti, per abbandonare un sogno che per quanto bello sia non è meglio della realtà che si costruisce giornalmente, non coi ricordi ma con le vite delle persone.

Un cast incredibile: oltre ai vari Ellen Page, J. Gordon-Levitt, Cylian Murphy, Marion Cotillard si aggiungono due veterani come Michael Caine e Tom Berenger. Per non parlare poi del protagonista L. Di Caprio, che a distanza di cinque mesi torna a fornire una buonissima prova in un ruolo di molto simile a quello che l'aveva visto al centro delle inquietanti vicende di "Shutter Island" curiosamente snobbato dall'Academy.

La buona recitazione è parte integrante di una produzione chiaramente accorta, che nulla lascia al caso, a cominciare dalla sceneggiatura originale di cui si è detto (scritta da C. Nolan, e candidata all'oscar), fino all'ottima fotografia e agli effetti speciali, diluiti ma molto efficaci, fino ad arrivare alle musiche composte da Hans Zimmer per un prodotto finale davvero tout-court.
Candidato per il "miglior film" e per praticamente tutti quanti gli altri premi "tecnici", si candida ad essere protagonista alla prossima cerimonia.
Di sicuro lo è già stato nel 2010, riuscendo nella titanica impresa di unire gli elogi di pubblico e critica, con eccellenti incassi al box office.



26 - The Social Network (febbraio 2011)




Mark Zuckerberg (un flemmatico e bravissimo Jesse Eisenberg) frequenta l'università di Harvard, quando nel giro di una notte riesce a mettere a punto un software che accede illegalmente agli archivi informatici dell'università e ruba le foto delle studentesse che rende poi pubbliche, indicendo una votazione allargata a tutti gli utenti della rete: si chiama Facesmash.
Il tutto dopo aver aggiornato il suo blog, in cui ricopriva d'ignominia la ex-fidanzata dopo essere stato mollato e inconsapevolmente offriva un movente ai suoi smascheratori.

L'università lo richiama e il consiglio lo multa, ma lui ha ottenuto quello che voleva: più di 22.000 accessi in un paio d'ore.

La reputazione che si è fatto lo mette in cima alla lista di due facoltosi studenti ed atleti promettenti, appartenenti ad un club elitario di Harvard (i fratelli Winklevoss), che dall'alto del loro nome, vedono in lui l'uomo adatto a fare loro da manovalanza per arricchirli.
Gli offrono infatti di realizzare "Harvard Connection", una sorta di network esteso alla comunità del college.
Zuckerberg fa loro credere di accettare, mentre in realtà prende loro idee e spunti e crea qualcosa di migliore, di più grande: TheFacebook.

Quando il sito è online è già sulla bocca di tutti e i continui "iscritti" non fanno altro che gettare benzina sul fuoco, accrescendo il desiderio di rivalsa dei Winklevoss, ben consapevoli che sarà sempre più difficile dimostrare il furto di proprietà intellettuale da loro reclamato se non interverranno in modo risoluto; tuttavia, le loro maniere chic ed altezzose, unitamente al loro "ossequio" per un codice etico (quello di Harvard) che sono i primi a violare quando ne chiedono il rispetto, li portano a vagliare altre strade, prima di ricorrere all'unica sensata, cioè quella legale.

Intanto Zuckerberg e il suo (allora) migliore amico, e direttore finanziario nonché socio co-fondatore del progetto, Eduardo Saverin (Andrew Garfield), pensano ad allargarsi e a cercare investitori ed inserzionisti, in modo da espandersi.
Ma la macchina da soldi che hanno per le mani comincia a vivere di una vita propria, alimentata poi dal clamore che riscuote quando gli accessi oltrepassano i confini statali del Massachusetts e finisce fuori controllo, muovendosi ad una velocità vertiginosa.
Entra in scena Sean Parker, l'inventore di Napster con più di una macchia sul suo status di uomo d'affari.
Si dimostra affabile ed esperto, consiglia di togliere il "the" e di puntare alla semplicità e all'efficacia: Facebook.

La sua pomposità crea però degli strascichi: Eduardo si sente tagliato fuori e Zuckerberg è ormai del tutto plagiato dalle idee di Parker, che gli offre contatti importanti fra gli investitori e la possibilità di pensare sempre più in grande, mentre l'amico si sbatte ottenendo in cambio sempre meno considerazione.
I rapporti fra i due precipitano e ci portano dritti dritti in un'aula di conciliazione di tribunale in cui gli avvocati ricostruiscono passo dopo passo, con testimonianze e interrogatori la vera storia di Facebook, il social network che oggi può contare su più di 500 milioni di iscritti.

La locandina recitava: "non arrivi a 500 milioni di amici senza farti qualche nemico".

Il film ci mostra nel modo più lineare e fedele possibile come un ragazzo, cervellone e "nerd" ed emarginato sociale, è riuscito a farsi largo in una delle industrie più remunerative del mercato e soprattutto di quello che ha superato per arrivarci.
I compromessi, le idee di rivalsa sociale nei confronti di coloro a cui addebitava atteggiamenti spocchiosi, le invidie e i rancori che si porta dietro e le amicizie e gli amori mai del tutto dimenticati mentre la sua creatura prendeva forma e s'impossessava di lui.
Zuckerberg, da sempre più interessato a creare qualcosa di socialmente utile e condiviso in un modo assolutamente geniale piuttosto che a fare palate di soldi, riesce a coniugare entrambe le cose divenendo il più giovane miliardario (o billionaire) del mondo. Il suo impero raggiunge dimensioni spropositate e ogni giorno di più i suoi confini si allargano. E' stimato intorno ai 500 milioni il numero degli utilizzatori di Facebook oggi, e alla luce anche delle vicende attuali non si può non riconoscere che si tratti di un fenomeno sociale senza precedenti nella storia.
E nonostante questo, l'ultima sequenza è per un Zuckerberg accigliato, ancora un po' trattenuto da un sentimento che non riesce (o non vuole?) ad esternare, incapace di evitare di ferire coloro ai quali vorrebbe dimostrare amicizia, autocondannandosi alla solitudine.

Fincher (Se7en, Fight Club) dirige un film che sarebbe stato probabilmente normalissimo, se diretto da qualcun altro. Non tanto perché la storia non sia interessante in sé, ma perché lo stile del regista condiziona pesantemente la struttura stessa del film, infonde le proprie intuizioni nello sviluppo della storia, sceglie di puntare sulla monoespressività di Eisenberg (in una parola: perfetto) e di valorizzarne la presenza, che non è solo ciò che dice, ma anche come lo dice. Sempre fra i denti, sempre con bene in mente chi è lui e chi è invece quello che ha di fronte.
Eisenberg è eccezionale a rendere questo tipo di personaggio, ma Fincher trasforma un buon prodotto sulla carta in un gran bel film.

Vincente è anche la scelta del doppio binario in cui è incanalata la trama, procedendo spediti nei flashback in modo da rendere via via più chiaro la materia vera del contendere fra avvocati arroccati nelle proprie posizioni ed ex-amici che si fanno la guerra per ottenere quello che reputano di loro spettanza.
E' anche la contrapposizione fra i personaggi, fra i loro interessi e il modo in cui decidono di comportarsi che li rende interessanti.

I dialoghi sono poi fitti, avvincenti, ben studiati. Anche grazie al sapiente cambio in corsa dei registri linguistici usati per descrivere questioni posizionate su piani diversi anche se comunicanti fra loro, si ha sempre la piacevolissima sensazione che il film scorra, senza risultare incomprensibile e allo stesso tempo senza dar segno di cedimenti banali.
A ottenere molti riconoscimenti, tanto è ben scritta, e a concorrere in qualità di "miglior sceneggiatura non originale" è la sceneggiatura di Aaron Sorkin, che ha anche firmato il film in qualità di produttore esecutivo assieme a Kevin Spacey.
Un'altra candidatura va alle belle musiche di Trent Reznor ed Atticus Ross.

Ben 10 le nominations e tante le probabilità che sia questo "Il Film" che la farà da padrone, essendo stato scelto dall'Academy contemporaneamente per Film, regia, attore protagonista e sceneggiatura, oltre agli altri svariati premi tecnici, fra cui fotografia e montaggio sonoro.
Seconda candidatura da regista per Fincher, dopo "Il curioso caso di Benjamin Button", nel 2009.
Personalmente, stavolta faccio il tifo per lui.



27 - Un gelido inverno - Winter's bone (febbraio 2011)




Ree vive una vita problematica, confinata in un angolo sperduto del Missouri, e dell'America.
La madre è uscita di senno e praticamente in condizioni vegetative, i fratelli più piccoli non hanno l'età per bastare a se stessi e il padre è sparito, da qualche parte.

Il padre è noto nella zona come cucinatore di anfetamine, ed è stato arrestato da qualche tempo.
Per uscire di prigione ha impegnato la proprietà della famiglia come pegno per la cauzione.
Quando lo sceriffo si presenta a casa di Ree e le spiega che se il padre non si presenterà in tribunale a testimoniare la proprietà sarà loro confiscata, ha inizio la ricerca di Ree.

La languida e fredda fotografia immortala uno scenario glaciale, quasi immobile. I boschi, la fauna occasionale, le strade deserte ed impervie raffigurano qualcosa di inaccessibile, come se niente di tutto quello che si vede fosse davvero reale.
L'atmosfera è del tutto particolare, di molto vicina a quella di uno scenario post-apocalittico.
Il freddo distacco con cui si guarda a quello straordinario scorcio risalta nelle espressioni del tutto stanche, e provate della gente del luogo, che cerca di annegare l'afflizione nell'alcol e nelle ballad country.

I nostri occhi vanno a Ree, che ha fretta di ritrovare il padre e coraggio quanto basta per rivolgersi alle persone sbagliate, anche incautamente, pur di non perdere il posto in cui vive con la famiglia.
E già così, con la miseria in cui versano e i problemi legali non è facile.
Ree (Jennifer Lawrence) conosce molto bene ciò con cui ha a che fare, perché lo ha imparato dal padre. Quindi sa che entrerà in un circolo vizioso di malviventi da cui sarà difficile districare la risposta alla sola domanda che gli interessa porre. Sa anche che non sono tipi molto loquaci quelli a cui fa visita, e che l'aria è impregnata di omertà e minacce.

Ree è però in quella particolare condizione nella quale non c'è una via d'uscita, è disperata e farà comunque di testa sua, nonostante i consigli dello zio Teardrop (John Hawkes). Ne paga le conseguenze, ma è solo così che riesce ad arrivare in fondo alla questione, non senza che il film si mostri un po' restio a sollevare gli ultimi veli che nascondono la verità.
Questo film indipendente, vincitore del premio della giuria al Sundance Film Festival (quello che premia le produzioni più lontane da Hollywood, insomma) per il film drammatico, racconta di un posto che si fatica a credere reale, tale altopiano di Ozark, in cui si svolge l'azione del film e di una comunità pronta a fare quadrato intorno alle persone che la governano, nello svolgimento dei loro malaffari.

Torbido è ciò che si cela dietro le apparenze, fino a gettare lo spettatore in uno stato d'inquietudine piuttosto profondo, non senza lesinare fra l'altro scene di perversa disumanità, in una cornice di spietato e lucido realismo.
Non ci sono battute comiche in momenti agghiaccianti o falso ottimismo laddove il cinismo è l'arma migliore per sopravvivere.

Niente illusorie rassicurazioni, niente "andrà tutto bene", ma solo un ritratto corale di un posto sperduto, che non si preoccupa di incarnare l'ideale del sogno americano o di qualsivoglia credo che pretenda di imporsi su una storia pura e dura, semplice ma difficile da digerire.
Tutto questo è il sorprendente "Winter's Bone", un film che merita rispetto. E di essere visto.



28 - Rec (marzo 2011)



Una squinzia di reporter, assetata di successo e disposta a tutto per uno "scoop" pseudo-giornalistico, ottiene assieme al cameraman di fiducia la possibilità di seguire alcuni vigili del fuoco durante il turno di sera.

I convenevoli iniziali, le battutine politically correct, le rassicurazioni sullo sfondo di un'annunciata routine che si prospetta molto noiosa lasciano spazio però a qualcos'altro quando i nostri eroi si catapultano in un condominio, per rispondere alla chiamata di una signora anziana, apparentemente fuori di testa.

Da qui in poi, sarà una concatenazione di colpi di scena (o per tali spacciati) e di brutture estetiche e trash ad essere messa in moto per prendere in ostaggio la mente del pubblico.
Basandosi su uno degli stereotipi horror più usati e abusati nella storia recente (un luogo "chiuso", da cui non esiste via d'uscita, in questo caso per una quarantena di ordine sanitario), l'idea è quella di costringere lo spettatore ad immedesimarsi con i poveri attori di questa tragicomica boutade che vengono decimati ad uno ad uno, mentre sullo sfondo si ode di tutto: schiamazzi, versi lamentosi, gridolini isterici, urla in stile "L'ersorcista", rantoli, irritanti litanie dell'asfissiante squinzia reporter, rimbombi cupi che si propagano lungo la tromba delle scale, tutto mentre la telecamera ondeggia come ad un rave party.

Nel tentativo di trovare qualcosa di stupefacente, un nuovo grimaldello con cui scardinare l'horror convenzionale, il film prova ad inquietare stabilendo un nesso più personale e diretto fra lo spettatore e quello che accade, eliminando tutte le interfacce frapposte.
Quel che ne esce è un video di Youtube, in una cornice di farsesco iper-realismo amatoriale in cui i dialoghi sono terra-terra, i personaggi sono definiti blandamente per renderne lo status ganzissimo (!) di "persone comuni" e discutibile appare la decisione di fare affidamento per tutto il film sull'uso della handycam e della visione in soggettiva (inserito nel filone "Blair Witch Project", e poi emulato da "Cloverfield").

La suspence non è più prefabbricata, finta e studiata a tavolino ( o qualsiasi altro luogo comune adatto vi venga in mente ), ma diventa uno stato d'animo dotato di una vita propria che cresce pian piano, alimentato dalle cretinate splatter, dal montaggio sonoro (comunque ottimo), e dalle suggestioni per gonzi, tutti insieme per mano a cercare di coprire gli occhi di chi cerca (invano) di capire cosa ci sia dietro.
Si passa dal virus fantascientifico, allo zom-com involontario per arrivare (Dio ce ne liberasse e scampasse) a riabilitare le possessioni demoniache Friedkiniane, con tanto di ritrovamento di un nastro occulto ancora inciso delle parole datate di un tale sconosciuto (mentre la reporter continua a rendersi ridicola urlando: "Cos'è?! Cos'è?!", dimenticandosi che forse è difficile capirlo mentre si usa un tono di voce di 40 dB più alto...) che fanno convergere tutti i sospetti verso l'ultima deriva narrativa del film.
L'ultima scena cerca di elevare il film, suggellandolo con un tentativo di satira persino apprezzabile per quanto sfortunatamente trito e ritrito.

In conclusione, questo horror mi ha fatto pochissima paura, e tanto schifo. Perciò almeno un obiettivo del film può dirsi centrato.
A chi si volesse addentrare, auguro tanta fortuna.
Astenetevi se siete facilmente impressionabili o se pensate che conciliare il fattore novità con un prodotto allo stesso tempo valido non sia troppo utopistico.



29 - Benvenuti a Zombieland (marzo 2011)



Da quando un tale ha contratto il virus che ha scatenato l'epidemia azzannando un hamburger, gli Stati Uniti hanno cessato di essere la Nazione che erano e in poco tempo, morso su morso, la quasi interezza della popolazione è stata contagiata, e ridotta in tanti zombie.

Uno scenario post-apocalittico fa da sfondo a questa brillante e ironica commedia, che adopera un po' tutti gli strumenti del genere per raccontarci un film on-the-road nel quale facciamo la conoscenza di quattro personaggi dai nomi dei paesi di cui sono originari (di quasi nessuno conosceremo il vero nome) e dalle personalità completamente diverse: da Columbus, ragazzo timido e asociale che sopravvive grazie ad una lunga e rigorosa lista di regole e tanta prudenza a Tallahassee, cowboy d'altri tempi particolarmente a suo agio nel combattere corpo a corpo con gli zombie, ostacoli da eliminare per riuscire finalmente a (ri)assaporare un Twinkie (merendina americana d.o.c.g.), per arrivare alle due sorelle, Wichita e Little Rock, disincantate e ciniche quanto in spasmodica ricerca di una vera famiglia e di un posto dove andare.

Quest'accozzaglia di personaggi rappresenta la vera miscela esplosiva capace di innescare la comicità, prima ancora dei dialoghi e delle gag disseminate qua e là, a cavallo delle scene d'azione che fra l'altro mettono in evidenza un grande lavoro dietro le scene quanto a trucco ed effetti visivi.
Una esteriorità che rafforza il concept di un film che non è solo una horror-comedy ma abbraccia più generi assieme, non mancando di toccare alcune punte di commozione o riflessione mentre già elucubra lo spassoso escamotage successivo.

Nel cast appaiono parecchi attori semi-sconosciuti ai più (Jesse Eisenberg divenuto famoso solo recentemente, Emma Stone e Abigail Breslin) per via della loro gavetta indie alle spalle e dei veri e propri caratteristi, molto efficaci sotto il profilo della caratterizzazione dei personaggi: Woody Harrelson nella parte dell'uomo d'azione e persino un cammeo del guru Bill Murray nella parte di se stesso che - udite, udite - torna a vestire i panni dell'acchiappafantasmi, caricaturando se stesso ed impreziosendo il film di una gemma autentica.

E' una grande e mordace giostra traboccante di divertimento, che arriva quasi a simbolizzare se stessa nella scena finale del Luna Park e dell'orda finale di zombie da eliminare.
Senza cercare cose complicate oltre la sua sfera d'attinenza e seguendo più o meno il percorso già solcato da altri anche illustri predecessori (ad esempio l'esilarante "L'alba dei morti dementi"), Zombieland può essere dunque raccontato per nient'altro che quel che vale, ovvero una notevole mole di divertimento ed azione lungo la via della personalissima comprensione del vero significato dell'esistenza dell'umanità.



30 - Ghost World (marzo 2011)




Fine del liceo, Enid (Thora Birch) e Rebecca (Scarlett Johansson) si apprestano a capire cosa ne sarà delle rispettive vite una volta calcato il palcoscenico dei grandi e dismessi i panni delle adolescenti senza pensieri.
Lavoro, soldi, casa propria, indipendenza, l'abbandono di quell'innocenza a cui è difficile dire addio. La finzione e l'ipocrisia di ciò che le circonda, ad alimentare il loro mordente sarcasmo.

I sorrisi di circostanza delle "amiche" mai sopportate, gli snob "pseudo-tutto", le ambizioni artistiche radical-chic, il politically correct, la serietà come passe-partout per le relazioni sociali, le regole per sopravvivere nel mondo reale.
Le occhiate divertite alle persone cui sperano di non assomigliare mai, gli ammiccamenti al fetish, le parentesi ideologiche punk, l'affetto sincero per i cimeli e per i vecchi dischi blues dimenticati e le stronzate varie che diventano importanti proprio perché non lo sono per nessun altro. E poi: gli scherzi di cattivo gusto per uccidere a coltellate il tempo che scorre inesorabile, come per fermarlo, lasciando immutati i riferimenti, le cose che danno sicurezza, in un "mondo fantasma" nel quale Enid, la vera protagonista del film, si aliena poco a poco, al passo di quella sua realtà intima che le si modifica attorno.
Il film riempie con disinvoltura di scenette patinate una sceneggiatura scritta e adattata in base all'omonimo fumetto underground di Daniel Clawes (che ha contribuito allo sviluppo dello script), descrivendoci questo mondo visto dalla prospettiva di due adolescenti che che vi si affacciano curiose e disinibite per non mostrarsi impaurite, sempre fuori dagli schemi e dalle convenzioni, malcelando la loro mai riuscita integrazione sociale e il disagio familiare. Il tutto mentre sfila un intero battaglione di personaggi alquanto grotteschi, sempre con la battuta pronta, definiti macchiettisticamente, spesso in grado di minarne le sicurezze, di disorientarle.
Come il loro amico Josh, che "odia tutto quello che è normale" e che attira l'interesse probabilmente non corrisposto di Enid. Come Seymour (il mito Steve Buscemi), personaggio del tutto fuori da ogni logica ed inverosimilnente patetico, che incarna il profilo del fallito di mezz'età, uomo quasi senza difese, collezionista triste e avvilente... eppure sono tutte queste cose a renderlo simpatico a Enid, che gli si affeziona senza volerlo, trascinata da un impeto più grande di lei, quella consapevolezza di non voler vivere in un mondo in cui una persona come lui sia costretta alla solitudine.
Sullo sfondo l'amicizia fra Enid e Rebecca, vissuta come meccanismo di difesa, di lotta all'emarginazione; amicizia incrinata anch'essa dall'ineluttabile processo di maturazione che incombe e che le distanzierà, mentre la metafora fantasma che altro non è che l'adolescenza ricalcata sulla provincia americana anti-americana si perpetua, in quella cortina di nostalgica disillusione che vorrebbe tanto offrire una soluzione alla fine del viaggio, ma che non è davvero in grado di garantire...



31 - Motel Woodstock (giugno 2011)




Il film che torna a parlare dello storico concerto di Woodstock, lo fa attraverso gli occhi di Elliott Tiber, un ragazzo di White Lake, un paesino minuscolo vicino a New York nel quale gestisce un motel assieme ai genitori.
Elliott è un brillante riferimento per la comunità in cui vive: è un eccellente decoratore, è presidente della camera di commercio e possiede una creatività smisurata.
E' soprattutto quest'ultima dote che lo mette davanti all'occasione di aiutare ad organizzare il famigerato concerto tenutosi nel 1969 e che ha rappresentato un'intera generazione di giovani americani che si riconoscevano nella libertà della musica, nella pace e nell'amore.

Ripercorrendo le tappe di quei tre giorni assolutamente straordinari nello spaccato storico americano, mentre la guerra del Vietnam offriva diverse ragioni di tensione e la guerra aleggiava sulle teste di milioni di giovani mandati letteralmente al macello, un piccolo passo nella direzione opposta veniva mosso da centinaia di migliaia di persone attratte semplicemente dalla possibilità di vivere un presente diverso, utopico e quindi forse, migliore.

Divertente è l'approccio del film (trasposizione del romanzo autobiografico "Taking Woodstock: A True Story of a Riot, a Concert, and a Life" dello stesso Elliott Tiber), quello di narrare le vicende di un ragazzo in perenne ricerca di una libertà espressiva che viene ostacolata dai doveri e dalle responsabilità inculcategli dai genitori alquanto fuori dagli schemi e per buon parte oppressivi.
In questo modo è Elliott che si concede alla follia di quello che accad(d)e, riconoscendosi sognatore ed imparando a conoscersi un po' meglio di quel che credeva.
Le porte della sua percezione vengono schiuse una ad una, così quelle dell'intera nazione che vengono prese d'assalto dal delirio collettivo.
Cederà di conseguenza alla tentazione e si avvicinerà a quella parte di universo che ancora non gli riesce di comprendere, mentre lentamente muove i passi che lo allontanano dal passato, dalla sua famiglia e quindi da casa per abbracciare qualcosa di meno certo ma di più eccitante.

Ang Lee pennella questo film come un dipinto, a partire dai colori sfolgoranti che impone a più riprese agli occhi dello spettatore. Lo arricchisce poi di persone, luoghi, immagini, musica e di racconto. E' un film che parla di caos, dove la rivoluzione culturale si impone agli occhi e alle usanze della tradizionale e conservatorista comunità locale che male si poneva di fronte ai metodi poco ordinari di persone come non ne avevano mai viste; dove persino la burocrazia si deve piegare ad un impeto di orgoglioso cambiamento che riusciva a convincere anche i meno sospettabili forse finalmente consci che le persone e non le cose o i soldi, erano la parte più importante dell'equazione.

Il tutto viene riprodotto come nel concerto che compiva quarant'anni proprio alla data di uscita di questo film: le stesse atmosfere, nell'esaltazione e nella consapevolezza sono cucite fra loro fino a cercare di ridare lustro a quelle stesse sensazioni e percezioni di un tempo che il regista stesso ama e si vede; lo si nota dal taglio romantico-nostalgico che imprime, come se stesse scattando una fotografia a qualcosa di troppo fugace e di difficile descrizione.
Ma è una visione "da fuori", quella di Lee, è quella di un critico osservatore estraneo che è scolpita nelle diverse facce e nei diversi punti di vista della variegata società americana di quel periodo, in parte confusa e impaurita e in parte desiderosa di aprire la mente guardando oltre la superficie. Vi si allude con onestà e con simpatia, ma mai con irrisione nonostante si addensi sul fondo quell'alone di forte dubbio sulla concretezza delle intenzioni di quella gente, in quegli anni così controversi.

I personaggi (soprattutto quelli ridotti a puri stereotipi: leggasi Emile Hirsch palesemente fuori ruolo nella parte del veterano del Vietnam che non riesce più ad adattarsi alla sua vita pre-guerra) sono tutti rappresentati più dalle loro peculiarità stravaganti che altro, con Lee che si diverte ad accentuarne il peso umoristico e ad alternarli su un grande carrozzone di bizzarrie dove però nulla è giudicato tale, arrivando ad ombreggiare i contorni di un'idea che si guadagna gli onori della cronaca; cronaca di un evento leggendario che fu e che mai più ritornerà, anche se qualcuno, come ad esempio chi ha contribuito a fare questo film, si chiede ancora perché.

martedì 15 novembre 2011

Recensioni 2009-2010

Queste fin oggi le mie recensioni (è un'attività che ho iniziato da poco tempo, e durerà altrettanto, probabilmente). L'elenco non è del tutto completo, poiché le primissime non sono mai state conservate e sono quindi sparite nel nulla, travolte da un vortice di indifferenza.

Quelle che restano fanno comunque abbastanza schifo anche per le altre.

Noterete che rispetto alle prime, esili ed ordinate concatenazioni di parole senza alcun senso compiuto, le più recenti sono molto più "complesse" e "pensate", il che si spiega solo con un'accentuata bulimia letteraria di cui vado particolarmente fiero.



Questa è la prima parte, ovvero quelle scritte fra il 2009 e il 2010.

Enjoy.


1 - Spun (novembre 2009)



L'incalzante progressione di ore della per nulla noiosa vita quotidiana di "Ross", ovverosia un tizio che si alimenta di anfetamine e (guarda caso) subisce qualche piccolo effetto collaterale. Da incorniciare la scenetta iniziale, con la ripresa di una casupola semi-abbandonata abitata interamente da tossici che attendono con annoiata esaltazione l'arrivo della "roba", e consumano l'attesa dicendo puttanate (ma è parte integrante del "plot", eh.)

L'idea è un po' debole, e se ci cercate una qualsiasi trama, non la troverete, però è interessante tutto il resto: l'audio, il montaggio e gli effetti sonori sono sempre presenti a sottolineare la frenesia del trip, ma vengono abilmente smussati con brani tranquilli e riflessivi (Billy Corgan con i suoi Zwan, Blues Travel, Ozzy Osbourne, ecc ecc.), sempre in armonia con il paesaggio che si staglia attorno e come necessaria "pausa" dagli avvenimenti che si susseguono intensamente (e a volte trionfa il non-sense, ma anche questo fa parte del plot).

Ottima figura fa anche tutto il cast, nulla da eccepire se non per l'aspetto di Jason Schwartzman (che Iddio abbia in gloria le sue capacità recitative, anyway) che sta allo schermo come il Nostro Governo sta all'intenzione di combattere l'evasione fiscale [riferimento datato, ndr].



2 - L'inventore di favole (Shattered Glass) (novembre 2009)



Chi è Stephen Glass? Un grande reporter che merita la fama guadagnata attraverso i suoi notevoli scoop giornalistici o un imbroglione recidivo? Il film è basato su una storia vera, danzando costantemente sul filo molto sottile che separa verità e menzogna in un mondo (quello giornalistico) che viene messo a nudo nella sua amara ipocrisia, dalla costruzione al disfacimento, dalla gloria al declino.

Per essere considerati "qualcuno" è necessario ingannare? La scala di valori corrotta implicita nell'arrivismo e nella mitomania sono del tutto evidenti e mai come in questo momento d'attualità.

Il protagonista, interpretato da (un grande) H. Christensen viene qui smascherato, punito, messo alla berlina e in ridicolo di fronte a tutti coloro che più credevano in lui, infine bandito non solo dall'ordine dei giornalisti, ma anche della cerchia delle "persone credibili", relegato a pura feccia.

La lezione finale è che chi inganna consapevolmente merita questa fine. Ma si sa, nei film, anche quelli ispirati a fatti realmente accaduti, non tutto rispecchia per forza la realtà. Insomma, lo vorrei anch'io un sistema (e non solo giornalistico) nel quale chi si inventa le notizie viene trattato di merda, ma poi come faremmo a inventare cose come questa: "L'amore vince sull'odio" e a farle bere a più della metà della popolazione? [riferimento datato, ma comunque apprezzatissimo da me stesso, ndr]



3 - Dogville (giugno 2010)



Un autentico genio del male (Von Trier, che qui inizia un'ideale trilogia sulla società americana e non solo) che orchestra un'incredibile pièce cinematografica. Attraverso quello che lo stesso regista definisce "cinema fusionale" (una fusione, appunto, di cinema, letteratura e teatro) lo spettatore viene catapultato fra le stradine desolate di un paese remoto e insignificante, un paese che nessuno conosce e vuole conoscere, un paese che nessuno si è mai nemmeno degnato di segnare sulla mappa, tanto che diventa anche il miglior posto in cui una presunta e misteriosamente ingenua ragazza (un 10 pieno a Nicole Kidman) potrebbe "tranquillamente" nascondersi per non essere trovata. Dogville, cioè "città di cani", con un doppiosenso che sarà sempre più chiaro avvicinandosi all'impareggiabile finale.

Uno spunto brillante da cui parte una scia di reazioni a catena che hanno come preciso e illuminato obiettivo quello di mostrarci cosa succede a un manipolo di persone isolate da tutti ed (auto)emarginate dalla società civile se si dà loro l'opportunità di pretendere qualcosa di inaspettato.

Con un budget ridicolo (rispetto anche solo a un Avatar, per esempio), una scenografia pressoché inesistente (il tutto ha luogo solo ed esclusivamente su un palcoscenico teatrale, con tanto di case e strade segnate col gesso e attori che vi vivacchiano sopra) e un cast di attori tutto sommato più incline a recitare in pellicole indipendenti o comunque lontane dagli astri splendenti di Hollywood (a parte la citata Kidman), Von Trier insegna che cos'è davvero il cinema, al di là di tutto quanto; il senso sta tutto in una storia che viene narrata in parte da una voce fuori campo e in parte da attori ai quali si permette piena autonomia recitativa e dei quali risaltano, a dimostrazione, le singole performances, in una coralità radiosa e armonica.

Un immane lavoro dal punto di vista interpretativo, che prova quanto sia non necessario spendere montagne di soldi per un film quando si hanno due cose: le idee e le persone in grado di metterle in pratica. Un capolavoro.



4 - Grace is gone (giugno 2010)



Una storia drammatica che racconta di un ex-militare (John Cusack, sempre sopra le righe, in senso positivo), ma soprattutto di un uomo che perde la moglie in guerra (anche lei soldato) e fatica ad accettare la cosa in quanto ossessionato dal conflitto ideologico provocato dalla decisione del soldato (che era anche il suo) di offrire la sua vita al proprio paese ben sapendo cosa si lascia indietro per questo.

Lui, che è testardo e si rifiuta di accettare la morale anti-militarista (non era meglio che non fosse andata?) fino all'ultimo, quando esplode l'ultimo frammento di resistenza nei confronti dell'insensatezza della guerra, ora che Grace se n'è andata. Ma soprattutto lui ora che è riuscito a essere sincero con le figlie e con se stesso.

Un buon film che spende ben poche chiacchiere inutili su un tema visitato e rivisitato fino alla follia e nella cui trappola retorica è quindi particolarmente facile cadere se non si è precisi e attenti; questo film lo è, ed evita di fare dell'argomento il fondamento del film.

Non si tratta di guerra, né di militarismo o di antimilitarismo, si tratta solo di una storia di accettazione, di un travaglio che comincia ad alleggerirsi solo con la consapevolezza dolorosa e di un solenne rifiuto di abbandonarsi all'autocommiserazione. Un vero e proprio inno all'agire, per non rimanere incastrati. Da vedere.



5 - L'uomo senza sonno (El Maquinista) (giugno 2010)



Il macchinista è qui un uomo eroso, sia emotivamente che fisicamente (il protagonista - C. Bale - è ridotto a una specie di massa cadaverica), dal rimorso e dalla paranoia. Trevor Reznik deve scoprire chi è, capire cosa lo ha ridotto così, un patetico involucro umano che si trascina lungo la routine quotidiana e che continua a confinarlo nella sua realtà onirica ed immaginata.

"Chi sei?" chiede a se stesso attraverso un post-it (che richiama a Memento). E soprattutto cos'è che lo tormenta al punto da impedirgli il sonno da oltre un anno? Il ritmo non è dei più intensi e ci sono alcuni momenti di pausa forse fisiologica, anche per permettere al pubblico di raccogliere i pezzi e comporre il puzzle, ma, nonostante una trama tutt'altro che irresistibile e un mistero più di facciata che sostanziale, si può dire che si tratta di un buon thriller come fattura stilistica e va sottolineato lo spessore artistico di un ottimo Bale nel ruolo che ha di "alieno" nel mondo che lo circonda.

L'atmosfera causa ed è a sua volta causata dall'enigma correndo lungo un sottile filo finché il finale non si limita a reciderlo, mostrandoci il mondo per quello che davvero è, finché l'unica speranza per viverci diventa l'espiazione, rappresentata metaforicamente dalla luce alla fine del tunnel nella scena finale.



6 - The Hard Candy (giugno 2010)



Hayley ha solo quattordici anni quando chattando (casualmente?) su Internet, viene attirata nella tela ordita da Jeff, fotografo professionista trentenne con qualche scheletro nell'armadio. O forse no. I due si incontrano dopo essersi dati appuntamento, e finiscono a casa di Jeff che pensa di aver trovato ancora una volta terreno fertile per la propria perversione; purtroppo per lui, si sbaglia di grosso, e dal momento in cui se ne rende conto viene risucchiato in un delirante vortice di paura e di tensione che sembrerà non aver mai fine, un finale debilitante e sconcertante lo condurrà alla fine di tutto quanto.

Si tratta certamente di un film rivelazione, visti gli apparentemente pochi input e i tanti riscontri (positivi o negativi, ma comunque riscontri di qualche genere) che vanno soppesati. Premesso che occorre conferire tutto il merito possibile a chi ha avuto la materia grigia di realizzare un film così (per l'idea, per lo sviluppo, per la sceneggiatura, per il cast perfettamente azzeccato, per la fotografia e per la scelta delle inquadrature), non si può fare a meno di pensare che si sia volutamente esagerato dalla parte opposta, forse incoraggiando un sentimento troppo forte da poter reprimere (ma questo è comunque vero da entrambe le parti ed è bene ricordarlo) quale quello della vendetta più sadica e barbara.

Quello che salta agli occhi è comunque l'assoluta mancanza di morale della protagonista interpretata dalla straordinaria Ellen Page, che finisce per annullare quasi del tutto il coinvolgimento esaltato dello spettatore (o almeno di quello presumibilmente non affetto da palesi psicosi) nelle sue gesta. Per quanto sia sbagliato quello che l'antagonista (grazie ad un abile trucco narrativo) fa, cerca di fare, e fino ad un certo punto non si pente di aver fatto, è almeno altrettanto scorretto moralmente quello che subisce, finendo per avallare così una populista e forcaiola "giustizia" fai-da-te.

E, a parte questo, la mancanza di certezze che caratterizza tutto quanto il film (da ottimo thriller, qual è) non autorizza a parteggiare per Hayley, a meno di ragioni che forse non si riescono a condividere, finendo con lo spingere lo spettatore dalla parte opposta.

Discutibile il messaggio, ma perfetto in tutto il resto, così come resta a suo favore il fatto che non manca la materia prima di ogni thriller degno di tale nomea: quel tipo di suspence che ti rende impossibile distrarti, lasciandoti alla fine la fastidiosa sensazione di esserti appena svegliato da un incubo che nessuno può spiegarti.



7 - Bastardi senza gloria (settembre 2010)



Tarantino torna a fare il regista a un paio d'anni da quel mitico film che si era rivelato Grindhouse, tanto umile quanto straordinariamente ben riuscito nel suo obiettivo: il semplice e puro intrattenimento.
Quando si annunciò l'uscita di Inglorious Basterds devo ammettere che ero piuttosto scettico riguardo al risultato finale; non ero sicuro di come l'austerità e la tensione emotiva che un film contestualizzato in un periodo storico tanto amaro implicava potesse conciliarsi con il cinema senza freni e genuinamente spensierato di un vero cultore della settima arte. Immaginavo che ne sarebbe uscita una sorta di parodia, una pellicola che avrebbe immortalato e caricaturato i grandi gerarchi nazisti, umanizzandoli allo stesso tempo. 

Tarantino mette in scena quella che è una vera e propria distopia cinematografica, con tutta la serietà che questo richiede, ma che allo stesso tempo si libera con forza da tutti i limiti e pregiudizi del genere, arrivando a coinvolgere lo spettatore perché è più vicino emotivamente a lui che non per la rigorosa cura dei dettagli. Così, si parla di tragedia e morte, ma anche di salvezza; si descrive la ferocia come un'arma che ha due facce (e in maniera smaccatamente manicheista, proprio a sottolineare la presa di posizione rispetto anche alle aspettative dello spettatore).

Si arriva alla vendetta lungo un percorso costellato da molto tempo e molta attesa, cioè come un processo al quale fanno da genesi antefatti personali e a doppio-filo (sia la figura di Shosanna che quella del commando speciale del tenente Aldo Raine sono una risposta al dolore inflitto dai tedeschi). Vicende che si intrecceranno fino a sancire l'epilogo sanguinoso e tanto auspicato, riscrivendo in modo geniale e fantasioso il finale.
 
In tutto questo, c'è anche una grande dose di tecnica registica non indifferente... idee, sceneggiatura, dialoghi, ogni cosa è al più completo servizio del film. E sbaglia chi pensa a Tarantino come uno che porta solo sul set storie divertenti e leggere, egli è prima di tutto un enorme conoscitore della materia, e la esplora come solo un appassionato, un vero amante farebbe, prima ancora che come "uno del settore".
Solidarizza con lo spettatore non perché è paraculo ma perché si considera uno spettatore a sua volta, cosicché non si ha mai l'occasione di rimproverargli quel distacco glaciale che sembrerebbe i grandi registi debbano avere per forza.
 
Ecco come si spiega che, anche quando cerca di fare cose meno facete del solito ma in forma ugualmente ironica e amena, riesca comunque a far sorridere anche quando lo spettatore non ne avrebbe molta voglia, cosa che spinge i suoi detrattori (per lo più gente priva di senso dell'umorismo) ad accusarlo di insulsaggine.



8 - The Hurt Locker (settembre 2010)



Iraq, un artificiere di nome William James si catapulta sul fronte, per dare il suo contributo. La paura pare non riguardarlo; ma ancor più nel profondo, sembra sia indifferente a quello che gli capita attorno, perché da classico tipo ossessivo non riesce a vedere altro che ciò che lo tormenta, lo attira e lo spinge a fare quello che fa. Si trova davanti mine antiuomo, ordigni da disinnescare, cariche di C4: è la sua specialità, il suo dono e il suo cruccio. Non può farne a meno e per lui è quasi una droga. La moglie lo attende fedelmente a casa, senza chiedere di più di questo. Ma William James è anche un uomo che ha bisogno di conservare i propri ricordi (la scatola contenente svariate cianfrusaglie, le foto della famiglia) il più lontano possibile, in modo che non debbano avere a che fare con la desolazione del deserto asiatico.
 

Emblematico è il rapporto coi bambini che incontra sul luogo, che lo coinvolge umanamente come niente altro, quasi la loro vita dipendesse completamente da quello che fa ogni giorno.
The Hurt Locker è un film vero, nel senso letterale, perché trae spunto dai dettagli giornalistici di un reporter che ha vissuto l'esperienza iraquena in prima persona e perché racconta una storia (o meglio, una serie di vicende) attraverso gli occhi dei protagonisti senza dare rilievi troppo marcati e senza strafare.
 

Il piglio è severamente documentaristico, le varie scene sono montate in modo volutamente lento e potente, incentrate su un climax di suspence che ricalca la realistica tensione delle missioni.
Gli stacchi sono lenti, quasi a invitare lo spettatore a perdersi nel brado ed arido paesaggio desertico. I rimandi visivi sono tanti, e alcune scene (su tutte quella del cecchino nascosto nella cascina) ricordano incredibilmente capolavori autentici del genere quali Full Metal Jacket , anche se senza sensazionalismi: tutto esclusivamente a favore della cronaca.
 

Clamorosamente vincitore del più grande riconoscimento dell'Academy (nel quale superò lo strafavorito Avatar), è un film rivelazione, forse la maggiore dell'anno, non tanto per le cose che dice, quanto per il modo in cui le dice. E' un film che non entusiasma per il ritmo, ma fa riflettere e molto. Di questi tempi, è cosa rara.



9 - Avatar (settembre 2010)



Era il film più atteso dell'anno, quattro anni fra produzione e post-produzione, mischiando incredibili quantità (e qualità) di mezzi tecnologici a disposizione oggi grazie alla computer grafica e tutto il resto. Ingentissimi capitali sono stati elargiti all'espertissimo Cameron (Titanic, Abyss) per assemblare un moderno Kolossal, a tutti gli effetti: con tanto di storia d'amore (classicamente sbandierata in film di tale portata) sottesa.
Ad una prima visione, si capisce perché si siano spese così tante parole su questo film. Sarà stato anche difficile e penosamente lungo da pensare, da mettere in scena e da girare, ma una sola occhiata alle foreste di Pandora, alla visione sopraelevata fantasticamente costruita nella grafica in soggettiva durante i voli dei Na'Vi a bordo dei rispettivi Ikran (le creature alate da domare per divenire cacciatori esperti) o ancora - e forse soprattutto - all'aspetto così ben dettagliato ed esteticamente appagante dei protagonisti della storia (la popolazione Na'Vi), una sola occhiata a tutto questo e tutto ciò che si era visto al cinema precedentemente scompare, lasciando spazio ad un universo nuovo, da esplorare quasi in simbiosi con Jake Sully, l'Avatar esploratore incaricato di studiare usi e costumi della popolazione autoctona in modo da impossessarsi delle fonti energetiche diventate imprescindibili per il pianeta Terra.
 

Così si cerca un nuovo pianeta da cui attingere risorse senza rispettarne gli equilibri, alla maniera tutta tipica dell'uomo, ma Jake riesce a distanziarsi dal genere a cui appartiene e ad avvicinarsi a quello Na'Vi quel tanto che basta da comprendere la follia di questo piano e si ribellerà.
Avatar è diventato il film che ha incassato di più nella storia del cinema (anche se per essere oggettivi bisognerebbe considerare forse come parametro il numero dei biglietti venduti al botteghino), cementandosi come capostipite di un cinema attuale in profonda discesa e soggetto a notevoli cambiamenti in questi ultimi anni, in particolare a livello visivo e grafico.
 

E' impossibile parlare di questo film prescindendo da ciò che lo caratterizza maggiormente, sarebbe a dire in poche parole: 'Quello che si vede e che si arriva a percepire'.
Tecnicamente è un capolavoro, nulla da eccepire. Non a caso, gli esperti in materia gli hanno riconosciuto quello che era dovuto: fotografia, scenografia, effetti speciali. Ma fare un film non significa solamente "realizzarlo" in modo che stupisca, deve anche essere in grado di coinvolgerti, e quando finisce per coinvolgere un numero di persone simile a livello planetario può essere indice di una sola cosa, che ha però due visioni completamente opposte.
Può essere che si tratti di coraggio o audacia nel fare parallelismi con la politica guerrafondaia in Iraq o nel mettere tutto il proprio orgoglio narrativo nelle mani di un meraviglioso luogo incontaminato dalla barbara civiltà umana (Pandora) criticando implicitamente l'uso che l'uomo fa del proprio habitat anche nella realtà.
Oppure sono entrambe questioni spinose tutte talmente vere, tutte così sentite dalla gente da rendere superfluo rimarcarle con questo vigore fino a sfociare nel "paraculo" (o certamente nel "calcolatore e populista").
Due facce della stessa medaglia che è da sola il supporto fondamentale di questo film: è la sua ideologia, la sua filosofia di base quella su cui si costruisce il suo interesse, ed è grazie soprattutto alla semplicità e all'immediatezza della storia (e delle sottotrame fondamentali come la storia d'amore fra Jake e Neytiri) che si riscontra il successo che ha avuto, fondamentale per avere ritorni finanziari all'altezza degli investimenti cospicui.
 

Tutto sommato il giudizio è strapositivo, perché al di là di quello che il film può voler comunicare o lo spettatore decidere di credere (l'ambivalenza di cui sopra) questo è uno di quei film che finalmente dopo tanti anni emerge da un deserto piuttosto desolante e che si candida seriamente ad essere il film che rappresenterà il passato decennio.
Non si può restare insensibili a tutto ciò, ma indipendentemente da questo è esaltante la prospettiva di un viaggio a Pandora: spalanca le percezioni della mente e apre molte porte di cui la fantasia prima non era consapevole. E forse è questa la vera missione del cinema moderno. Un elogio sperticato a chi ci ha creduto e a chi decide di credere.


10 - Up (settembre 2010)



Si chiama "Up" il nuovo gioiellino di casa Pixar. Fare da seguito, più che degnamente, ai grandi successi precedenti (su tutti Ratatouille e Wall-E, acclamati da critica e pubblico) non era impresa facile, così come non è semplice ogni volta riuscire ad esigere l'attenzione del grande pubblico, ma Up va oltre queste premesse: spodesta letteralmente i grandi capolavori d'animazione di sempre, facendosi largo anche in quella speciale èlite che è l'Academy.
 

Per la seconda volta nella storia della cerimonia, un lungometraggio animato (anche se ormai si tratta più di computer che non di disegni veri e propri) entra nella categoria dei candidati al premio più ambito come "miglior film", dopo La bella e la bestia (1992).
Già, dati questi piccoli dettagli e la magniloquenza della sua presentazione si può intuire quanti strascichi abbia lasciato dietro di sé, e i motivi sono lampanti. E' sicuramente uno dei più ispirati della casa cinematografica californiana, riuscendo ad unire una trama convincente ed appassionante, il ritmo incalzante tipico delle avventure disneyane e ad un tempo anche un significato più profondo alla pellicola. Unisce bambini (divertimento) e adulti (riflessione, ma anche spensieratezza) ed immortala il proprio fascino in alcune scene piuttosto significative, non solo nell'ambito del genere, ma del cinema tutto.
Per citarne una, non si può fare a meno di ricordare i dieci minuti circa in cui viene ripercorsa la vita intera del protagonista (Carl) e della moglie (Ellie): si conoscono da bambini, avendo in comune lo stesso sogno, quello di esplorare in lungo e in largo come il loro eroe, Charles Muntz.
 

Da quel momento in poi, e attraverso tutte le fasi della vita (da infanzia ad adolescenza, da età adulta fino a quella senile), l'unico desiderio intramontabile è quello dell'avventura, non concepita nel mondo terreno.
L'occasione si presenterà soltanto quando Ellie morirà, lasciandolo solo. Invece di soffocare nel grigiore dell'ambiente circostante (dove un tempo c'erano alberi e piante ora ci sono ditte di costruzioni edilizie) decide così di partire per altrove, lasciandosi dietro anche le delusioni.
Ma sarà solamente grazie alla compagnia (inattesa) del Giovane Esploratore Russell che riuscirà finalmente a recuperare la sua infanzia perduta e a riaccendere dentro di sé il vero culto dell'avventura e del viaggio: su, sempre più su, grazie alla sua fervida immaginazione e ad un manipolo di palloncini che lo trasportano attraverso i cieli fino alle Cascate Paradiso, passando attraverso una serie di imprevisti, ostacoli e deviazioni fuori programma, Carl riuscirà finalmente a ricongiungersi spiritualmente con Ellie e a dare di nuovo un senso alla sua vita.
 

Pieno zeppo di citazioni ovunque (in sintonia con le linee guida della casa madre) e ritratto di un tipo di film piuttosto variegato e rapsodico, Up diventa l'icona animata di qualcosa di diverso dal solito, che esce dagli schemi e traccia contenuti più importanti per il genere di cui fa parte.
Per larghi tratti, questo film è dedicato più agli adulti che non ai bambini, e forse per qualcuno è un difetto, ma in generale non si può che esaltare l'opera di chi, pur non abbandonando i soliti stilemi e cliché legati al target principale, riesce ad effondere un sincero affetto anche a certe tematiche spesso indigeste, se non le si sa affrontare come si deve.



11 - A serious man (settembre 2010)



Larry Gopnik è professore di fisica: "scaricato" dalla moglie (che vorrebbe divorziare e contrarre nuovo matrimonio), derubato dalla figlia cleptomane ed egocentrica, impensierito dai problemi del fratello indomito e indebitato giocatore d'azzardo con tendenza alla dipendenza, vessato dal vicino che nel tagliare il proprio lato di erba invade la sua proprietà, attratto da una misteriosa vicina, corrotto (ma senza usare questo esplicito senso, è ovvio) da uno studente - e poi dal padre, con mezzi molto più persuasivi - del suo corso che vuole riscattarsi da un voto insufficiente, preoccupato da alcune analisi che fa in cura da un medico e non proprio inorgoglito dal figlio che fuma ganja e si isola dalle lezioni ascoltando in cuffia i Jefferson Airplane.
 

Per meglio comprendere ciò che gli accade chiede il consiglio di tre distinti rabbini. Il tutto fa da seguito ad un prologo che ritrae una parabola ebraica, quella di un dybbuk (uno spirito maligno in grado di possedere gli esseri viventi, secondo la suddetta tradizione, nonché secondo wikipedia); parabola che poi definisce il senso del film, o presunto tale. Non è molto ben chiaro il significato allegorico, all'interno del dedalo di vicende e situazioni paradossali costruito dai pur sempre geniali fratelli Coen.
 

Il protagonista però è, come da consuetudine, spaesato, allo sbando dopo tutti gli accadimenti disastrosi e sorprendenti che si susseguono e alla mercé degli eventi, che sfuggono totalmente al suo controllo: in parte perché la vita ci viene descritta come una faccenda troppo grande di fronte ad una vita così miserabile e trascurabile e in parte perché l'uomo a cui questa vita appartiene non è affatto interessato a farci granché.
Anzi, si muove piuttosto a suo agio in questo grande circo di mediocrità che è la sua vita, totalmente indifferente anche solo ai semplici concetti di "meglio" o di "peggio". Egli vive e tanto gli basta, rispondendo al più classico fra i cliché a cui ci hanno abituato i due cineasti.
 

La tensione emotiva si propaga lungo tutto il film (accentuando qualche momento di noia di troppo, onestamente) fino a spandere tutta la sua immane forza nel finale, fra un'informazione potenzialmente letale da conoscere e un uragano che si fa avvistare minacciosamente all'orizzonte, metaforicamente collegato alla fine di tutto. Di sicuro a quella del film.
 

Un film imbastito secondo i canoni soliti dei Coen: l'ironia sprezzante, la satira, i risvolti umani che si collegano a versi di testi religiosi piuttosto che a saggi letterari o a versi poetici, il folle (follia fortissimamente razionale) citazionismo che si tinge di un significato più ampio e forse inarrivabile, esemplare nel rabbino che decanta i versi iniziali di "Somebody to love" dei Jefferson Airplane, a colloquio con Danny, il figlio di Gopnik, a seguito della sua iniziazione ebraica (il Bar Mitzvah).
Nonostante sia da premiare l'ennesimo tentativo di raccontarci qualcosa di nuovo in un modo mai banale, questo film non convince del tutto però. A partire dall'uso della forma (dall'yiddish usato nel prologo, fino alle usanze e quindi ai significati ebraici tutti piuttosto criptici per un estraneo), fino allo sviluppo della storia: si ha come la sensazione di essere all'interno di un mondo straniante, che non concede nulla alla logica (che in un film può essere un'arma a doppio taglio, e qui non è certo positivo...), e con ampie parentesi lungo la storia che intorpidiscono piuttosto che invogliare a capirci qualcosa.
 

Al cospetto di "l'uomo che non c'era" o "Fargo", è a livelli bassissimi. Ma preso così, individualmente, rimane comunque un film da vedere, cercare di interpretare e da cui magari ricavare qualche sorta di morale o convincimento filosofico. Io non ci sono riuscito, ma magari ad altri andrà meglio.
Due candidature (sceneggiatura originale e film), giustamente rimaste tali. Nel confronto a distanza, "The Hurt Locker" meritava di più.



12 - Tra le nuvole (settembre 2010)



Ryan Bingham è un "tagliatore di teste" aziendale, uno spietato e capacissimo esemplare di una categoria intera, che si gloria nel subentrare ai grandi dirigenti ("senza palle") delle compagnie di tutta l'America nel processo di comunicazione del licenziamento ("congedamento") a lavoratori probi e fedeli, che per lunghi anni si sono seduti sulle loro poltrone lavorative.
Lui li smussa, li lavora ai fianchi in silenzio, gli offre prospettive speranzose proprio nel momento esatto in cui l'intero mondo crolla loro addosso: è un genio, venerato anche dal proprio capo, che infatti lo manda nelle missioni più difficili.
 

E' in volo per più di 320 giorni l'anno, ore e ore al giorno, da anni. Ha un obiettivo in mente e conta di raggiungerlo, ma si schernisce nel parlarne; è misurabile in miglia aeree percorse: 10 milioni. E' tutto ciò che gli interessa, della vita. La spensieratezza, il privarsi di qualsivoglia impegno, il quieto vivere modellato sul vivere "alla giornata", sul carpe diem.
Vola per intere giornate tra le nuvole (o meglio "lassù, nell'aria"), sorvolando ogni genere di problema e ogni rapporto personale, indifferente rispetto alle questioni della gente comune, anticonformista nella mente ("è la mia filosofia") e quindi negli atteggiamenti.
 

Ogni relazione, ogni pressione, ogni incitamento ad emulare gli altri è un peso enorme, di cui svuotare lo zaino, sia letterale che metaforico (la scena delle conferenze motivazionali nelle quali insegna alla gente come vivere senza stressarsi).
Vuole uno zaino vuoto, ma il motivo non è così superficiale come può apparire inizialmente, e si scoprirà lungo l'andare del film, e con una frase su tutte: "probabilmente con lo zaino vuoto, avrei capito meglio cosa metterci dentro".
Fondamentalmente una richiesta di tempo per capire meglio cosa è importante, non una posizione snobista.
Due persone provano a capirlo (e a farcelo capire): la ragazza arrivista collega di Bingham, già con tutti i numeri per sfondare ma con la pretesa di conoscere già abbastanza ciò che in realtà rivela tutta la sua inesperienza (con radici più profonde) a cui farà da tutor e da guida e Alex (Vera Farmiga), anche lei sempre in volo, con cui inizierà una sorta di intesa-fraintesa. Il tutto con in sottofondo l'attesa per il matrimonio della sorella, che scatena il massimo contrasto fra stabilità- tradizione e dinamismo-cambiamento.
 

Questo film di Reitman è, ancora una volta se mi è permesso dirlo, a dir poco geniale. Dopo "Thank you for smoking", assistiamo nuovamente ad una commedia satirica (dopo il breve intermezzo del mitico "Juno") a tinte fortemente politiche. Le analogie sono evidenti.
Il protagonista precedente era il capo responsabile di una lobby potentissima (quella del tabacco), qui invece cura gli interessi dei ricchi aziendalisti e dei massimi dirigenti di tutto il paese.
 

Anche qui è un tipo straordinariamente capace, tanto fenomenale dal punto di vista diplomatico quanto asciutto e cinico nei modi; le caratteristiche-base coincidono: entrambi tipi megalomaniaci, narcisisti, cultori di un'arte a sé (quasi per privilegiati) necessaria per continuare a coltivare il proprio stile di vita e, allo stesso modo, legati al loro lavoro in maniera indissolubile a tutto svantaggio della vita privata.
Sono tutti temi rivisitati, ma che non cessano di stupire positivamente. Soprattutto perché Reitman figlio (che qui è produttore assieme al leggendario padre Ivan -di cui ricordiamo "Ghostbusters"- ) li mescola ogni volta in maniera diversa, a seconda degli spunti suggeriti dal soggetto e che ogni volta riescono a dipingere e caratterizzare i personaggi principali in modo sublime, accendendo l'interesse del pubblico.
 

Al tutto fa poi da contorno una sceneggiatura semplice ma azzeccata, con alcune scene di impatto clamoroso (una su tutte: quella dei licenziamenti e dello studio della tecnica per attuarli, da leccarsi i baffi per la spietatezza e la carica satirica).
I dialoghi, soprattutto all'interno di esse, sono poi gustosi e scorrevoli, mai di intralcio e anzi sempre al servizio di una commedia davvero divertente, ben girata e al tempo stesso anche "socialmente utile", per le tematiche che affronta sicuramente senza esagerare, sensazionalizzare o umiliare banalmente l'idea che regge tutto il film (e non è un'impresa facilissima).
Musiche come sempre fenomenali, soprattutto verso l'epilogo (Elliott Smith, Graham Nash) e una piccola curiosità: il titolo prende spunto dall'omonimo titolo di una canzone (inserita nei titoli di coda) scritta e musicata da Kevin Renick, che l'ha incisa e passata via Internet a Reitman, dopo il suo licenziamento.
 

Su, tra le nuvole c'è ancora silenzio ma questo film ha fatto molto parlare (6 candidature, 0 oscar: ottimo segno). E Jason Reitman è uno dei registi più promettenti dell'intero panorama americano (consiglio ogni suo singolo film), personalmente. Promosso a pieni voti, sperando che sia l'ennesimo di una lunga serie.



13 - Ore 11:14 (ottobre 2010)



Middleton, alle fatidiche ore 11:14 accade qualcosa. Diversi personaggi sono coinvolti nella trama da vicende personali e vi confluiscono finalmente, svelando il finale compiuto, che viene ricostruito pezzo per pezzo proprio come un puzzle.

Jack è in auto, ubriaco, e aspetta una telefonata. Mark e i suoi amici sono su un furgoncino e mentre si comportano da idioti collegiali (secondo cliché) accade qualcosa che glielo farà rimpiangere. Duffy cerca di trovare soldi e rapina il negozio in cui lavora aiutato dalla collega-amica Buzzy.
Frank esce di casa e trova qualcosa che non gli piace, e cerca di sistemarlo.
Cheri è al centro di tutte queste dinamiche, avviluppata nel dedalo che se ne scatena.

Mi è capitato questo film sotto agli occhi quasi per caso, cercando spunti interessanti su internet. Non pensavo di passare 90 minuti così divertenti.

Il film ricorda un po', per ammissione generale, lo stile Tarantiniano del collage-frazionamento tipico della trama (vedi Pulp Fiction), ma senza comunque attingere a tutti i generi di cui il Maestro è sommo conoscitore (non a caso "Pulp"). Però di certo è gradevole, e non così scontato. Anche se certi stratagemmi possono far immediatamente pensare alla banalità stereotipata e perpetrata per fare scena.

Secondo me non è così. Aspetto smentite.

Per ora ribadisco: bel film d'intrattenimento, magari ce ne fossero di più.



14 - Alla scoperta di Charlie (ottobre 2010)



Si comincia con Charlie che esce dall'ospedale psichiatrico. Miranda è la figlia da lui lasciata definitivamente orfana, che si incaricherà di pensare a lui, sovvertendo l'ordine convenzionale.

Si intuisce fin da subito che questo è il leitmotiv scoppiettante che regge il film. Il padre vive in un mondo totalmente estraneo alla realtà, si libra al di sopra delle responsabilità inscenando l'equivoco ricorrente fra pazzia e immaturità. La figlia è invece stata costretta a crescere prima del tempo, a lasciare la scuola, a trovarsi un lavoro, a guadagnarsi il diritto di vivere nella propria casa e per finire a mantenere il padre, che non si rende conto (o forse non gli interessa?) di quello che lei fa per lui. Compreso riservargli il violoncello a cui era un tempo tanto affezionato, anche se ormai non lo suona più (da ex musicista jazz).

Il peggio arriva dopo, quando Charlie comincerà a farneticare di un fantomatico tesoro lasciato in eredità dai missionari spagnoli. Attraverso questa caccia al tesoro bambinesca, i due si riavvicineranno, per quanto il film sia troppo occupato a cercare di non metterlo mai in evidenza.

Altro film piacevole, devo ammetterlo. Due grandi attori (M. Douglas inedito e R.E. Wood) per un buon film diretto da Mike Cahill (neofita) e basato su una trama leggera e che scorre bene, anche agevolata dal soggetto complessivo.

Belle le immagini richiamate, le sensazioni evocate da una caccia al tesoro che forse è una metafora per indicare la caccia a qualcosa che riteniamo invisibile o inesistente finché non ci capita di trovarlo, e forse un invito a provare.

La citazione: "Volete sapere perché la California si chiama così? Non deriva da qualche esploratore o chissà quale Re: niente affatto. E' stata una persona a coniare questo nome. Uno scrittore. E' nato dalla sua fantasia. Nella Spagna del XVI secolo. Si era inventato questo posto immaginario dove c'erano oro e perle a volontà e dove donne bellissime cavalcavano animali selvaggi, indossando armature preziose. Lo chiamò "California".

Musiche deliziose, ad opera di David Robbins.



15 - Moon (ottobre 2010)



In un ipotetico futuro, il problema energetico è stato definitivamente risolto attingendo alle risorse situate sulla Luna, con una base insediata sulla sua superficie per coordinare i lavori, agli ordini della compagnia Lunar. L'unica componente umana è data da Sam Bell, il quale è supportato da una "macchina pensante", sulla falsariga di H.A.L. 9000.

Intanto gli episodi strani o inspiegabili si succedono, ingenerando confusione nello spettatore. Sappiamo che Sam è quasi al termine del suo contratto, e verrà presto rimpiazzato da un nuovo addetto, quando succede qualcosa che dall'alto non avevano previsto (con la collaborazione ingenua della macchina, GERTY), il che permette di introdurre il tema della clonazione e di scervellarsi nell'intento di capire cosa sta accadendo realmente.

Questo film fantascientifico D.O.C. è un po' una summa della sci-fi cinematografica autentica; numerose le citazioni (prese con un po' di mano larga, magari...), e soprattutto chiara quella preponderante di GERTY, che rifà il verso a 2001: Odissea nello spazio, un po' il riferimento cinefilo.

In un set ridotto al minimo, così come il budget, si ricrea alla perfezione un ambiente claustrofobico, asettico, dove i toni chiari risaltano, accentuandone la freddezza.

I dialoghi sono rari (per ovvi motivi) ma incisivi. Ottima la sceneggiatura, anche qui tutta tipicamente volta a svelare uno per uno i veli che celano l'evidenza delle cose.
Ottimi effetti di scena, per impatto visivo... a dimostrazione che se si è bravi si può fare di necessità virtù.

Ho rivisto anche un po' di Asimov nell'impianto narrativo della storia e anche per questo l'ho gradito notevolmente.

Finale forse un po' debole e scontato.
Consigliato a tutti i nostalgici di fantascienza, o a chi cerca una valida alternativa a film recenti particolarmente riusciti nel genere (a rischio estinzione), quali: Sunshine, District 9 o Gattaca.

16 - Wristcutters - A Love Story (novembre 2010)



Esiste un aldilà, ed esiste anche per i suicidi: uno tutto loro, dove le strade sono desolate, la ripetitività non lascia altro che una noia debilitante in persone ancor più infelici di quando erano in vita.
E' fatto divieto di sorridere, i colori si intravedono appena; il nulla e l'apatia interiori rispecchiano quello che si vede esteriormente, con le ore che si succedono senza senso e soluzione di continuità e la luce del dì lascia spazio alla notte povera, privata persino delle stelle.
Le vicende che coinvolgono i tre protagonisti principali (Zia, Erik e Mikal), conosciutisi via via lungo il cammino quasi per caso, daranno così vita ad un autentico Road Movie.
Concepito in un'atmosfera straniante e surreale, in cui fra incontri inattesi, luoghi dimenticati (o mai scoperti), vane (o ardue) speranze di ritrovare qualcuno o qualcosa e la necessità di districare questa matassa in favore di un minimo barlume di felicità, il film spiegherà se stesso nell'arco di un attimo lungo quanto un sogno... o un coma.
Film indipendente, regia firmata da Goran Dukic. Attori di nicchia, ma tutti valevoli, in particolare Patrick Fugit (Almost Famous, Spun, Saved!).
Musiche a tono con i ritmi del film, mai realmente in grado di infondere gioia o particolari emozioni o aggiungere alcunché al serafico "spleen" dei protagonisti.
Tom Waits compare nell'ennesimo cammeo in cui incarna uno spirito, un'idea, piuttosto che un'entità misteriosa, e contribuisce a permeare le immagini di un surrealismo grottesco e maniacale, senza tuttavia mai incidere più di tanto nei dialoghi, così come tutto il film che si affida più al simbolismo (buchi neri, ferite, cartelli, stranezze spacciate per miracoli) che non all'eloquenza di ciò che si narra.
Solo il finale svelerà del tutto le carte, non mancando di griffare con una piccola morale questa fiaba atipica.


17 - (500) giorni insieme - (500) days of Summer (novembre 2010)



L'idea era quella, non troppo originale, di ideare una commedia romantica avente a soggetto due protagonisti (Tom e Sole - Summer nella versione originale, da cui appunto il titolo in cui si innesca il doppio-senso) di una lunga e travagliata storia. I giorni sono appunto 500, e ci vengono proposti con continui flashback e repentini balzi in avanti rispetto a una storyline abbastanza caotica ma funzionale. Funzionale, perché lo scopo del film è quello di mostrarci le differenze nette fra l'inizio e la fine, i due poli da cui si ricostruisce pian piano tutto ciò che sta in mezzo, anche riguardo al vero significato delle cose.

Il tutto è inframezzato da stacchi musicali onnipresenti in stile videoclip cui obbedisce la cadenza delle scene, sottolineate da dialoghi concisi e spiazzanti e gag a go-go, di cui alcune esilaranti (vale la pena di ricordare quella in stile musical con tanto di ammiccamento a Harrison -Han Solo- Ford...).
Le metafore si sprecano, su una di esse è costruita l'intelaiatura della narrazione, tutta rigorosamente dal punto di vista di lui (Tom): è laureato in architettura ma fa un lavoro abbastanza avaro di soddisfazioni e di creatività, nel quale deve confezionare messaggi su biglietti d'auguri a tema; cosa che si ribalta proprio quando si rende conto dell'ipocrisia che implica la parola "felicità" (e anche di coloro che ritengono di saperla insegnare) e decide di lasciar perdere quella degli altri (con puerili biglietti che lui stesso non comprerebbe).

Su questo ed altri concetti lavora il regista (Marc Webb), sempre in linea con una certa anarchia stilistica: la commedia moderna viene ricucita con pezzi di nouvelle vague, di musical, di cinema d'essai, di videoclip musicali, sguazzando nelle citazioni e negli omaggi (Bergman e Nichols) e formando un pasticcio comunque tutto sommato digeribile.

Godibile nel complesso, trama semplice e attori che stanno al loro posto. Il regista infarcisce ogni singolo momento con musiche azzeccate per il genere; dialoghi a volte stucchevoli e banali come anche certe situations viste e straviste.

Classico film da intrattenimento che però non si allontana troppo da quell'Alta Fedeltà di Stephen Frears (parlo della trasposizione filmica, il romanzo resta di un altro livello) e questo alone di malinconia mi ha fatto divertire. Peccato però che quando cerchi di fare umorismo sulle situazioni che più ne avrebbero bisogno (cioè, da sempre, quelle drammatiche) cada in cliché scontati. Una sufficienza più che piena per un film costruito su una colonna sonora che sta alle sue immagini quanto il cinema muto stava a Charlie Chaplin.


18 - Domino (novembre 2010)



L'adrenalinica e drammatica vita di Domino Harvey, che divenne famosa come "cacciatrice di taglie" in Gran Bretagna. Nata da un padre attore famoso morto precocemente e una madre che trovatasi vedova la spedisce in un collegio con nient'altro che una valigia e il pesciolino rosso su cui aveva riposto tutto il suo affetto, lotta per far emergere la sua vera identità in una famiglia dell'alta borghesia americana.
Ritrovatasi con doti estetico-intellettive notevoli e nonostante l'ambiente facoltoso nel quale cresce, Domino (Keira Knightley) decide di darsi alla caccia dei criminali, entrando a far parte di un team composto anche da Ed (Mickey Rourke) e Choco (Edgar Ramirez).

Diretto da Tony Scott e co-prodotto assieme al fratello Ridley, il film si attesta su un mix di biografia e azione, da una parte raccontando la donna, la persona prima ancora della "professionista" e dall'altra affastellando le scene come in un mosaico, di cui la sequenza iniziale è solo il tassello cronologicamente conclusivo.
Come in un giallo, si ripercorre quindi tutta la narrazione a ritroso, arricchendola via via di digressioni, finché non sarà chiaro lo svolgimento di tutta la vicenda, che è anche l'oggetto di un interrogatorio che Domino - arrestata - subisce per conto di un'agente (Luci Liu) e che ha il compito di "riassumere" di volta in volta, in modo da rendere più nitida l'immagine che viene osservata attraverso la lente dello spettatore.

La storia è buona, anzi ottima, imbottita com'è di dettagli e svolte narrative improvvise e impreviste, riuscendo sicuramente nell'intento di coinvolgere chi segue, anche supportata da una sceneggiatura abbastanza "fashion": lo stile ricorda anche qui molto quello di Q. Tarantino (che non a caso l'ha nominato suo film preferito del 2005), ma con un ampio spettro di soluzioni sonore invasive e significative. Il sonoro, gli spezzoni musicali, la scelta delle loro combinazioni sono tra le cose più positive e azzeccate di tutto quanto il film, ed emergono proprio quando il racconto è "costretto" a ristagnare dagli eventi (che sia una sparatoria o una fuga).
Davvero, davvero notevole in questo senso la scena clou, con tanto di sparatorie, vetri infranti, sangue che schizza ovunque, rombi degli elicotteri che circondano l'edificio e tanto altro, mentre in sottofondo quasi stenta a sovrapporsi "Mama told me not to come" dei Three Dog Night nonostante l'intensità del pezzo. Davvero una goduria frenetica e caotica che non toglie nulla comunque alla serietà dello spartito.

Prova ampiamente superata, anche grazie a un cast di tutto rispetto (spicca fra gli altri anche un cammeo del 'guru' Christopher Walken) e ad una capacità registica non indifferente, capace di sublimare la drammaticità degli eventi con una dose massiccia di suspence che davvero non ne fa rimpiangere la visione.


19 - Charlie Bartlett (dicembre 2010)



Charlie Bartlett viene espulso da una scuola privata, gettandosi addosso una macchia non cancellabile nemmeno con il denaro (molto) della sua famiglia. Così è costretto ad iscriversi ad una pubblica.

E' un tipo sveglio, ha grandi potenzialità, una madre depressa che, stravolgendo il cliché, non lo opprime ma anzi lo tratta esattamente (ed esageratamente) come un adulto e un padre che non vede da molto tempo. Ha anche un insano e compulsivo bisogno di compiacere gli altri, bisogno che più che dovuto ad un "perché?" (non) risponde ad un "perché no?"
Si caccia spesso nei guai, non perché ami il rischio né per mancanza di intelligenza e tantomeno perché non gli piaccia la scuola. E' trascinato ogni volta verso il baratro dagli eventi che lui stesso mette in moto, ma con fini assolutamente onesti. Come quando si sottopone a sedute psichiatriche (di cui può sempre disporre grazie alle facoltà della famiglia) per "estorcere" consigli da rigirare ai compagni di scuola, rimasti inascoltati dai "grandi", che vengono poi indirizzati verso una o l'altra terapia farmacologica (Ritalin, Xanax, che riesce a procurarsi sempre per gli stessi motivi), o quando aiuta l'amico bullo-ma-in-fondo-con-un-cuore-di-panna a comprendere se stesso e a spingerlo verso la propria vocazione artistica.

In breve tempo, grazie ai suoi consigli che si rivelano (quasi) sempre congeniali, Charlie ottiene la stima e la popolarità che ha sempre desiderato, oltre all'affetto di Susan, la figlia del preside della scuola che frequenta.
Ma è proprio quando si troverà a capo di un'orda di ragazzi furiosi per la politica scolastica che capirà che in realtà a nessuno serve davvero qualcuno che dica loro cosa fare, perché in fondo tutti loro condividono gli stessi problemi, le stesse ansie e paure, tutti i giorni.
L'unica guida necessaria è la coscienza di se stessi, e l'uso del cervello. Capisce anche che nonostante sia cresciuto in fretta, la vita può e deve essere davvero ancora una questione di innocenza, di leggerezza e di alleggerimento del carico da portare lungo il percorso, magari condividendone il peso con tutti gli amici che riuscirà a trovare lungo la strada.

Buon film indipendente, con una rispettabilissima prova recitativa di Anton Yelchin, e con un cast che conta fra l'altro Robert Downey Jr. (il preside).
Impiega novanta minuti piacevoli raccontando una storia abbastanza semplice, dalla sceneggiatura ordinata e ben inquadrata nel genere, e al contempo affrontando tematiche difficili (la solitudine, l'emarginazione, la ricerca dell'approvazione altrui, il crescere senza una figura di riferimento) senza lanciarsi in voli pindarici nel tentativo di sostenere con fermezza una posizione in sé piuttosto banale, come l'essere "sempre se stessi", e senza volerne trarre una lezione generale; è soltanto una storia di un ragazzo atipico, eccentrico e anonimo allo stesso tempo, che ci mostra attraverso i suoi occhi (che sono anche i nostri) i pregi e i difetti del sentirsi diversi, e soprattutto quanto sia bello ammetterlo.

Musiche indie ad ampio spettro, con prevalenza di motivi originali sospesi a mezz'aria che fluttuano lungo il film con toni bassi onnipresenti e sfalsati.
Da segnalare anche due pezzi degli Eels.