martedì 15 novembre 2011

Recensioni 2009-2010

Queste fin oggi le mie recensioni (è un'attività che ho iniziato da poco tempo, e durerà altrettanto, probabilmente). L'elenco non è del tutto completo, poiché le primissime non sono mai state conservate e sono quindi sparite nel nulla, travolte da un vortice di indifferenza.

Quelle che restano fanno comunque abbastanza schifo anche per le altre.

Noterete che rispetto alle prime, esili ed ordinate concatenazioni di parole senza alcun senso compiuto, le più recenti sono molto più "complesse" e "pensate", il che si spiega solo con un'accentuata bulimia letteraria di cui vado particolarmente fiero.



Questa è la prima parte, ovvero quelle scritte fra il 2009 e il 2010.

Enjoy.


1 - Spun (novembre 2009)



L'incalzante progressione di ore della per nulla noiosa vita quotidiana di "Ross", ovverosia un tizio che si alimenta di anfetamine e (guarda caso) subisce qualche piccolo effetto collaterale. Da incorniciare la scenetta iniziale, con la ripresa di una casupola semi-abbandonata abitata interamente da tossici che attendono con annoiata esaltazione l'arrivo della "roba", e consumano l'attesa dicendo puttanate (ma è parte integrante del "plot", eh.)

L'idea è un po' debole, e se ci cercate una qualsiasi trama, non la troverete, però è interessante tutto il resto: l'audio, il montaggio e gli effetti sonori sono sempre presenti a sottolineare la frenesia del trip, ma vengono abilmente smussati con brani tranquilli e riflessivi (Billy Corgan con i suoi Zwan, Blues Travel, Ozzy Osbourne, ecc ecc.), sempre in armonia con il paesaggio che si staglia attorno e come necessaria "pausa" dagli avvenimenti che si susseguono intensamente (e a volte trionfa il non-sense, ma anche questo fa parte del plot).

Ottima figura fa anche tutto il cast, nulla da eccepire se non per l'aspetto di Jason Schwartzman (che Iddio abbia in gloria le sue capacità recitative, anyway) che sta allo schermo come il Nostro Governo sta all'intenzione di combattere l'evasione fiscale [riferimento datato, ndr].



2 - L'inventore di favole (Shattered Glass) (novembre 2009)



Chi è Stephen Glass? Un grande reporter che merita la fama guadagnata attraverso i suoi notevoli scoop giornalistici o un imbroglione recidivo? Il film è basato su una storia vera, danzando costantemente sul filo molto sottile che separa verità e menzogna in un mondo (quello giornalistico) che viene messo a nudo nella sua amara ipocrisia, dalla costruzione al disfacimento, dalla gloria al declino.

Per essere considerati "qualcuno" è necessario ingannare? La scala di valori corrotta implicita nell'arrivismo e nella mitomania sono del tutto evidenti e mai come in questo momento d'attualità.

Il protagonista, interpretato da (un grande) H. Christensen viene qui smascherato, punito, messo alla berlina e in ridicolo di fronte a tutti coloro che più credevano in lui, infine bandito non solo dall'ordine dei giornalisti, ma anche della cerchia delle "persone credibili", relegato a pura feccia.

La lezione finale è che chi inganna consapevolmente merita questa fine. Ma si sa, nei film, anche quelli ispirati a fatti realmente accaduti, non tutto rispecchia per forza la realtà. Insomma, lo vorrei anch'io un sistema (e non solo giornalistico) nel quale chi si inventa le notizie viene trattato di merda, ma poi come faremmo a inventare cose come questa: "L'amore vince sull'odio" e a farle bere a più della metà della popolazione? [riferimento datato, ma comunque apprezzatissimo da me stesso, ndr]



3 - Dogville (giugno 2010)



Un autentico genio del male (Von Trier, che qui inizia un'ideale trilogia sulla società americana e non solo) che orchestra un'incredibile pièce cinematografica. Attraverso quello che lo stesso regista definisce "cinema fusionale" (una fusione, appunto, di cinema, letteratura e teatro) lo spettatore viene catapultato fra le stradine desolate di un paese remoto e insignificante, un paese che nessuno conosce e vuole conoscere, un paese che nessuno si è mai nemmeno degnato di segnare sulla mappa, tanto che diventa anche il miglior posto in cui una presunta e misteriosamente ingenua ragazza (un 10 pieno a Nicole Kidman) potrebbe "tranquillamente" nascondersi per non essere trovata. Dogville, cioè "città di cani", con un doppiosenso che sarà sempre più chiaro avvicinandosi all'impareggiabile finale.

Uno spunto brillante da cui parte una scia di reazioni a catena che hanno come preciso e illuminato obiettivo quello di mostrarci cosa succede a un manipolo di persone isolate da tutti ed (auto)emarginate dalla società civile se si dà loro l'opportunità di pretendere qualcosa di inaspettato.

Con un budget ridicolo (rispetto anche solo a un Avatar, per esempio), una scenografia pressoché inesistente (il tutto ha luogo solo ed esclusivamente su un palcoscenico teatrale, con tanto di case e strade segnate col gesso e attori che vi vivacchiano sopra) e un cast di attori tutto sommato più incline a recitare in pellicole indipendenti o comunque lontane dagli astri splendenti di Hollywood (a parte la citata Kidman), Von Trier insegna che cos'è davvero il cinema, al di là di tutto quanto; il senso sta tutto in una storia che viene narrata in parte da una voce fuori campo e in parte da attori ai quali si permette piena autonomia recitativa e dei quali risaltano, a dimostrazione, le singole performances, in una coralità radiosa e armonica.

Un immane lavoro dal punto di vista interpretativo, che prova quanto sia non necessario spendere montagne di soldi per un film quando si hanno due cose: le idee e le persone in grado di metterle in pratica. Un capolavoro.



4 - Grace is gone (giugno 2010)



Una storia drammatica che racconta di un ex-militare (John Cusack, sempre sopra le righe, in senso positivo), ma soprattutto di un uomo che perde la moglie in guerra (anche lei soldato) e fatica ad accettare la cosa in quanto ossessionato dal conflitto ideologico provocato dalla decisione del soldato (che era anche il suo) di offrire la sua vita al proprio paese ben sapendo cosa si lascia indietro per questo.

Lui, che è testardo e si rifiuta di accettare la morale anti-militarista (non era meglio che non fosse andata?) fino all'ultimo, quando esplode l'ultimo frammento di resistenza nei confronti dell'insensatezza della guerra, ora che Grace se n'è andata. Ma soprattutto lui ora che è riuscito a essere sincero con le figlie e con se stesso.

Un buon film che spende ben poche chiacchiere inutili su un tema visitato e rivisitato fino alla follia e nella cui trappola retorica è quindi particolarmente facile cadere se non si è precisi e attenti; questo film lo è, ed evita di fare dell'argomento il fondamento del film.

Non si tratta di guerra, né di militarismo o di antimilitarismo, si tratta solo di una storia di accettazione, di un travaglio che comincia ad alleggerirsi solo con la consapevolezza dolorosa e di un solenne rifiuto di abbandonarsi all'autocommiserazione. Un vero e proprio inno all'agire, per non rimanere incastrati. Da vedere.



5 - L'uomo senza sonno (El Maquinista) (giugno 2010)



Il macchinista è qui un uomo eroso, sia emotivamente che fisicamente (il protagonista - C. Bale - è ridotto a una specie di massa cadaverica), dal rimorso e dalla paranoia. Trevor Reznik deve scoprire chi è, capire cosa lo ha ridotto così, un patetico involucro umano che si trascina lungo la routine quotidiana e che continua a confinarlo nella sua realtà onirica ed immaginata.

"Chi sei?" chiede a se stesso attraverso un post-it (che richiama a Memento). E soprattutto cos'è che lo tormenta al punto da impedirgli il sonno da oltre un anno? Il ritmo non è dei più intensi e ci sono alcuni momenti di pausa forse fisiologica, anche per permettere al pubblico di raccogliere i pezzi e comporre il puzzle, ma, nonostante una trama tutt'altro che irresistibile e un mistero più di facciata che sostanziale, si può dire che si tratta di un buon thriller come fattura stilistica e va sottolineato lo spessore artistico di un ottimo Bale nel ruolo che ha di "alieno" nel mondo che lo circonda.

L'atmosfera causa ed è a sua volta causata dall'enigma correndo lungo un sottile filo finché il finale non si limita a reciderlo, mostrandoci il mondo per quello che davvero è, finché l'unica speranza per viverci diventa l'espiazione, rappresentata metaforicamente dalla luce alla fine del tunnel nella scena finale.



6 - The Hard Candy (giugno 2010)



Hayley ha solo quattordici anni quando chattando (casualmente?) su Internet, viene attirata nella tela ordita da Jeff, fotografo professionista trentenne con qualche scheletro nell'armadio. O forse no. I due si incontrano dopo essersi dati appuntamento, e finiscono a casa di Jeff che pensa di aver trovato ancora una volta terreno fertile per la propria perversione; purtroppo per lui, si sbaglia di grosso, e dal momento in cui se ne rende conto viene risucchiato in un delirante vortice di paura e di tensione che sembrerà non aver mai fine, un finale debilitante e sconcertante lo condurrà alla fine di tutto quanto.

Si tratta certamente di un film rivelazione, visti gli apparentemente pochi input e i tanti riscontri (positivi o negativi, ma comunque riscontri di qualche genere) che vanno soppesati. Premesso che occorre conferire tutto il merito possibile a chi ha avuto la materia grigia di realizzare un film così (per l'idea, per lo sviluppo, per la sceneggiatura, per il cast perfettamente azzeccato, per la fotografia e per la scelta delle inquadrature), non si può fare a meno di pensare che si sia volutamente esagerato dalla parte opposta, forse incoraggiando un sentimento troppo forte da poter reprimere (ma questo è comunque vero da entrambe le parti ed è bene ricordarlo) quale quello della vendetta più sadica e barbara.

Quello che salta agli occhi è comunque l'assoluta mancanza di morale della protagonista interpretata dalla straordinaria Ellen Page, che finisce per annullare quasi del tutto il coinvolgimento esaltato dello spettatore (o almeno di quello presumibilmente non affetto da palesi psicosi) nelle sue gesta. Per quanto sia sbagliato quello che l'antagonista (grazie ad un abile trucco narrativo) fa, cerca di fare, e fino ad un certo punto non si pente di aver fatto, è almeno altrettanto scorretto moralmente quello che subisce, finendo per avallare così una populista e forcaiola "giustizia" fai-da-te.

E, a parte questo, la mancanza di certezze che caratterizza tutto quanto il film (da ottimo thriller, qual è) non autorizza a parteggiare per Hayley, a meno di ragioni che forse non si riescono a condividere, finendo con lo spingere lo spettatore dalla parte opposta.

Discutibile il messaggio, ma perfetto in tutto il resto, così come resta a suo favore il fatto che non manca la materia prima di ogni thriller degno di tale nomea: quel tipo di suspence che ti rende impossibile distrarti, lasciandoti alla fine la fastidiosa sensazione di esserti appena svegliato da un incubo che nessuno può spiegarti.



7 - Bastardi senza gloria (settembre 2010)



Tarantino torna a fare il regista a un paio d'anni da quel mitico film che si era rivelato Grindhouse, tanto umile quanto straordinariamente ben riuscito nel suo obiettivo: il semplice e puro intrattenimento.
Quando si annunciò l'uscita di Inglorious Basterds devo ammettere che ero piuttosto scettico riguardo al risultato finale; non ero sicuro di come l'austerità e la tensione emotiva che un film contestualizzato in un periodo storico tanto amaro implicava potesse conciliarsi con il cinema senza freni e genuinamente spensierato di un vero cultore della settima arte. Immaginavo che ne sarebbe uscita una sorta di parodia, una pellicola che avrebbe immortalato e caricaturato i grandi gerarchi nazisti, umanizzandoli allo stesso tempo. 

Tarantino mette in scena quella che è una vera e propria distopia cinematografica, con tutta la serietà che questo richiede, ma che allo stesso tempo si libera con forza da tutti i limiti e pregiudizi del genere, arrivando a coinvolgere lo spettatore perché è più vicino emotivamente a lui che non per la rigorosa cura dei dettagli. Così, si parla di tragedia e morte, ma anche di salvezza; si descrive la ferocia come un'arma che ha due facce (e in maniera smaccatamente manicheista, proprio a sottolineare la presa di posizione rispetto anche alle aspettative dello spettatore).

Si arriva alla vendetta lungo un percorso costellato da molto tempo e molta attesa, cioè come un processo al quale fanno da genesi antefatti personali e a doppio-filo (sia la figura di Shosanna che quella del commando speciale del tenente Aldo Raine sono una risposta al dolore inflitto dai tedeschi). Vicende che si intrecceranno fino a sancire l'epilogo sanguinoso e tanto auspicato, riscrivendo in modo geniale e fantasioso il finale.
 
In tutto questo, c'è anche una grande dose di tecnica registica non indifferente... idee, sceneggiatura, dialoghi, ogni cosa è al più completo servizio del film. E sbaglia chi pensa a Tarantino come uno che porta solo sul set storie divertenti e leggere, egli è prima di tutto un enorme conoscitore della materia, e la esplora come solo un appassionato, un vero amante farebbe, prima ancora che come "uno del settore".
Solidarizza con lo spettatore non perché è paraculo ma perché si considera uno spettatore a sua volta, cosicché non si ha mai l'occasione di rimproverargli quel distacco glaciale che sembrerebbe i grandi registi debbano avere per forza.
 
Ecco come si spiega che, anche quando cerca di fare cose meno facete del solito ma in forma ugualmente ironica e amena, riesca comunque a far sorridere anche quando lo spettatore non ne avrebbe molta voglia, cosa che spinge i suoi detrattori (per lo più gente priva di senso dell'umorismo) ad accusarlo di insulsaggine.



8 - The Hurt Locker (settembre 2010)



Iraq, un artificiere di nome William James si catapulta sul fronte, per dare il suo contributo. La paura pare non riguardarlo; ma ancor più nel profondo, sembra sia indifferente a quello che gli capita attorno, perché da classico tipo ossessivo non riesce a vedere altro che ciò che lo tormenta, lo attira e lo spinge a fare quello che fa. Si trova davanti mine antiuomo, ordigni da disinnescare, cariche di C4: è la sua specialità, il suo dono e il suo cruccio. Non può farne a meno e per lui è quasi una droga. La moglie lo attende fedelmente a casa, senza chiedere di più di questo. Ma William James è anche un uomo che ha bisogno di conservare i propri ricordi (la scatola contenente svariate cianfrusaglie, le foto della famiglia) il più lontano possibile, in modo che non debbano avere a che fare con la desolazione del deserto asiatico.
 

Emblematico è il rapporto coi bambini che incontra sul luogo, che lo coinvolge umanamente come niente altro, quasi la loro vita dipendesse completamente da quello che fa ogni giorno.
The Hurt Locker è un film vero, nel senso letterale, perché trae spunto dai dettagli giornalistici di un reporter che ha vissuto l'esperienza iraquena in prima persona e perché racconta una storia (o meglio, una serie di vicende) attraverso gli occhi dei protagonisti senza dare rilievi troppo marcati e senza strafare.
 

Il piglio è severamente documentaristico, le varie scene sono montate in modo volutamente lento e potente, incentrate su un climax di suspence che ricalca la realistica tensione delle missioni.
Gli stacchi sono lenti, quasi a invitare lo spettatore a perdersi nel brado ed arido paesaggio desertico. I rimandi visivi sono tanti, e alcune scene (su tutte quella del cecchino nascosto nella cascina) ricordano incredibilmente capolavori autentici del genere quali Full Metal Jacket , anche se senza sensazionalismi: tutto esclusivamente a favore della cronaca.
 

Clamorosamente vincitore del più grande riconoscimento dell'Academy (nel quale superò lo strafavorito Avatar), è un film rivelazione, forse la maggiore dell'anno, non tanto per le cose che dice, quanto per il modo in cui le dice. E' un film che non entusiasma per il ritmo, ma fa riflettere e molto. Di questi tempi, è cosa rara.



9 - Avatar (settembre 2010)



Era il film più atteso dell'anno, quattro anni fra produzione e post-produzione, mischiando incredibili quantità (e qualità) di mezzi tecnologici a disposizione oggi grazie alla computer grafica e tutto il resto. Ingentissimi capitali sono stati elargiti all'espertissimo Cameron (Titanic, Abyss) per assemblare un moderno Kolossal, a tutti gli effetti: con tanto di storia d'amore (classicamente sbandierata in film di tale portata) sottesa.
Ad una prima visione, si capisce perché si siano spese così tante parole su questo film. Sarà stato anche difficile e penosamente lungo da pensare, da mettere in scena e da girare, ma una sola occhiata alle foreste di Pandora, alla visione sopraelevata fantasticamente costruita nella grafica in soggettiva durante i voli dei Na'Vi a bordo dei rispettivi Ikran (le creature alate da domare per divenire cacciatori esperti) o ancora - e forse soprattutto - all'aspetto così ben dettagliato ed esteticamente appagante dei protagonisti della storia (la popolazione Na'Vi), una sola occhiata a tutto questo e tutto ciò che si era visto al cinema precedentemente scompare, lasciando spazio ad un universo nuovo, da esplorare quasi in simbiosi con Jake Sully, l'Avatar esploratore incaricato di studiare usi e costumi della popolazione autoctona in modo da impossessarsi delle fonti energetiche diventate imprescindibili per il pianeta Terra.
 

Così si cerca un nuovo pianeta da cui attingere risorse senza rispettarne gli equilibri, alla maniera tutta tipica dell'uomo, ma Jake riesce a distanziarsi dal genere a cui appartiene e ad avvicinarsi a quello Na'Vi quel tanto che basta da comprendere la follia di questo piano e si ribellerà.
Avatar è diventato il film che ha incassato di più nella storia del cinema (anche se per essere oggettivi bisognerebbe considerare forse come parametro il numero dei biglietti venduti al botteghino), cementandosi come capostipite di un cinema attuale in profonda discesa e soggetto a notevoli cambiamenti in questi ultimi anni, in particolare a livello visivo e grafico.
 

E' impossibile parlare di questo film prescindendo da ciò che lo caratterizza maggiormente, sarebbe a dire in poche parole: 'Quello che si vede e che si arriva a percepire'.
Tecnicamente è un capolavoro, nulla da eccepire. Non a caso, gli esperti in materia gli hanno riconosciuto quello che era dovuto: fotografia, scenografia, effetti speciali. Ma fare un film non significa solamente "realizzarlo" in modo che stupisca, deve anche essere in grado di coinvolgerti, e quando finisce per coinvolgere un numero di persone simile a livello planetario può essere indice di una sola cosa, che ha però due visioni completamente opposte.
Può essere che si tratti di coraggio o audacia nel fare parallelismi con la politica guerrafondaia in Iraq o nel mettere tutto il proprio orgoglio narrativo nelle mani di un meraviglioso luogo incontaminato dalla barbara civiltà umana (Pandora) criticando implicitamente l'uso che l'uomo fa del proprio habitat anche nella realtà.
Oppure sono entrambe questioni spinose tutte talmente vere, tutte così sentite dalla gente da rendere superfluo rimarcarle con questo vigore fino a sfociare nel "paraculo" (o certamente nel "calcolatore e populista").
Due facce della stessa medaglia che è da sola il supporto fondamentale di questo film: è la sua ideologia, la sua filosofia di base quella su cui si costruisce il suo interesse, ed è grazie soprattutto alla semplicità e all'immediatezza della storia (e delle sottotrame fondamentali come la storia d'amore fra Jake e Neytiri) che si riscontra il successo che ha avuto, fondamentale per avere ritorni finanziari all'altezza degli investimenti cospicui.
 

Tutto sommato il giudizio è strapositivo, perché al di là di quello che il film può voler comunicare o lo spettatore decidere di credere (l'ambivalenza di cui sopra) questo è uno di quei film che finalmente dopo tanti anni emerge da un deserto piuttosto desolante e che si candida seriamente ad essere il film che rappresenterà il passato decennio.
Non si può restare insensibili a tutto ciò, ma indipendentemente da questo è esaltante la prospettiva di un viaggio a Pandora: spalanca le percezioni della mente e apre molte porte di cui la fantasia prima non era consapevole. E forse è questa la vera missione del cinema moderno. Un elogio sperticato a chi ci ha creduto e a chi decide di credere.


10 - Up (settembre 2010)



Si chiama "Up" il nuovo gioiellino di casa Pixar. Fare da seguito, più che degnamente, ai grandi successi precedenti (su tutti Ratatouille e Wall-E, acclamati da critica e pubblico) non era impresa facile, così come non è semplice ogni volta riuscire ad esigere l'attenzione del grande pubblico, ma Up va oltre queste premesse: spodesta letteralmente i grandi capolavori d'animazione di sempre, facendosi largo anche in quella speciale èlite che è l'Academy.
 

Per la seconda volta nella storia della cerimonia, un lungometraggio animato (anche se ormai si tratta più di computer che non di disegni veri e propri) entra nella categoria dei candidati al premio più ambito come "miglior film", dopo La bella e la bestia (1992).
Già, dati questi piccoli dettagli e la magniloquenza della sua presentazione si può intuire quanti strascichi abbia lasciato dietro di sé, e i motivi sono lampanti. E' sicuramente uno dei più ispirati della casa cinematografica californiana, riuscendo ad unire una trama convincente ed appassionante, il ritmo incalzante tipico delle avventure disneyane e ad un tempo anche un significato più profondo alla pellicola. Unisce bambini (divertimento) e adulti (riflessione, ma anche spensieratezza) ed immortala il proprio fascino in alcune scene piuttosto significative, non solo nell'ambito del genere, ma del cinema tutto.
Per citarne una, non si può fare a meno di ricordare i dieci minuti circa in cui viene ripercorsa la vita intera del protagonista (Carl) e della moglie (Ellie): si conoscono da bambini, avendo in comune lo stesso sogno, quello di esplorare in lungo e in largo come il loro eroe, Charles Muntz.
 

Da quel momento in poi, e attraverso tutte le fasi della vita (da infanzia ad adolescenza, da età adulta fino a quella senile), l'unico desiderio intramontabile è quello dell'avventura, non concepita nel mondo terreno.
L'occasione si presenterà soltanto quando Ellie morirà, lasciandolo solo. Invece di soffocare nel grigiore dell'ambiente circostante (dove un tempo c'erano alberi e piante ora ci sono ditte di costruzioni edilizie) decide così di partire per altrove, lasciandosi dietro anche le delusioni.
Ma sarà solamente grazie alla compagnia (inattesa) del Giovane Esploratore Russell che riuscirà finalmente a recuperare la sua infanzia perduta e a riaccendere dentro di sé il vero culto dell'avventura e del viaggio: su, sempre più su, grazie alla sua fervida immaginazione e ad un manipolo di palloncini che lo trasportano attraverso i cieli fino alle Cascate Paradiso, passando attraverso una serie di imprevisti, ostacoli e deviazioni fuori programma, Carl riuscirà finalmente a ricongiungersi spiritualmente con Ellie e a dare di nuovo un senso alla sua vita.
 

Pieno zeppo di citazioni ovunque (in sintonia con le linee guida della casa madre) e ritratto di un tipo di film piuttosto variegato e rapsodico, Up diventa l'icona animata di qualcosa di diverso dal solito, che esce dagli schemi e traccia contenuti più importanti per il genere di cui fa parte.
Per larghi tratti, questo film è dedicato più agli adulti che non ai bambini, e forse per qualcuno è un difetto, ma in generale non si può che esaltare l'opera di chi, pur non abbandonando i soliti stilemi e cliché legati al target principale, riesce ad effondere un sincero affetto anche a certe tematiche spesso indigeste, se non le si sa affrontare come si deve.



11 - A serious man (settembre 2010)



Larry Gopnik è professore di fisica: "scaricato" dalla moglie (che vorrebbe divorziare e contrarre nuovo matrimonio), derubato dalla figlia cleptomane ed egocentrica, impensierito dai problemi del fratello indomito e indebitato giocatore d'azzardo con tendenza alla dipendenza, vessato dal vicino che nel tagliare il proprio lato di erba invade la sua proprietà, attratto da una misteriosa vicina, corrotto (ma senza usare questo esplicito senso, è ovvio) da uno studente - e poi dal padre, con mezzi molto più persuasivi - del suo corso che vuole riscattarsi da un voto insufficiente, preoccupato da alcune analisi che fa in cura da un medico e non proprio inorgoglito dal figlio che fuma ganja e si isola dalle lezioni ascoltando in cuffia i Jefferson Airplane.
 

Per meglio comprendere ciò che gli accade chiede il consiglio di tre distinti rabbini. Il tutto fa da seguito ad un prologo che ritrae una parabola ebraica, quella di un dybbuk (uno spirito maligno in grado di possedere gli esseri viventi, secondo la suddetta tradizione, nonché secondo wikipedia); parabola che poi definisce il senso del film, o presunto tale. Non è molto ben chiaro il significato allegorico, all'interno del dedalo di vicende e situazioni paradossali costruito dai pur sempre geniali fratelli Coen.
 

Il protagonista però è, come da consuetudine, spaesato, allo sbando dopo tutti gli accadimenti disastrosi e sorprendenti che si susseguono e alla mercé degli eventi, che sfuggono totalmente al suo controllo: in parte perché la vita ci viene descritta come una faccenda troppo grande di fronte ad una vita così miserabile e trascurabile e in parte perché l'uomo a cui questa vita appartiene non è affatto interessato a farci granché.
Anzi, si muove piuttosto a suo agio in questo grande circo di mediocrità che è la sua vita, totalmente indifferente anche solo ai semplici concetti di "meglio" o di "peggio". Egli vive e tanto gli basta, rispondendo al più classico fra i cliché a cui ci hanno abituato i due cineasti.
 

La tensione emotiva si propaga lungo tutto il film (accentuando qualche momento di noia di troppo, onestamente) fino a spandere tutta la sua immane forza nel finale, fra un'informazione potenzialmente letale da conoscere e un uragano che si fa avvistare minacciosamente all'orizzonte, metaforicamente collegato alla fine di tutto. Di sicuro a quella del film.
 

Un film imbastito secondo i canoni soliti dei Coen: l'ironia sprezzante, la satira, i risvolti umani che si collegano a versi di testi religiosi piuttosto che a saggi letterari o a versi poetici, il folle (follia fortissimamente razionale) citazionismo che si tinge di un significato più ampio e forse inarrivabile, esemplare nel rabbino che decanta i versi iniziali di "Somebody to love" dei Jefferson Airplane, a colloquio con Danny, il figlio di Gopnik, a seguito della sua iniziazione ebraica (il Bar Mitzvah).
Nonostante sia da premiare l'ennesimo tentativo di raccontarci qualcosa di nuovo in un modo mai banale, questo film non convince del tutto però. A partire dall'uso della forma (dall'yiddish usato nel prologo, fino alle usanze e quindi ai significati ebraici tutti piuttosto criptici per un estraneo), fino allo sviluppo della storia: si ha come la sensazione di essere all'interno di un mondo straniante, che non concede nulla alla logica (che in un film può essere un'arma a doppio taglio, e qui non è certo positivo...), e con ampie parentesi lungo la storia che intorpidiscono piuttosto che invogliare a capirci qualcosa.
 

Al cospetto di "l'uomo che non c'era" o "Fargo", è a livelli bassissimi. Ma preso così, individualmente, rimane comunque un film da vedere, cercare di interpretare e da cui magari ricavare qualche sorta di morale o convincimento filosofico. Io non ci sono riuscito, ma magari ad altri andrà meglio.
Due candidature (sceneggiatura originale e film), giustamente rimaste tali. Nel confronto a distanza, "The Hurt Locker" meritava di più.



12 - Tra le nuvole (settembre 2010)



Ryan Bingham è un "tagliatore di teste" aziendale, uno spietato e capacissimo esemplare di una categoria intera, che si gloria nel subentrare ai grandi dirigenti ("senza palle") delle compagnie di tutta l'America nel processo di comunicazione del licenziamento ("congedamento") a lavoratori probi e fedeli, che per lunghi anni si sono seduti sulle loro poltrone lavorative.
Lui li smussa, li lavora ai fianchi in silenzio, gli offre prospettive speranzose proprio nel momento esatto in cui l'intero mondo crolla loro addosso: è un genio, venerato anche dal proprio capo, che infatti lo manda nelle missioni più difficili.
 

E' in volo per più di 320 giorni l'anno, ore e ore al giorno, da anni. Ha un obiettivo in mente e conta di raggiungerlo, ma si schernisce nel parlarne; è misurabile in miglia aeree percorse: 10 milioni. E' tutto ciò che gli interessa, della vita. La spensieratezza, il privarsi di qualsivoglia impegno, il quieto vivere modellato sul vivere "alla giornata", sul carpe diem.
Vola per intere giornate tra le nuvole (o meglio "lassù, nell'aria"), sorvolando ogni genere di problema e ogni rapporto personale, indifferente rispetto alle questioni della gente comune, anticonformista nella mente ("è la mia filosofia") e quindi negli atteggiamenti.
 

Ogni relazione, ogni pressione, ogni incitamento ad emulare gli altri è un peso enorme, di cui svuotare lo zaino, sia letterale che metaforico (la scena delle conferenze motivazionali nelle quali insegna alla gente come vivere senza stressarsi).
Vuole uno zaino vuoto, ma il motivo non è così superficiale come può apparire inizialmente, e si scoprirà lungo l'andare del film, e con una frase su tutte: "probabilmente con lo zaino vuoto, avrei capito meglio cosa metterci dentro".
Fondamentalmente una richiesta di tempo per capire meglio cosa è importante, non una posizione snobista.
Due persone provano a capirlo (e a farcelo capire): la ragazza arrivista collega di Bingham, già con tutti i numeri per sfondare ma con la pretesa di conoscere già abbastanza ciò che in realtà rivela tutta la sua inesperienza (con radici più profonde) a cui farà da tutor e da guida e Alex (Vera Farmiga), anche lei sempre in volo, con cui inizierà una sorta di intesa-fraintesa. Il tutto con in sottofondo l'attesa per il matrimonio della sorella, che scatena il massimo contrasto fra stabilità- tradizione e dinamismo-cambiamento.
 

Questo film di Reitman è, ancora una volta se mi è permesso dirlo, a dir poco geniale. Dopo "Thank you for smoking", assistiamo nuovamente ad una commedia satirica (dopo il breve intermezzo del mitico "Juno") a tinte fortemente politiche. Le analogie sono evidenti.
Il protagonista precedente era il capo responsabile di una lobby potentissima (quella del tabacco), qui invece cura gli interessi dei ricchi aziendalisti e dei massimi dirigenti di tutto il paese.
 

Anche qui è un tipo straordinariamente capace, tanto fenomenale dal punto di vista diplomatico quanto asciutto e cinico nei modi; le caratteristiche-base coincidono: entrambi tipi megalomaniaci, narcisisti, cultori di un'arte a sé (quasi per privilegiati) necessaria per continuare a coltivare il proprio stile di vita e, allo stesso modo, legati al loro lavoro in maniera indissolubile a tutto svantaggio della vita privata.
Sono tutti temi rivisitati, ma che non cessano di stupire positivamente. Soprattutto perché Reitman figlio (che qui è produttore assieme al leggendario padre Ivan -di cui ricordiamo "Ghostbusters"- ) li mescola ogni volta in maniera diversa, a seconda degli spunti suggeriti dal soggetto e che ogni volta riescono a dipingere e caratterizzare i personaggi principali in modo sublime, accendendo l'interesse del pubblico.
 

Al tutto fa poi da contorno una sceneggiatura semplice ma azzeccata, con alcune scene di impatto clamoroso (una su tutte: quella dei licenziamenti e dello studio della tecnica per attuarli, da leccarsi i baffi per la spietatezza e la carica satirica).
I dialoghi, soprattutto all'interno di esse, sono poi gustosi e scorrevoli, mai di intralcio e anzi sempre al servizio di una commedia davvero divertente, ben girata e al tempo stesso anche "socialmente utile", per le tematiche che affronta sicuramente senza esagerare, sensazionalizzare o umiliare banalmente l'idea che regge tutto il film (e non è un'impresa facilissima).
Musiche come sempre fenomenali, soprattutto verso l'epilogo (Elliott Smith, Graham Nash) e una piccola curiosità: il titolo prende spunto dall'omonimo titolo di una canzone (inserita nei titoli di coda) scritta e musicata da Kevin Renick, che l'ha incisa e passata via Internet a Reitman, dopo il suo licenziamento.
 

Su, tra le nuvole c'è ancora silenzio ma questo film ha fatto molto parlare (6 candidature, 0 oscar: ottimo segno). E Jason Reitman è uno dei registi più promettenti dell'intero panorama americano (consiglio ogni suo singolo film), personalmente. Promosso a pieni voti, sperando che sia l'ennesimo di una lunga serie.



13 - Ore 11:14 (ottobre 2010)



Middleton, alle fatidiche ore 11:14 accade qualcosa. Diversi personaggi sono coinvolti nella trama da vicende personali e vi confluiscono finalmente, svelando il finale compiuto, che viene ricostruito pezzo per pezzo proprio come un puzzle.

Jack è in auto, ubriaco, e aspetta una telefonata. Mark e i suoi amici sono su un furgoncino e mentre si comportano da idioti collegiali (secondo cliché) accade qualcosa che glielo farà rimpiangere. Duffy cerca di trovare soldi e rapina il negozio in cui lavora aiutato dalla collega-amica Buzzy.
Frank esce di casa e trova qualcosa che non gli piace, e cerca di sistemarlo.
Cheri è al centro di tutte queste dinamiche, avviluppata nel dedalo che se ne scatena.

Mi è capitato questo film sotto agli occhi quasi per caso, cercando spunti interessanti su internet. Non pensavo di passare 90 minuti così divertenti.

Il film ricorda un po', per ammissione generale, lo stile Tarantiniano del collage-frazionamento tipico della trama (vedi Pulp Fiction), ma senza comunque attingere a tutti i generi di cui il Maestro è sommo conoscitore (non a caso "Pulp"). Però di certo è gradevole, e non così scontato. Anche se certi stratagemmi possono far immediatamente pensare alla banalità stereotipata e perpetrata per fare scena.

Secondo me non è così. Aspetto smentite.

Per ora ribadisco: bel film d'intrattenimento, magari ce ne fossero di più.



14 - Alla scoperta di Charlie (ottobre 2010)



Si comincia con Charlie che esce dall'ospedale psichiatrico. Miranda è la figlia da lui lasciata definitivamente orfana, che si incaricherà di pensare a lui, sovvertendo l'ordine convenzionale.

Si intuisce fin da subito che questo è il leitmotiv scoppiettante che regge il film. Il padre vive in un mondo totalmente estraneo alla realtà, si libra al di sopra delle responsabilità inscenando l'equivoco ricorrente fra pazzia e immaturità. La figlia è invece stata costretta a crescere prima del tempo, a lasciare la scuola, a trovarsi un lavoro, a guadagnarsi il diritto di vivere nella propria casa e per finire a mantenere il padre, che non si rende conto (o forse non gli interessa?) di quello che lei fa per lui. Compreso riservargli il violoncello a cui era un tempo tanto affezionato, anche se ormai non lo suona più (da ex musicista jazz).

Il peggio arriva dopo, quando Charlie comincerà a farneticare di un fantomatico tesoro lasciato in eredità dai missionari spagnoli. Attraverso questa caccia al tesoro bambinesca, i due si riavvicineranno, per quanto il film sia troppo occupato a cercare di non metterlo mai in evidenza.

Altro film piacevole, devo ammetterlo. Due grandi attori (M. Douglas inedito e R.E. Wood) per un buon film diretto da Mike Cahill (neofita) e basato su una trama leggera e che scorre bene, anche agevolata dal soggetto complessivo.

Belle le immagini richiamate, le sensazioni evocate da una caccia al tesoro che forse è una metafora per indicare la caccia a qualcosa che riteniamo invisibile o inesistente finché non ci capita di trovarlo, e forse un invito a provare.

La citazione: "Volete sapere perché la California si chiama così? Non deriva da qualche esploratore o chissà quale Re: niente affatto. E' stata una persona a coniare questo nome. Uno scrittore. E' nato dalla sua fantasia. Nella Spagna del XVI secolo. Si era inventato questo posto immaginario dove c'erano oro e perle a volontà e dove donne bellissime cavalcavano animali selvaggi, indossando armature preziose. Lo chiamò "California".

Musiche deliziose, ad opera di David Robbins.



15 - Moon (ottobre 2010)



In un ipotetico futuro, il problema energetico è stato definitivamente risolto attingendo alle risorse situate sulla Luna, con una base insediata sulla sua superficie per coordinare i lavori, agli ordini della compagnia Lunar. L'unica componente umana è data da Sam Bell, il quale è supportato da una "macchina pensante", sulla falsariga di H.A.L. 9000.

Intanto gli episodi strani o inspiegabili si succedono, ingenerando confusione nello spettatore. Sappiamo che Sam è quasi al termine del suo contratto, e verrà presto rimpiazzato da un nuovo addetto, quando succede qualcosa che dall'alto non avevano previsto (con la collaborazione ingenua della macchina, GERTY), il che permette di introdurre il tema della clonazione e di scervellarsi nell'intento di capire cosa sta accadendo realmente.

Questo film fantascientifico D.O.C. è un po' una summa della sci-fi cinematografica autentica; numerose le citazioni (prese con un po' di mano larga, magari...), e soprattutto chiara quella preponderante di GERTY, che rifà il verso a 2001: Odissea nello spazio, un po' il riferimento cinefilo.

In un set ridotto al minimo, così come il budget, si ricrea alla perfezione un ambiente claustrofobico, asettico, dove i toni chiari risaltano, accentuandone la freddezza.

I dialoghi sono rari (per ovvi motivi) ma incisivi. Ottima la sceneggiatura, anche qui tutta tipicamente volta a svelare uno per uno i veli che celano l'evidenza delle cose.
Ottimi effetti di scena, per impatto visivo... a dimostrazione che se si è bravi si può fare di necessità virtù.

Ho rivisto anche un po' di Asimov nell'impianto narrativo della storia e anche per questo l'ho gradito notevolmente.

Finale forse un po' debole e scontato.
Consigliato a tutti i nostalgici di fantascienza, o a chi cerca una valida alternativa a film recenti particolarmente riusciti nel genere (a rischio estinzione), quali: Sunshine, District 9 o Gattaca.

16 - Wristcutters - A Love Story (novembre 2010)



Esiste un aldilà, ed esiste anche per i suicidi: uno tutto loro, dove le strade sono desolate, la ripetitività non lascia altro che una noia debilitante in persone ancor più infelici di quando erano in vita.
E' fatto divieto di sorridere, i colori si intravedono appena; il nulla e l'apatia interiori rispecchiano quello che si vede esteriormente, con le ore che si succedono senza senso e soluzione di continuità e la luce del dì lascia spazio alla notte povera, privata persino delle stelle.
Le vicende che coinvolgono i tre protagonisti principali (Zia, Erik e Mikal), conosciutisi via via lungo il cammino quasi per caso, daranno così vita ad un autentico Road Movie.
Concepito in un'atmosfera straniante e surreale, in cui fra incontri inattesi, luoghi dimenticati (o mai scoperti), vane (o ardue) speranze di ritrovare qualcuno o qualcosa e la necessità di districare questa matassa in favore di un minimo barlume di felicità, il film spiegherà se stesso nell'arco di un attimo lungo quanto un sogno... o un coma.
Film indipendente, regia firmata da Goran Dukic. Attori di nicchia, ma tutti valevoli, in particolare Patrick Fugit (Almost Famous, Spun, Saved!).
Musiche a tono con i ritmi del film, mai realmente in grado di infondere gioia o particolari emozioni o aggiungere alcunché al serafico "spleen" dei protagonisti.
Tom Waits compare nell'ennesimo cammeo in cui incarna uno spirito, un'idea, piuttosto che un'entità misteriosa, e contribuisce a permeare le immagini di un surrealismo grottesco e maniacale, senza tuttavia mai incidere più di tanto nei dialoghi, così come tutto il film che si affida più al simbolismo (buchi neri, ferite, cartelli, stranezze spacciate per miracoli) che non all'eloquenza di ciò che si narra.
Solo il finale svelerà del tutto le carte, non mancando di griffare con una piccola morale questa fiaba atipica.


17 - (500) giorni insieme - (500) days of Summer (novembre 2010)



L'idea era quella, non troppo originale, di ideare una commedia romantica avente a soggetto due protagonisti (Tom e Sole - Summer nella versione originale, da cui appunto il titolo in cui si innesca il doppio-senso) di una lunga e travagliata storia. I giorni sono appunto 500, e ci vengono proposti con continui flashback e repentini balzi in avanti rispetto a una storyline abbastanza caotica ma funzionale. Funzionale, perché lo scopo del film è quello di mostrarci le differenze nette fra l'inizio e la fine, i due poli da cui si ricostruisce pian piano tutto ciò che sta in mezzo, anche riguardo al vero significato delle cose.

Il tutto è inframezzato da stacchi musicali onnipresenti in stile videoclip cui obbedisce la cadenza delle scene, sottolineate da dialoghi concisi e spiazzanti e gag a go-go, di cui alcune esilaranti (vale la pena di ricordare quella in stile musical con tanto di ammiccamento a Harrison -Han Solo- Ford...).
Le metafore si sprecano, su una di esse è costruita l'intelaiatura della narrazione, tutta rigorosamente dal punto di vista di lui (Tom): è laureato in architettura ma fa un lavoro abbastanza avaro di soddisfazioni e di creatività, nel quale deve confezionare messaggi su biglietti d'auguri a tema; cosa che si ribalta proprio quando si rende conto dell'ipocrisia che implica la parola "felicità" (e anche di coloro che ritengono di saperla insegnare) e decide di lasciar perdere quella degli altri (con puerili biglietti che lui stesso non comprerebbe).

Su questo ed altri concetti lavora il regista (Marc Webb), sempre in linea con una certa anarchia stilistica: la commedia moderna viene ricucita con pezzi di nouvelle vague, di musical, di cinema d'essai, di videoclip musicali, sguazzando nelle citazioni e negli omaggi (Bergman e Nichols) e formando un pasticcio comunque tutto sommato digeribile.

Godibile nel complesso, trama semplice e attori che stanno al loro posto. Il regista infarcisce ogni singolo momento con musiche azzeccate per il genere; dialoghi a volte stucchevoli e banali come anche certe situations viste e straviste.

Classico film da intrattenimento che però non si allontana troppo da quell'Alta Fedeltà di Stephen Frears (parlo della trasposizione filmica, il romanzo resta di un altro livello) e questo alone di malinconia mi ha fatto divertire. Peccato però che quando cerchi di fare umorismo sulle situazioni che più ne avrebbero bisogno (cioè, da sempre, quelle drammatiche) cada in cliché scontati. Una sufficienza più che piena per un film costruito su una colonna sonora che sta alle sue immagini quanto il cinema muto stava a Charlie Chaplin.


18 - Domino (novembre 2010)



L'adrenalinica e drammatica vita di Domino Harvey, che divenne famosa come "cacciatrice di taglie" in Gran Bretagna. Nata da un padre attore famoso morto precocemente e una madre che trovatasi vedova la spedisce in un collegio con nient'altro che una valigia e il pesciolino rosso su cui aveva riposto tutto il suo affetto, lotta per far emergere la sua vera identità in una famiglia dell'alta borghesia americana.
Ritrovatasi con doti estetico-intellettive notevoli e nonostante l'ambiente facoltoso nel quale cresce, Domino (Keira Knightley) decide di darsi alla caccia dei criminali, entrando a far parte di un team composto anche da Ed (Mickey Rourke) e Choco (Edgar Ramirez).

Diretto da Tony Scott e co-prodotto assieme al fratello Ridley, il film si attesta su un mix di biografia e azione, da una parte raccontando la donna, la persona prima ancora della "professionista" e dall'altra affastellando le scene come in un mosaico, di cui la sequenza iniziale è solo il tassello cronologicamente conclusivo.
Come in un giallo, si ripercorre quindi tutta la narrazione a ritroso, arricchendola via via di digressioni, finché non sarà chiaro lo svolgimento di tutta la vicenda, che è anche l'oggetto di un interrogatorio che Domino - arrestata - subisce per conto di un'agente (Luci Liu) e che ha il compito di "riassumere" di volta in volta, in modo da rendere più nitida l'immagine che viene osservata attraverso la lente dello spettatore.

La storia è buona, anzi ottima, imbottita com'è di dettagli e svolte narrative improvvise e impreviste, riuscendo sicuramente nell'intento di coinvolgere chi segue, anche supportata da una sceneggiatura abbastanza "fashion": lo stile ricorda anche qui molto quello di Q. Tarantino (che non a caso l'ha nominato suo film preferito del 2005), ma con un ampio spettro di soluzioni sonore invasive e significative. Il sonoro, gli spezzoni musicali, la scelta delle loro combinazioni sono tra le cose più positive e azzeccate di tutto quanto il film, ed emergono proprio quando il racconto è "costretto" a ristagnare dagli eventi (che sia una sparatoria o una fuga).
Davvero, davvero notevole in questo senso la scena clou, con tanto di sparatorie, vetri infranti, sangue che schizza ovunque, rombi degli elicotteri che circondano l'edificio e tanto altro, mentre in sottofondo quasi stenta a sovrapporsi "Mama told me not to come" dei Three Dog Night nonostante l'intensità del pezzo. Davvero una goduria frenetica e caotica che non toglie nulla comunque alla serietà dello spartito.

Prova ampiamente superata, anche grazie a un cast di tutto rispetto (spicca fra gli altri anche un cammeo del 'guru' Christopher Walken) e ad una capacità registica non indifferente, capace di sublimare la drammaticità degli eventi con una dose massiccia di suspence che davvero non ne fa rimpiangere la visione.


19 - Charlie Bartlett (dicembre 2010)



Charlie Bartlett viene espulso da una scuola privata, gettandosi addosso una macchia non cancellabile nemmeno con il denaro (molto) della sua famiglia. Così è costretto ad iscriversi ad una pubblica.

E' un tipo sveglio, ha grandi potenzialità, una madre depressa che, stravolgendo il cliché, non lo opprime ma anzi lo tratta esattamente (ed esageratamente) come un adulto e un padre che non vede da molto tempo. Ha anche un insano e compulsivo bisogno di compiacere gli altri, bisogno che più che dovuto ad un "perché?" (non) risponde ad un "perché no?"
Si caccia spesso nei guai, non perché ami il rischio né per mancanza di intelligenza e tantomeno perché non gli piaccia la scuola. E' trascinato ogni volta verso il baratro dagli eventi che lui stesso mette in moto, ma con fini assolutamente onesti. Come quando si sottopone a sedute psichiatriche (di cui può sempre disporre grazie alle facoltà della famiglia) per "estorcere" consigli da rigirare ai compagni di scuola, rimasti inascoltati dai "grandi", che vengono poi indirizzati verso una o l'altra terapia farmacologica (Ritalin, Xanax, che riesce a procurarsi sempre per gli stessi motivi), o quando aiuta l'amico bullo-ma-in-fondo-con-un-cuore-di-panna a comprendere se stesso e a spingerlo verso la propria vocazione artistica.

In breve tempo, grazie ai suoi consigli che si rivelano (quasi) sempre congeniali, Charlie ottiene la stima e la popolarità che ha sempre desiderato, oltre all'affetto di Susan, la figlia del preside della scuola che frequenta.
Ma è proprio quando si troverà a capo di un'orda di ragazzi furiosi per la politica scolastica che capirà che in realtà a nessuno serve davvero qualcuno che dica loro cosa fare, perché in fondo tutti loro condividono gli stessi problemi, le stesse ansie e paure, tutti i giorni.
L'unica guida necessaria è la coscienza di se stessi, e l'uso del cervello. Capisce anche che nonostante sia cresciuto in fretta, la vita può e deve essere davvero ancora una questione di innocenza, di leggerezza e di alleggerimento del carico da portare lungo il percorso, magari condividendone il peso con tutti gli amici che riuscirà a trovare lungo la strada.

Buon film indipendente, con una rispettabilissima prova recitativa di Anton Yelchin, e con un cast che conta fra l'altro Robert Downey Jr. (il preside).
Impiega novanta minuti piacevoli raccontando una storia abbastanza semplice, dalla sceneggiatura ordinata e ben inquadrata nel genere, e al contempo affrontando tematiche difficili (la solitudine, l'emarginazione, la ricerca dell'approvazione altrui, il crescere senza una figura di riferimento) senza lanciarsi in voli pindarici nel tentativo di sostenere con fermezza una posizione in sé piuttosto banale, come l'essere "sempre se stessi", e senza volerne trarre una lezione generale; è soltanto una storia di un ragazzo atipico, eccentrico e anonimo allo stesso tempo, che ci mostra attraverso i suoi occhi (che sono anche i nostri) i pregi e i difetti del sentirsi diversi, e soprattutto quanto sia bello ammetterlo.

Musiche indie ad ampio spettro, con prevalenza di motivi originali sospesi a mezz'aria che fluttuano lungo il film con toni bassi onnipresenti e sfalsati.
Da segnalare anche due pezzi degli Eels.

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