mercoledì 16 novembre 2011

Recensioni Gennaio/Giugno 2011

20 - Slevin (gennaio 2011)




Slevin Kelevra (Josh Hartnett) capita nell'appartamento dell'amico Nick Fisher, assiduo scommettitore. Da qui l'azione: prima incontra Lindsey (la vicina - Lucy Liu) e poi viene "prelevato" con la forza prima dagli scagnozzi de "Il Boss" (Morgan Freeman) e quindi da quelli de "Il Rabbino" (Sir Ben Kingsley), i quali non gli credono quando dice di non essere Nick Fisher, lo scommettitore con il quale vantano entrambi un credito notevole. Così Slevin viene tratto nel bel mezzo di una faida tra i due potenti uomini, che si odiano profondamente, nascosti ognuno nel proprio edificio l'uno di fronte all'altro, divisi dalla fama, dai soldi e dal potere, gli stessi che un tempo li avevano uniti.
Slevin dovrà fare i conti con le richieste dell'uno e dell'altro, temporeggiare e pensare attentamente agli ultimatum che gli si presentano, resistere ai "rapimenti" del detective Brikowski (S. Tucci) in cerca di risposte annidate fra trame intricate e allo stesso tempo vivere la propria vita proprio come se niente fosse, come se l'incredibile serie di vicende che lo coinvolgono costituisse un banale intermezzo fra una doccia e un appuntamento a cena.
In questa chiave sono usate le scene fra Slevin e Lindsey, che servono sia a inframezzare e a stemperare, sia a raccordare gli eventi, in modo che appaiano più chiari e definiti.
Nel frattempo Mr. Goodcat (B. Willis) si muove nell'ombra, rivelando il proprio personaggio (apparentemente secondario) via via lungo il film.
Alla vicenda principale fa da incipit l'antefatto (una storia di scommesse finita male), situato in un tempo più lontano di circa vent'anni, che sembra slegato dal resto della storia, ma che diventerà in realtà l'episodio scatenante di una vendetta narrata e consumata.

Un buon copione e un ottimo cast da cui esce fuori un film interessante e misterioso diretto da Paul McGuinness, improntato sugli stilemi dell'action-thriller, ma anche ispirato alla narrativa di spionaggio; non mancano in tal senso le citazioni illustri, su tutte quelle dell'"agente 007" romanzato e cinematografico, da cui si prendono "a prestito" alcuni trucchetti dietro cui si cela tutto il film, come l'identità segreta, lo scambio di nomi, l'equivoco e il doppio-gioco. Ad arricchire il miscuglio ci si mette però anche lo screen-writer, capace di ideare (o riutilizzare?) la cosiddetta "Mossa Kansas City", quella per cui: "Mentre tutti guardano a destra, tu vai a sinistra".
Si gioca molto sulla sorpresa e sull'effetto spiazzamento, narrativo e figurato, inscenato ed atteso allo stesso tempo, tanto da non permettere allo spettatore di rendersi conto (così come alcuni dei protagonisti) di come sia stato effettivamente preso in contropiede.

Lineare nella sua stesura, quanto ingarbugliato nella sua costruzione, "Slevin - Patto Criminale" si segnala per essere un film per cultori del genere (The Snatch) e per edonisti assetati dallo stucchevole tema della vendetta (i riferimenti a Tarantino - e alla branca di cinema a cui egli stesso si ispira - non sono assolutamente casuali), senza trascurare però una certa attenzione ai dettagli; per quanto siano prevedibili certi colpi di scena e i ritmi non siano proprio perfetti (la frenesia dei "face-to-face" e del sangue che si alterna a qualche momento morto di troppo), non si può dire che non sia un film ben riuscito anche sotto l'aspetto tecnico. Semmai gli si può rimproverare di prendere troppo da troppi e di metterci poco del suo, ma questa forse è un'altra storia...



21 - Il cigno nero - Black Swan (febbraio 2011)





Nina (una meravigliosa ed emozionante Natalie Portman) viene scelta per la parte della Regina nel famigerato "Lago dei Cigni", parte impegnativa, che richiede esperienza, disciplina ma anche scioltezza e sensualità; se infatti da un lato lei è naturalmente predisposta alla parte del "Cigno Bianco" (in cui la Principessa viene trasformata da un incantesimo per rompere il quale dovrà conquistare l'amore del Principe) con la sua spontanea eleganza e leggiadria, dovrà imparare a far emergere l'altro ed inesplorato lato di se stessa per interpretare il temibile ed ostico ruolo del "Cigno Nero" (la controparte meschina che ruberà alla gemella l'amore del Principe, con l'inganno).

Nina è oppressa da una madre ballerina fallita che le trasferisce ansie e timori della pressione esercitata da un grande ruolo come quello che non ha mai avuto, rintuzzata continuamente dal coreografo di grande successo che l'ha voluta protagonista della sua opera - nonché suo punto di riferimento - Thomas Leroy (un Vincent Cassel asciutto ed essenziale) che le sta addosso perché riesca ad abbandonare la sua rigidità e a lasciarsi andare, ed oscuramente minacciata dalla figura ingombrante di una collega del balletto (una enigmatica Mila Kunis) pronta a soffiarle il posto; Nina deve cercare di lasciarsi dietro le debolezze, di non farsi sopraffare dalla grandezza stessa di ciò che rappresenterà.
Deve essere "perfetta", fino a far coesistere due duellanti personalità antitetiche (i due Cigni) nell'interezza di un'unica persona; solo sacrificando se stessa, nella sua limitatezza ed incompletezza potrà riuscire a sbarazzarsi di ciò che la àncora a terra, fino a spiccare il volo del Cigno che è diventata, figurativamente e non, e come la magnifica scena finale immortala fin troppo bene.
Impossibile separare i suoi piedi dal filo del rasoio sul quale balla, in bilico o in equilibrio, fra ossessioni e timori, fra le visioni speculari di una follia sulla quale si affaccia la sua tenacia, la sua inenarrabile ricerca di una liberazione a lungo agognata.

D. Aronofsky, al secondo lavoro consecutivo di un certo spessore (da ricordare il precedente "The Wrestler") si conferma conoscitore del mestiere proiettandosi nell'olimpo dei migliori registi contemporanei.
Mette in scena quella che è una sorta di ideale continuazione col film precedente, dove il protagonista era un uomo che trovava la propria dimensione esistenziale solo all'interno di un ring davanti al suo pubblico, mentre qui sarà la ballerina di talento Nina a combattere la sua nemesi, contro se stessa, pur di recitare la parte a cui ha sempre aspirato.
Il piano recitativo è notevole, ed intenso: spicca la prova maiuscola di un'entusiasmante Natalie Portman, che offre il suo volto ed il suo cuore ad una creatura fragile e docile e al contempo meschina, offesa eppur vendicativa, intimidita e dapprima debole ma giunonica ed orgogliosa poi.
La tensione narrativa è in pieno stile thriller (che è la vera struttura di questo dramma), pittato qua e là di sprazzi di horror, tra l'altro con alcune scene di grande impatto); le parole sono centellinate quasi come se fossero di troppo, e in effetti significativi sono i silenzi caricati dell'espressività della Portman, dei suoi movimenti, della tensione dei lineamenti sul suo volto, quella mancanza di pace che sembra mancarle costantemente, per quanto si sforzi, persino alla notizia della parte ottenuta.
Le note dell'opera di Tchaikovsky aggiungono poesia, ma anche esasperazione ad un conflitto interiore (e visionariamente ad una mutazione estetica vera e propria) che è destinato a portare Nina in alto, all'apice dello splendore della sua stella, in un climax tecnicamente perfetto e coinvolgente, appena prima dell'epilogo, cinico ed ingiusto.
"Sono stata perfetta", sono le ultime parole del cigno del film.
Vero.
E probabilmente è alto il prezzo da pagare per la perfezione.


22 - Il Grinta - True Grit (febbraio 2011)




I Coen tornano con "Il grinta", remake del film del '69, autentico western vecchio stampo, che aveva all'epoca avuto soprattutto il merito di sottolineare
la figura mitica di un John Wayne sempre e per forza sopra le righe, un eroe senza confini per un'intera nazione.
Questo film, rifatto alla maniera dei due fantastici registi hollywoodiani però, come sempre, offre una rilettura più attenta e simbolica, meno macchiettistica e più profonda, le cui sfumature si perdono all'interno di quello che è dopotutto (e innanzitutto) un gran bel viaggio, una caccia all'uomo (o "ai procioni") che trascende ogni vincolo, sia esso legale o sociale, per avvicinarsi a quello che "è giusto fare", con annessa citazione nei titoli di testa ai testi sacri: "I malvagi fuggono quando nessuno li insegue".
Ed è da questo preciso punto allora, e su questi fondamenti che inizia la caccia: laddove la speranza si placa e la tenacia viene meno, laddove il coraggio non basta o la paura basta a fermarti, il malvagio riesce a farla franca.

Il malvagio, ovverosia Tom Chaney: un assassino, che ha ucciso e derubato di un cavallo il padre di Mattie Ross, una ragazzina di 14 anni tanto scaltra a contrattare quanto intenzionata a vendicare la morte del padre, interpretata da un talento prodigioso che ti lascia senza parole come quello di Hailee Steinfeld, peraltro candidata all'oscar nella categoria "miglior attrice non protagonista" (a cui vanno i miei favori, per quanto dura si annuncia la lotta con Amy Adams ed Helena Bonham-Carter).

Mattie, afflitta dalla perdita del padre, dall'insufficienza della madre (che "non sa nemmeno fare lo spelling di CAT") e soprattutto dalla noncuranza degli uomini di legge verso Chaney, decide quindi di assoldare uno sceriffo federale, colui che secondo quanto le viene riferito, possiede quella "True Grit", la Grinta (uno straordinario Jeff Bridges, ancora una volta), per poter stare addosso ad un criminale così abile.
Il patto prevede però inderogabilmente la presenza della piccola Mattie, che vuole giustizia per sé, e vuole vedere l'uomo incriminato non per uno dei tanti reati da lui commessi (come ad esempio quello ben più grave dell'omicidio di un senatore del Texas) ma solamente per quello ai danni di suo padre.
Vuole che sia giudicato e impiccato su territorio della contea di Yell, e non dove capita. Ma la leggenda di Chaney ha attirato l'interesse di tanti.
Mattie si batte con la parola e con i fatti per avere ciò che vuole. Questa è la sua storia al fianco de Il Grinta.
A loro due si unirà un terzo uomo sulle tracce di Chaney, cioè LaBouef (Matt Damon), un texas ranger che finirà menomato ma mai domo, rivendicando il suo orgoglio yankee.

Il resto è, in una parola, western. Fra inseguimenti di tracce, richiami di sparo di pistola, impiccagioni, trappole, sparatorie e colpi di scena a non finire, per un finale davvero bello ed intenso.
Come pure l'epilogo raccontato da una Mattie di 25 anni più vecchia, ormai abbruttita dagli anni, sola e distaccata da un mondo che non è il suo, che ha come unico pensiero quello di ritrovare i compagni con cui quel giorno, tanto tempo prima, aveva condiviso quel viaggio, aveva risposto alla sua Missione; aveva fatto quello che era giusto fare.
"Il tempo ci fugge via" risuona nell'aria come un'eco in un burrone, mentre i titoli di coda si prendono gli ultimi minuti del film.

Dopo il precedente non proprio riuscito perfettamente "A serious man", i Coen si riprendono alla grande, dimostrando ulteriormente il loro usuale acume e il loro citazionismo (fra sacro e profano), e restituendo allo spettatore un sorriso amaro, figlio di uno sguardo al futuro condizionato da una visione realistica e cinica del mondo.
E' un film dove lo pseudo-eroe, il Grinta, viene giudicato in un processo per omicidio (la prima sequenza in cui appare Jeff Bridges, sul banco degli imputati) durante l'espletamento delle proprie mansioni di uomo di legge; dove si racconta uomo misterioso dalle tante avventure burrascose e dal triste passato; dove viene rappresentato come ubriacone che chiede per ricompensa per la cattura di Chaney 100 dollari di whisky (anche se poi si accontenterà della metà).
Allo stesso modo, Mattie è al di fuori dello stereotipo che dovrebbe incarnare nel periodo storico di cui si parla, tanto da dover vincere il pregiudizio che le si incolla come un'ombra.
Personaggi molto ben definiti, dunque. Una trama avvincente, sceneggiatura non-originale (per cui è candidato all'oscar) tratta dal romanzo di C. Portis; battute ora ridotte all'essenziale per andare dritto al punto (in pieno stile Coen, il massimo dell'eloquenza senza perifrasi...), ora abbellite di parole blaterate quasi a vanvera per alimentare la leggenda (su tutti Jeff Bridges che nella versione originale bofonchia, quasi incomprensibilmente). Le rare sequenze senza "parlato" dominate dai colori scuri che si spandono nell'occhio di chi guarda, mentre le note di piano chiudono il film come l'avevano in precedenza aperto, dando un senso ermetico e compiuto al lungometraggio.
10 sono le candidature agli Academy Award 2011, fra cui quella di "Miglior film" e "Miglior regia". Cui si aggiungono gli applausi della critica a questi due maestri di cinema che sembrano tornati ai fasti - neanche troppo lontani - di "Non è un paese per vecchi", che vinse l'oscar nel 2008.
Stavolta se la giocheranno con Inception e The Social Network.
Intanto Chapeau, ancora una volta.


23 - 127 ore (febbraio 2011)





E' la storia di Aron Ralston, ingegnere di professione ma amante dell'avventura e degli sport estremi, delle sfide impossibili, dell'idea dell'"uomo solo con se stesso", l'individuo che supera le avversità chiedendo al proprio corpo e alla propria mente di arrivare oltre i limiti del sopportabile.
E quale migliore occasione per staccare da tutto, dalla routine e le sue noie, se non un weekend escursionistico nel Grand Canyon?
Qui, armato di vari utensili, per lo più dozzinali - come rimpiangerà in seguito - da scalatore e di una telecamera, che lo filmerà come in un reportage per tutti e cinque i giorni del suo forzato soggiorno nella località rocciosa diventando l'unico mezzo di comunicazione eventuale col mondo esterno, decide dunque di concedersi all'ebbrezza del rischio, mosso dal suo istinto.
In un certo senso è proprio il suo istinto il vero protagonista del film: è ciò che lo spinge a sfidare il pericolo, che lo costringe al martirio di quel che ne segue, ma è anche quello che lo salva, alla fine.

Dopo aver fatto la conoscenza di due ragazze, perdutesi lungo il sentiero, che lui aiuta ad orientarsi e con le quali poi ci fa immergere per i primi minuti nell'abbacinante atmosfera assolata del luogo, Aron scivola in un crepaccio durante la sua scalata; in quel momento un grosso e vecchissimo masso per una serie sfortunatissima e rapidissima di eventi scivola con lui e si blocca proprio in corrispondenza del suo braccio, dando ufficialmente inizio al suo calvario.
Da questo momento - vale a dire per oltre un'ora di film - Aron (James Franco) rimarrà infatti imprigionato, senza o quasi senza viveri e pochissima acqua, con i suoi inutili oggetti, e la sua zavorra di "flashback" (che dipingono la memoria e quindi la nostra conoscenza del suo passato) e di "premonizioni".
Proverà a scheggiare la roccia, ad estrarre il braccio a forza, a chiedere aiuto a gran voce, ma nulla di tutto questo risulterà utile quanto il suo ultimo e disperato tentativo, un inno all'istinto di sopravvivenza dell'uomo che è più forte di qualunque cosa: Aron dovrà amputarsi manualmente (con un coltellino spuntato e di pessima qualità) l'arto per potersi estrarre dal crepaccio e ottenere i soccorsi che gli salveranno la vita.

James Franco esce in una luce tutta particolare da questo ultimo film di D. Boyle (Trainspotting, The Millionaire), che si potrebbe quasi definire un "one-man-show", dato che il suo protagonista catalizza l'attenzione in pratica per tutto il film. La sua reattività sia nei momenti di sofferenza, dolore e disperazione sia di gioia e liberazione è la testimonianza più emblematica e riuscita di quello che ha dovuto sopportare il vero Aron (trattasi infatti di una storia vera), riuscendo nella non facile impresa di creare "un film d'azione con un ragazzo che non può muoversi", come l'ha definito Boyle.
L'uso di varie tecniche, peraltro abituali per il regista irlandese, come lo split-screen, le accelerazioni video frenetiche (che l'hanno reso celebre in Trainspotting), gli slow-motion; lo stesso uso della handycam, che ricorda di riflesso l'esperimento di Blair Witch Project e di corredo quel quid amatoriale che si subodora già dall'inizio del film, ricordando più lo stile di un documentario, di un videoracconto in prima persona, tecniche che si alternano di volta in volta fino a costruire una base dinamica all'evoluzione dell'accaduto e così facendo creano i presupposti per "rapire" l'attenzione dello spettatore.
Il quale si immedesima nelle vicende di un uomo che lotta in svariati modi per rimanere in vita, per un film che non ha bisogno di spingere sul triviale e scadente sensazionalismo, magari invocabile in alcuni momenti più trash (un po' gratuiti), come ad esempio nelle scene in cui Aron è costretto a bere la propria urina, piuttosto che quella splatter in cui ci viene mostrata l'auto-amputazione dell'arto, ma che anzi fa uso di questi espedienti per riflettere l'immagine logora, fisicamente e psichicamente, di Aron e per condurlo al bivio finale e alla scelta penosa ma necessaria del dolore e del sacrificio.

J. Franco ha ammesso di essere rimasto un po' turbato dopo aver visionato il materiale documentato dalla telecamera del vero Aron Ralston (che vediamo nei titoli di coda, con la moglie); di sicuro, la sua performance ne è una buona testimonianza: ottima prova per il candidato all'oscar come "miglior attore protagonista".
Buona l'idea e l'intuizione di Boyle e valevole, anche grazie all'attore principale, la sua messa in pratica; i rischi superavano gli eventuali benefici di un film del genere.
Un thriller, o un action-thriller atipico, visto che l'azione viene ricreata dalla telecamera, mentre la staticità dell'attore si impone, che non demerita e non stanca, esigendo però talvolta una buona dose di pazienza e sopportazione, come nelle scene di sofferenza estrema.
Un po' inutili i riferimenti al destino (tema a cui Boyle è avvezzo) o comunque al fatalismo ("Quel masso mi ha atteso da tutta la vita!").
Per il resto godibile.


24 - The fighter (febbraio 2011)





La telecamera della HBO riprende Dicky Eklund, un ex pugile professionista che è diventato "l'eroe di Lowell", combattendo in un match discusso contro il famigerato Sugar Ray Leonard. Davanti all'obiettivo però non c'è traccia di un eroe sportivo, ma solo di un omino pallido e smunto, scavato in volto e ormai devastato dalla droga. Il vortice della tossicodipendenza nel quale è entrato come in una spirale lo ha portato sempre più in basso. E la HBO vuole immortalarlo e raccontare la sua storia di autodistruzione, perché possa essere da esempio agli altri.
Accanto a lui c'è il fratello, Micky Ward (nato dalla stessa madre ma da padre diverso) stesso mestiere di pugile ma carattere opposto: ha meno talento di Dickie ma è anche meno impulsivo e più riflessivo. Venera il fratello, dal quale ha imparato tutto quello che sa sulla boxe, e che lo allena.

Micky ha un fratello e una madre che ne curano gli interessi professionistici e un'intera accozzaglia di sorelle a formare una famiglia che lo possiede psicologicamente.
Dickie non si presenta agli allenamenti, la madre gli "organizza" pessimi incontri; è costretto ad accettare di sfidare un avversario fuori forma, ma di ben 8 kg di peso superiore, per assecondare le pressioni dei suoi familiari, interessati al denaro promesso dalla ESPN per l'incontro.
Micky perde. E cade in un baratro che sembra condurlo alla fine inesorabile della sua carriera, a 31 anni suonati e un'autostima pressoché fatta a pezzi, tanto è l'imbarazzo che gli impedisce di farsi vedere dalla gente che conosce.
Intanto Dickie viene arrestato e lui per aiutarlo ottiene una mano fratturata.
E' l'ora del distacco dalla famiglia, per quanto doloroso sia. La ragazza di cui si innamora, Charlene (Amy Adams), lo aiuta a prendere coscienza dei propri mezzi e lo supporta nel suo processo di indipendenza: assieme a un nuovo manager, potrà tornare a combattere e a farsi una reputazione, a patto che non abbia più contatti con la famiglia. Micky si allena e vince qualche buon incontro, guadagnandosi la serenità per tornare ad essere un pugile importante.
In un incontro decisivo per la sua vita, ottiene la possibilità di sfidare il campione del mondo dei pesi welter, grazie alle dritte del fratello più che alla strategia dei suoi coach. I due si riavvicinano quindi prima dell'incontro che cambierà la sua carriera e la sua vita per sempre e che darà forma e consistenza al sogno di un pugile dato per finito per quasi tutto il tempo, erroneamente.

Micky, ovvero un grande Mark Wahlberg, è il personaggio protagonista di questo film, ma anche per le vicende (basate sulla sua vera storia) che si intrecciano durante le riprese (del film e non), il suo non è un ruolo che strabordi, che si imponga per eccesso di istrionismo; insomma, niente a che vedere con il Jake LaMotta di Toro Scatenato o tantomeno con il Rocky Balboa dell'altrettanto premiato oscar Rocky .
Corrisponde invece più al profilo dell'outsider, dato per sconfitto in partenza o comunque svalutato in relazione a ciò a cui viene paragonato.
Emblematico l'esempio del fratello Dickie (uno straordinario Christian Bale, qui nuovamente dimagrito spaventosamente per il ruolo) che lo mette in ombra sempre. Lui sì eccentrico, dalla parola facile e la lingua tagliente, dalla simpatia primigenia che lo fa benvolere anche quando si riduce umanamente a poca cosa. Micky stesso non smette mai di nutrire ammirazione nei suoi confronti, nonostante sappia della sua dipendenza dal crack, nonostante sappia che la sua assenza agli allenamenti si ripercuoterà sulla sua preparazione, nonostante i continui problemi che il fratello continua a causargli e dopo la separazione fisiologica e dolorosa e l'arresto di Dickie, Micky non smetterà mai di fidarsi di lui, perché in fondo è il suo personale eroe, per quanto non incarni quella figura perfetta ed inappuntabile.

Mikie è anche in un profondo conflitto, interiore che riguarda la sua voglia di scappare da ciò che lo ostacola (la famiglia) senza ferire nessuno ed esteriore che si palesa con le scelte che gli vengono sottoposte continuamente.
Se distaccarsi dal fratello, se chiedere rispetto per se stesso, se farsi gestire da un altro manager, se accettare le condizioni di quest'ultimo che prevedono la fine dell'ingerenza di Dickie nella sua vita pugilistica.
Micky è stufo di questo peso, perché vorrebbe semplicemente che tutti coloro a cui vuole bene o con cui lavora bene fossero lì con lui, ad aiutarlo e a supportarlo, a gioire delle sue vittorie. Gran parte della sua fatica consiste in questo, nel riunire un entourage capace di dargli fiducia.
Al confronto, la vittoria del titolo sembra una passeggiata.

Film dalla produzione piuttosto travagliata (il regista originario doveva essere Aronofsky che dopo lo sciopero degli sceneggiatori aveva abbandonato il progetto, andando a dirigere The Wrestler , mentre la parte di Dickie doveva essere assegnata prima a Matt Damon e poi a Brad Pitt, prima di andare ufficialmente all'eccezionale C. Bale, candidato come "Miglior attore non protagonista"), venuto alla luce con ben due anni di ritardo, ma che alla fine ha dimostrato di valere tanta attenzione. David O. Russell, colui che l'ha infine diretto e che ha più creduto nel suo valore assieme ad un Wahlberg molto professionale nell'entrare nella parte (si è allenato nonostante i rinvii), dirige questo film con eleganza e lascia spazio alle prove incoraggianti di tutti gli attori presenti. Se Wahlberg e Bale da soli valgono il film, non va dimenticato che il supporting cast è di tutto rispetto, con Melissa Leo (Alice) ed Amy Adams (Charlene) a contendersi il premio per l'attrice non protagonista.
Una sceneggiatura originale scritta molto bene (altra nomination), tante cose succedono in successione e tengono alta la guardia, non facendo mai recriminare per tempi morti o lungaggini gratuite. Non assenti poi scene di livello, capaci di scavare nella psiche e nella storia personale dei personaggi, prima su tutte quella di Dickie in macchina con la madre che lo ha appena scoperto a fuggire nuovamente dalla "casa del crack", e mentre lei cerca di rimproverare al figlio (e a se stessa) ciò che ha davanti agli occhi, non riesce a fare a meno di commuoversi per la filastrocca che Dickie le canta sorridendo e poi di unirsi a lui.

E' anche un film sull'essere eroi nuovi o decaduti, sulla fama prima conquistata poi elemosinata, sul bisogno di dimostrare qualcosa a se stessi e agli altri, sulla miseria o sulla presunta ricchezza, sull'ignoranza o sulla bontà d'intenzioni, nonché sulla linea molto sottile che separa il vincente dal perdente. Invasiva in tal senso è la T.V., genericamente intesa, usato sia come mezzo di risonanza (le scene del combattimento di Dickie contro Sugar Ray, quelle di Micky vincente sul ring) che di patibolo mediatico volto a dare l'esempio (il filmato dell'HBO sulla tossicodipendenza di Dickie, i giochi di denaro e di potere con cui vengono gestiti e commentati certi incontri); ma con una voce che si eleva sopra il coro contrario, sia esso il pubblico di casa che tifa per il proprio beniamino (do you remember Rocky?) o commentatori televisivi già "indirizzati" verso una preferenza, ed è quella dell'uomo, da solo, che va oltre le previsioni e spodesta il favorito.
Il trionfo dell'uno contro tutti però passa in rassegna e il film ci propone piuttosto un eroe in un senso tutto nuovo per il genere cinematografico in questione che non ottiene una forma di riscatto sociale vincendo su un ring ma che riesce a vincere sul ring solo quando la sua vita ha trovato una quadratura.
Il film si chiude con una nuova telecamera della HBO, ma questa volta le luci sono tutte per Micky.
Per Micky e per chi gli sta attorno.


25 - Inception (febbraio 2011)



Dom Cobb (L. Di Caprio) ha ereditato dal padre un'abilità notevole: quella di navigare nella mente delle persone. Per sua sfortuna si tratta di una capacità poco utile se non a fini illegali. E' infatti qualcosa per cui le compagnie con grandi interessi economici pagherebbero profumatamente, ed è così che Dom lavora, inserendosi nel subconscio dei soggetti in questione per carpire loro segreti o informazioni chiave.
Cobb inoltre è ricercato per l'omicidio della moglie Mal in America ed è quindi esiliato altrove, costretto a trovare lavori da fare con il sogno di tornare un giorno a casa, dove ha lasciato due figli senza cui non intende continuare a vivere.
L'occasione propizia gli capita quando Saito, un potente uomo d'affari giapponese, gli offre la possibilità di esaudire il suo desiderio a patto che riesca a convincere Fischer Jr. (C. Murphy) a smantellare l'impero economico del padre, rivale di Saito. Impresa ardua, perché se è relativamente un gioco da ragazzi prelevare informazioni, non lo è altrettanto instillare idee completamente nuove in qualcun altro. Soprattutto, potrebbe rivelarsi nocivo per la salute e l'identità stessa del soggetto.

Cobb si avvale di una squadra: il fidato Arthur (J. Gordon-Levitt) e l'architetto Ariadne, Arianna in Italia (Ellen Page), la quale dovrà far valere la sua competenza in fatto di costruzione di spazi e labirinti virtuali (citando l'Arianna della mitologia greca); spazi che verranno in seguito riempiti dai ricordi e dalle percezioni di colui che sogna. L'impresa si presenta difficile, perché occorrerà costruire (e risalire) ben tre livelli nel subconscio di Fischer, per una struttura stratificata complessa e soprattutto tutto dovrà essere eseguito nei tempi previsti.
In sospeso, ma parallelamente al filone principale della trama, si rielabora attraverso sogno e memoria la sottotrama del rapporto fra Cobb e la moglie, che lui ama ancora disperatamente e che per questo non riesce a lasciare andare, sconvolto dai sensi di colpa per il modo in cui è morta di cui lui si sente responsabile. Sarà necessario affrontare uno ad uno tutti gli spettri, prima di poter mettere la parola fine alla questione pendente.
Non è il caso di svelare troppo della trama, attorcigliata su se stessa come un grande rebus da risolvere gradualmente.

Nolan arriva a questo film nel punto giusto della sua carriera, ci arriva con grande consapevolezza e maturità, dopo essersi barcamenato con un film ancora un po' acerbo come Memento ed aver affinato le sue abilità illusionistiche ed enigmatiche con The Prestige .
Non c'è da sorprendersi tanto, cioè, se pronti-via ci imbattiamo nel bel mezzo di un sogno pianificato e costruito, con una missione in corso e tanti colpi di scena che si succedono senza che si sia in grado di capirci alcunché. E' lo stile di Nolan quello di infilare più elementi possibile spingendo il piede sull'acceleratore (anche dal punto di vista dei dialoghi) in modo da stimolare una iperattività del cervello dello spettatore.
Non è bassa infatti la soglia d'attenzione che questo film richiede, inizialmente. Man mano che si procede l'intrigo viene disciolto, lasciando spazio ad almeno una mezzoretta abbastanza bruttina, nella quale un film con ottimi presupposti e buone idee getta un po' tutto al vento facendosi prendere dall'estasi delle esplosioni, delle sparatorie, del pathos tipico del cinema d'azione che si va a mescolare al drammone fantascientifico.

Non si può certo dire che questo film affronti temi mai visti al cinema... anzi, molti sono gli esempi anche recenti di tentativi di destreggiarsi fra realtà e finzione, fra sogno e realtà, però va detto che rispetto a quegli esempi, Inception mostra di aver imparato e poi applicato quanto suggerito da altri in un film che di certo non pecca di sostanza.
Una trama estremamente cervellotica, si diceva, come qualche grande film deve avere a volte per essere veramente visto e capito, per non rimanere solo un'idea astratta campeggiante a tutto schermo da guardare a bocca spalancata; una concretezza non dissimile a quella di cui si parla nel film.
Inception proietta anche in un futuro ipotizzabile un mondo in cui niente più di noi è veramente al sicuro dall'"oscuro scrutare" altrui, dove persino i nostri sogni nel concepimento dell'intimità possono essere setacciati, non mancando di alludere al coraggio che in certi casi è richiesto per andare avanti, per abbandonare un sogno che per quanto bello sia non è meglio della realtà che si costruisce giornalmente, non coi ricordi ma con le vite delle persone.

Un cast incredibile: oltre ai vari Ellen Page, J. Gordon-Levitt, Cylian Murphy, Marion Cotillard si aggiungono due veterani come Michael Caine e Tom Berenger. Per non parlare poi del protagonista L. Di Caprio, che a distanza di cinque mesi torna a fornire una buonissima prova in un ruolo di molto simile a quello che l'aveva visto al centro delle inquietanti vicende di "Shutter Island" curiosamente snobbato dall'Academy.

La buona recitazione è parte integrante di una produzione chiaramente accorta, che nulla lascia al caso, a cominciare dalla sceneggiatura originale di cui si è detto (scritta da C. Nolan, e candidata all'oscar), fino all'ottima fotografia e agli effetti speciali, diluiti ma molto efficaci, fino ad arrivare alle musiche composte da Hans Zimmer per un prodotto finale davvero tout-court.
Candidato per il "miglior film" e per praticamente tutti quanti gli altri premi "tecnici", si candida ad essere protagonista alla prossima cerimonia.
Di sicuro lo è già stato nel 2010, riuscendo nella titanica impresa di unire gli elogi di pubblico e critica, con eccellenti incassi al box office.



26 - The Social Network (febbraio 2011)




Mark Zuckerberg (un flemmatico e bravissimo Jesse Eisenberg) frequenta l'università di Harvard, quando nel giro di una notte riesce a mettere a punto un software che accede illegalmente agli archivi informatici dell'università e ruba le foto delle studentesse che rende poi pubbliche, indicendo una votazione allargata a tutti gli utenti della rete: si chiama Facesmash.
Il tutto dopo aver aggiornato il suo blog, in cui ricopriva d'ignominia la ex-fidanzata dopo essere stato mollato e inconsapevolmente offriva un movente ai suoi smascheratori.

L'università lo richiama e il consiglio lo multa, ma lui ha ottenuto quello che voleva: più di 22.000 accessi in un paio d'ore.

La reputazione che si è fatto lo mette in cima alla lista di due facoltosi studenti ed atleti promettenti, appartenenti ad un club elitario di Harvard (i fratelli Winklevoss), che dall'alto del loro nome, vedono in lui l'uomo adatto a fare loro da manovalanza per arricchirli.
Gli offrono infatti di realizzare "Harvard Connection", una sorta di network esteso alla comunità del college.
Zuckerberg fa loro credere di accettare, mentre in realtà prende loro idee e spunti e crea qualcosa di migliore, di più grande: TheFacebook.

Quando il sito è online è già sulla bocca di tutti e i continui "iscritti" non fanno altro che gettare benzina sul fuoco, accrescendo il desiderio di rivalsa dei Winklevoss, ben consapevoli che sarà sempre più difficile dimostrare il furto di proprietà intellettuale da loro reclamato se non interverranno in modo risoluto; tuttavia, le loro maniere chic ed altezzose, unitamente al loro "ossequio" per un codice etico (quello di Harvard) che sono i primi a violare quando ne chiedono il rispetto, li portano a vagliare altre strade, prima di ricorrere all'unica sensata, cioè quella legale.

Intanto Zuckerberg e il suo (allora) migliore amico, e direttore finanziario nonché socio co-fondatore del progetto, Eduardo Saverin (Andrew Garfield), pensano ad allargarsi e a cercare investitori ed inserzionisti, in modo da espandersi.
Ma la macchina da soldi che hanno per le mani comincia a vivere di una vita propria, alimentata poi dal clamore che riscuote quando gli accessi oltrepassano i confini statali del Massachusetts e finisce fuori controllo, muovendosi ad una velocità vertiginosa.
Entra in scena Sean Parker, l'inventore di Napster con più di una macchia sul suo status di uomo d'affari.
Si dimostra affabile ed esperto, consiglia di togliere il "the" e di puntare alla semplicità e all'efficacia: Facebook.

La sua pomposità crea però degli strascichi: Eduardo si sente tagliato fuori e Zuckerberg è ormai del tutto plagiato dalle idee di Parker, che gli offre contatti importanti fra gli investitori e la possibilità di pensare sempre più in grande, mentre l'amico si sbatte ottenendo in cambio sempre meno considerazione.
I rapporti fra i due precipitano e ci portano dritti dritti in un'aula di conciliazione di tribunale in cui gli avvocati ricostruiscono passo dopo passo, con testimonianze e interrogatori la vera storia di Facebook, il social network che oggi può contare su più di 500 milioni di iscritti.

La locandina recitava: "non arrivi a 500 milioni di amici senza farti qualche nemico".

Il film ci mostra nel modo più lineare e fedele possibile come un ragazzo, cervellone e "nerd" ed emarginato sociale, è riuscito a farsi largo in una delle industrie più remunerative del mercato e soprattutto di quello che ha superato per arrivarci.
I compromessi, le idee di rivalsa sociale nei confronti di coloro a cui addebitava atteggiamenti spocchiosi, le invidie e i rancori che si porta dietro e le amicizie e gli amori mai del tutto dimenticati mentre la sua creatura prendeva forma e s'impossessava di lui.
Zuckerberg, da sempre più interessato a creare qualcosa di socialmente utile e condiviso in un modo assolutamente geniale piuttosto che a fare palate di soldi, riesce a coniugare entrambe le cose divenendo il più giovane miliardario (o billionaire) del mondo. Il suo impero raggiunge dimensioni spropositate e ogni giorno di più i suoi confini si allargano. E' stimato intorno ai 500 milioni il numero degli utilizzatori di Facebook oggi, e alla luce anche delle vicende attuali non si può non riconoscere che si tratti di un fenomeno sociale senza precedenti nella storia.
E nonostante questo, l'ultima sequenza è per un Zuckerberg accigliato, ancora un po' trattenuto da un sentimento che non riesce (o non vuole?) ad esternare, incapace di evitare di ferire coloro ai quali vorrebbe dimostrare amicizia, autocondannandosi alla solitudine.

Fincher (Se7en, Fight Club) dirige un film che sarebbe stato probabilmente normalissimo, se diretto da qualcun altro. Non tanto perché la storia non sia interessante in sé, ma perché lo stile del regista condiziona pesantemente la struttura stessa del film, infonde le proprie intuizioni nello sviluppo della storia, sceglie di puntare sulla monoespressività di Eisenberg (in una parola: perfetto) e di valorizzarne la presenza, che non è solo ciò che dice, ma anche come lo dice. Sempre fra i denti, sempre con bene in mente chi è lui e chi è invece quello che ha di fronte.
Eisenberg è eccezionale a rendere questo tipo di personaggio, ma Fincher trasforma un buon prodotto sulla carta in un gran bel film.

Vincente è anche la scelta del doppio binario in cui è incanalata la trama, procedendo spediti nei flashback in modo da rendere via via più chiaro la materia vera del contendere fra avvocati arroccati nelle proprie posizioni ed ex-amici che si fanno la guerra per ottenere quello che reputano di loro spettanza.
E' anche la contrapposizione fra i personaggi, fra i loro interessi e il modo in cui decidono di comportarsi che li rende interessanti.

I dialoghi sono poi fitti, avvincenti, ben studiati. Anche grazie al sapiente cambio in corsa dei registri linguistici usati per descrivere questioni posizionate su piani diversi anche se comunicanti fra loro, si ha sempre la piacevolissima sensazione che il film scorra, senza risultare incomprensibile e allo stesso tempo senza dar segno di cedimenti banali.
A ottenere molti riconoscimenti, tanto è ben scritta, e a concorrere in qualità di "miglior sceneggiatura non originale" è la sceneggiatura di Aaron Sorkin, che ha anche firmato il film in qualità di produttore esecutivo assieme a Kevin Spacey.
Un'altra candidatura va alle belle musiche di Trent Reznor ed Atticus Ross.

Ben 10 le nominations e tante le probabilità che sia questo "Il Film" che la farà da padrone, essendo stato scelto dall'Academy contemporaneamente per Film, regia, attore protagonista e sceneggiatura, oltre agli altri svariati premi tecnici, fra cui fotografia e montaggio sonoro.
Seconda candidatura da regista per Fincher, dopo "Il curioso caso di Benjamin Button", nel 2009.
Personalmente, stavolta faccio il tifo per lui.



27 - Un gelido inverno - Winter's bone (febbraio 2011)




Ree vive una vita problematica, confinata in un angolo sperduto del Missouri, e dell'America.
La madre è uscita di senno e praticamente in condizioni vegetative, i fratelli più piccoli non hanno l'età per bastare a se stessi e il padre è sparito, da qualche parte.

Il padre è noto nella zona come cucinatore di anfetamine, ed è stato arrestato da qualche tempo.
Per uscire di prigione ha impegnato la proprietà della famiglia come pegno per la cauzione.
Quando lo sceriffo si presenta a casa di Ree e le spiega che se il padre non si presenterà in tribunale a testimoniare la proprietà sarà loro confiscata, ha inizio la ricerca di Ree.

La languida e fredda fotografia immortala uno scenario glaciale, quasi immobile. I boschi, la fauna occasionale, le strade deserte ed impervie raffigurano qualcosa di inaccessibile, come se niente di tutto quello che si vede fosse davvero reale.
L'atmosfera è del tutto particolare, di molto vicina a quella di uno scenario post-apocalittico.
Il freddo distacco con cui si guarda a quello straordinario scorcio risalta nelle espressioni del tutto stanche, e provate della gente del luogo, che cerca di annegare l'afflizione nell'alcol e nelle ballad country.

I nostri occhi vanno a Ree, che ha fretta di ritrovare il padre e coraggio quanto basta per rivolgersi alle persone sbagliate, anche incautamente, pur di non perdere il posto in cui vive con la famiglia.
E già così, con la miseria in cui versano e i problemi legali non è facile.
Ree (Jennifer Lawrence) conosce molto bene ciò con cui ha a che fare, perché lo ha imparato dal padre. Quindi sa che entrerà in un circolo vizioso di malviventi da cui sarà difficile districare la risposta alla sola domanda che gli interessa porre. Sa anche che non sono tipi molto loquaci quelli a cui fa visita, e che l'aria è impregnata di omertà e minacce.

Ree è però in quella particolare condizione nella quale non c'è una via d'uscita, è disperata e farà comunque di testa sua, nonostante i consigli dello zio Teardrop (John Hawkes). Ne paga le conseguenze, ma è solo così che riesce ad arrivare in fondo alla questione, non senza che il film si mostri un po' restio a sollevare gli ultimi veli che nascondono la verità.
Questo film indipendente, vincitore del premio della giuria al Sundance Film Festival (quello che premia le produzioni più lontane da Hollywood, insomma) per il film drammatico, racconta di un posto che si fatica a credere reale, tale altopiano di Ozark, in cui si svolge l'azione del film e di una comunità pronta a fare quadrato intorno alle persone che la governano, nello svolgimento dei loro malaffari.

Torbido è ciò che si cela dietro le apparenze, fino a gettare lo spettatore in uno stato d'inquietudine piuttosto profondo, non senza lesinare fra l'altro scene di perversa disumanità, in una cornice di spietato e lucido realismo.
Non ci sono battute comiche in momenti agghiaccianti o falso ottimismo laddove il cinismo è l'arma migliore per sopravvivere.

Niente illusorie rassicurazioni, niente "andrà tutto bene", ma solo un ritratto corale di un posto sperduto, che non si preoccupa di incarnare l'ideale del sogno americano o di qualsivoglia credo che pretenda di imporsi su una storia pura e dura, semplice ma difficile da digerire.
Tutto questo è il sorprendente "Winter's Bone", un film che merita rispetto. E di essere visto.



28 - Rec (marzo 2011)



Una squinzia di reporter, assetata di successo e disposta a tutto per uno "scoop" pseudo-giornalistico, ottiene assieme al cameraman di fiducia la possibilità di seguire alcuni vigili del fuoco durante il turno di sera.

I convenevoli iniziali, le battutine politically correct, le rassicurazioni sullo sfondo di un'annunciata routine che si prospetta molto noiosa lasciano spazio però a qualcos'altro quando i nostri eroi si catapultano in un condominio, per rispondere alla chiamata di una signora anziana, apparentemente fuori di testa.

Da qui in poi, sarà una concatenazione di colpi di scena (o per tali spacciati) e di brutture estetiche e trash ad essere messa in moto per prendere in ostaggio la mente del pubblico.
Basandosi su uno degli stereotipi horror più usati e abusati nella storia recente (un luogo "chiuso", da cui non esiste via d'uscita, in questo caso per una quarantena di ordine sanitario), l'idea è quella di costringere lo spettatore ad immedesimarsi con i poveri attori di questa tragicomica boutade che vengono decimati ad uno ad uno, mentre sullo sfondo si ode di tutto: schiamazzi, versi lamentosi, gridolini isterici, urla in stile "L'ersorcista", rantoli, irritanti litanie dell'asfissiante squinzia reporter, rimbombi cupi che si propagano lungo la tromba delle scale, tutto mentre la telecamera ondeggia come ad un rave party.

Nel tentativo di trovare qualcosa di stupefacente, un nuovo grimaldello con cui scardinare l'horror convenzionale, il film prova ad inquietare stabilendo un nesso più personale e diretto fra lo spettatore e quello che accade, eliminando tutte le interfacce frapposte.
Quel che ne esce è un video di Youtube, in una cornice di farsesco iper-realismo amatoriale in cui i dialoghi sono terra-terra, i personaggi sono definiti blandamente per renderne lo status ganzissimo (!) di "persone comuni" e discutibile appare la decisione di fare affidamento per tutto il film sull'uso della handycam e della visione in soggettiva (inserito nel filone "Blair Witch Project", e poi emulato da "Cloverfield").

La suspence non è più prefabbricata, finta e studiata a tavolino ( o qualsiasi altro luogo comune adatto vi venga in mente ), ma diventa uno stato d'animo dotato di una vita propria che cresce pian piano, alimentato dalle cretinate splatter, dal montaggio sonoro (comunque ottimo), e dalle suggestioni per gonzi, tutti insieme per mano a cercare di coprire gli occhi di chi cerca (invano) di capire cosa ci sia dietro.
Si passa dal virus fantascientifico, allo zom-com involontario per arrivare (Dio ce ne liberasse e scampasse) a riabilitare le possessioni demoniache Friedkiniane, con tanto di ritrovamento di un nastro occulto ancora inciso delle parole datate di un tale sconosciuto (mentre la reporter continua a rendersi ridicola urlando: "Cos'è?! Cos'è?!", dimenticandosi che forse è difficile capirlo mentre si usa un tono di voce di 40 dB più alto...) che fanno convergere tutti i sospetti verso l'ultima deriva narrativa del film.
L'ultima scena cerca di elevare il film, suggellandolo con un tentativo di satira persino apprezzabile per quanto sfortunatamente trito e ritrito.

In conclusione, questo horror mi ha fatto pochissima paura, e tanto schifo. Perciò almeno un obiettivo del film può dirsi centrato.
A chi si volesse addentrare, auguro tanta fortuna.
Astenetevi se siete facilmente impressionabili o se pensate che conciliare il fattore novità con un prodotto allo stesso tempo valido non sia troppo utopistico.



29 - Benvenuti a Zombieland (marzo 2011)



Da quando un tale ha contratto il virus che ha scatenato l'epidemia azzannando un hamburger, gli Stati Uniti hanno cessato di essere la Nazione che erano e in poco tempo, morso su morso, la quasi interezza della popolazione è stata contagiata, e ridotta in tanti zombie.

Uno scenario post-apocalittico fa da sfondo a questa brillante e ironica commedia, che adopera un po' tutti gli strumenti del genere per raccontarci un film on-the-road nel quale facciamo la conoscenza di quattro personaggi dai nomi dei paesi di cui sono originari (di quasi nessuno conosceremo il vero nome) e dalle personalità completamente diverse: da Columbus, ragazzo timido e asociale che sopravvive grazie ad una lunga e rigorosa lista di regole e tanta prudenza a Tallahassee, cowboy d'altri tempi particolarmente a suo agio nel combattere corpo a corpo con gli zombie, ostacoli da eliminare per riuscire finalmente a (ri)assaporare un Twinkie (merendina americana d.o.c.g.), per arrivare alle due sorelle, Wichita e Little Rock, disincantate e ciniche quanto in spasmodica ricerca di una vera famiglia e di un posto dove andare.

Quest'accozzaglia di personaggi rappresenta la vera miscela esplosiva capace di innescare la comicità, prima ancora dei dialoghi e delle gag disseminate qua e là, a cavallo delle scene d'azione che fra l'altro mettono in evidenza un grande lavoro dietro le scene quanto a trucco ed effetti visivi.
Una esteriorità che rafforza il concept di un film che non è solo una horror-comedy ma abbraccia più generi assieme, non mancando di toccare alcune punte di commozione o riflessione mentre già elucubra lo spassoso escamotage successivo.

Nel cast appaiono parecchi attori semi-sconosciuti ai più (Jesse Eisenberg divenuto famoso solo recentemente, Emma Stone e Abigail Breslin) per via della loro gavetta indie alle spalle e dei veri e propri caratteristi, molto efficaci sotto il profilo della caratterizzazione dei personaggi: Woody Harrelson nella parte dell'uomo d'azione e persino un cammeo del guru Bill Murray nella parte di se stesso che - udite, udite - torna a vestire i panni dell'acchiappafantasmi, caricaturando se stesso ed impreziosendo il film di una gemma autentica.

E' una grande e mordace giostra traboccante di divertimento, che arriva quasi a simbolizzare se stessa nella scena finale del Luna Park e dell'orda finale di zombie da eliminare.
Senza cercare cose complicate oltre la sua sfera d'attinenza e seguendo più o meno il percorso già solcato da altri anche illustri predecessori (ad esempio l'esilarante "L'alba dei morti dementi"), Zombieland può essere dunque raccontato per nient'altro che quel che vale, ovvero una notevole mole di divertimento ed azione lungo la via della personalissima comprensione del vero significato dell'esistenza dell'umanità.



30 - Ghost World (marzo 2011)




Fine del liceo, Enid (Thora Birch) e Rebecca (Scarlett Johansson) si apprestano a capire cosa ne sarà delle rispettive vite una volta calcato il palcoscenico dei grandi e dismessi i panni delle adolescenti senza pensieri.
Lavoro, soldi, casa propria, indipendenza, l'abbandono di quell'innocenza a cui è difficile dire addio. La finzione e l'ipocrisia di ciò che le circonda, ad alimentare il loro mordente sarcasmo.

I sorrisi di circostanza delle "amiche" mai sopportate, gli snob "pseudo-tutto", le ambizioni artistiche radical-chic, il politically correct, la serietà come passe-partout per le relazioni sociali, le regole per sopravvivere nel mondo reale.
Le occhiate divertite alle persone cui sperano di non assomigliare mai, gli ammiccamenti al fetish, le parentesi ideologiche punk, l'affetto sincero per i cimeli e per i vecchi dischi blues dimenticati e le stronzate varie che diventano importanti proprio perché non lo sono per nessun altro. E poi: gli scherzi di cattivo gusto per uccidere a coltellate il tempo che scorre inesorabile, come per fermarlo, lasciando immutati i riferimenti, le cose che danno sicurezza, in un "mondo fantasma" nel quale Enid, la vera protagonista del film, si aliena poco a poco, al passo di quella sua realtà intima che le si modifica attorno.
Il film riempie con disinvoltura di scenette patinate una sceneggiatura scritta e adattata in base all'omonimo fumetto underground di Daniel Clawes (che ha contribuito allo sviluppo dello script), descrivendoci questo mondo visto dalla prospettiva di due adolescenti che che vi si affacciano curiose e disinibite per non mostrarsi impaurite, sempre fuori dagli schemi e dalle convenzioni, malcelando la loro mai riuscita integrazione sociale e il disagio familiare. Il tutto mentre sfila un intero battaglione di personaggi alquanto grotteschi, sempre con la battuta pronta, definiti macchiettisticamente, spesso in grado di minarne le sicurezze, di disorientarle.
Come il loro amico Josh, che "odia tutto quello che è normale" e che attira l'interesse probabilmente non corrisposto di Enid. Come Seymour (il mito Steve Buscemi), personaggio del tutto fuori da ogni logica ed inverosimilnente patetico, che incarna il profilo del fallito di mezz'età, uomo quasi senza difese, collezionista triste e avvilente... eppure sono tutte queste cose a renderlo simpatico a Enid, che gli si affeziona senza volerlo, trascinata da un impeto più grande di lei, quella consapevolezza di non voler vivere in un mondo in cui una persona come lui sia costretta alla solitudine.
Sullo sfondo l'amicizia fra Enid e Rebecca, vissuta come meccanismo di difesa, di lotta all'emarginazione; amicizia incrinata anch'essa dall'ineluttabile processo di maturazione che incombe e che le distanzierà, mentre la metafora fantasma che altro non è che l'adolescenza ricalcata sulla provincia americana anti-americana si perpetua, in quella cortina di nostalgica disillusione che vorrebbe tanto offrire una soluzione alla fine del viaggio, ma che non è davvero in grado di garantire...



31 - Motel Woodstock (giugno 2011)




Il film che torna a parlare dello storico concerto di Woodstock, lo fa attraverso gli occhi di Elliott Tiber, un ragazzo di White Lake, un paesino minuscolo vicino a New York nel quale gestisce un motel assieme ai genitori.
Elliott è un brillante riferimento per la comunità in cui vive: è un eccellente decoratore, è presidente della camera di commercio e possiede una creatività smisurata.
E' soprattutto quest'ultima dote che lo mette davanti all'occasione di aiutare ad organizzare il famigerato concerto tenutosi nel 1969 e che ha rappresentato un'intera generazione di giovani americani che si riconoscevano nella libertà della musica, nella pace e nell'amore.

Ripercorrendo le tappe di quei tre giorni assolutamente straordinari nello spaccato storico americano, mentre la guerra del Vietnam offriva diverse ragioni di tensione e la guerra aleggiava sulle teste di milioni di giovani mandati letteralmente al macello, un piccolo passo nella direzione opposta veniva mosso da centinaia di migliaia di persone attratte semplicemente dalla possibilità di vivere un presente diverso, utopico e quindi forse, migliore.

Divertente è l'approccio del film (trasposizione del romanzo autobiografico "Taking Woodstock: A True Story of a Riot, a Concert, and a Life" dello stesso Elliott Tiber), quello di narrare le vicende di un ragazzo in perenne ricerca di una libertà espressiva che viene ostacolata dai doveri e dalle responsabilità inculcategli dai genitori alquanto fuori dagli schemi e per buon parte oppressivi.
In questo modo è Elliott che si concede alla follia di quello che accad(d)e, riconoscendosi sognatore ed imparando a conoscersi un po' meglio di quel che credeva.
Le porte della sua percezione vengono schiuse una ad una, così quelle dell'intera nazione che vengono prese d'assalto dal delirio collettivo.
Cederà di conseguenza alla tentazione e si avvicinerà a quella parte di universo che ancora non gli riesce di comprendere, mentre lentamente muove i passi che lo allontanano dal passato, dalla sua famiglia e quindi da casa per abbracciare qualcosa di meno certo ma di più eccitante.

Ang Lee pennella questo film come un dipinto, a partire dai colori sfolgoranti che impone a più riprese agli occhi dello spettatore. Lo arricchisce poi di persone, luoghi, immagini, musica e di racconto. E' un film che parla di caos, dove la rivoluzione culturale si impone agli occhi e alle usanze della tradizionale e conservatorista comunità locale che male si poneva di fronte ai metodi poco ordinari di persone come non ne avevano mai viste; dove persino la burocrazia si deve piegare ad un impeto di orgoglioso cambiamento che riusciva a convincere anche i meno sospettabili forse finalmente consci che le persone e non le cose o i soldi, erano la parte più importante dell'equazione.

Il tutto viene riprodotto come nel concerto che compiva quarant'anni proprio alla data di uscita di questo film: le stesse atmosfere, nell'esaltazione e nella consapevolezza sono cucite fra loro fino a cercare di ridare lustro a quelle stesse sensazioni e percezioni di un tempo che il regista stesso ama e si vede; lo si nota dal taglio romantico-nostalgico che imprime, come se stesse scattando una fotografia a qualcosa di troppo fugace e di difficile descrizione.
Ma è una visione "da fuori", quella di Lee, è quella di un critico osservatore estraneo che è scolpita nelle diverse facce e nei diversi punti di vista della variegata società americana di quel periodo, in parte confusa e impaurita e in parte desiderosa di aprire la mente guardando oltre la superficie. Vi si allude con onestà e con simpatia, ma mai con irrisione nonostante si addensi sul fondo quell'alone di forte dubbio sulla concretezza delle intenzioni di quella gente, in quegli anni così controversi.

I personaggi (soprattutto quelli ridotti a puri stereotipi: leggasi Emile Hirsch palesemente fuori ruolo nella parte del veterano del Vietnam che non riesce più ad adattarsi alla sua vita pre-guerra) sono tutti rappresentati più dalle loro peculiarità stravaganti che altro, con Lee che si diverte ad accentuarne il peso umoristico e ad alternarli su un grande carrozzone di bizzarrie dove però nulla è giudicato tale, arrivando ad ombreggiare i contorni di un'idea che si guadagna gli onori della cronaca; cronaca di un evento leggendario che fu e che mai più ritornerà, anche se qualcuno, come ad esempio chi ha contribuito a fare questo film, si chiede ancora perché.

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