martedì 27 gennaio 2015

Begin again


86 - Begin again (gennaio 2015)




Quasi dieci anni fa usciva Once, il film che, parlando di due musicisti con un sogno comune, aveva portato alla notorietà John Carney. Dopo tutto questo tempo, il regista irlandese torna sulla scena del delitto, verrebbe da dire, tante sono le analogie con il precedente film.

A cominciare dal tema musicale, onnipresente, che qui oltre a divenire metafora per la vita in generale, lo diventa anche in combinazione con le meccaniche del business musicale, delle case discografiche, e quel perenne e irrisolto dualismo fra le grandi produzioni che radono al suolo tutto quello che incontrano e le piccole etichette che tentano di venire a galla in tutta quella competizione.

Carney, ex bassista di un gruppo musicale di nicchia e autore indipendente, identifica chiaramente se stesso (e il suo cinema) con il protagonista del film, un Ruffalo che offre un ritratto sincero e convincente di un ormai stanco talent scout socio di una Major e, afflitto da mille problemi personali, desideroso di ritrovare se stesso e lo spirito libero che lo accompagnava un tempo.

Il Dan Mulligan di Ruffalo incontrerà la Greta di Keira Knightley, anche lei con un nebuloso passato; insieme ci re-introducono alle tematiche dei nuovi inizi e dell'abbandono delle nevrosi imposte da un sistema famelico per riabbracciare l'eccitazione puerile dei sogni romantici, come se il distacco dai propri fallimenti o supposti tali potesse rappresentarne lo spartiacque. Carney è molto intelligente e delicato nello stratificare il suo film, in realtà molto semplice e diretto nel messaggio, servendosi ancora una volta del contatto elegiaco fra due persone che si trovano nel posto sbagliato al momento giusto.

Una commedia orgogliosamente naïf, ben architettata e sorretta da efficaci interpretazioni che cerca di riportare al centro del discorso le sofferenze e i traumi di esistenze interrotte o spezzate annegandolo nella suggestione della poesia musicale che funge sì da facile richiamo emotivo ma che allo stesso tempo ha un significato e una funzione ben precisi nel proseguire il punto di vista del suo autore, cioè scrivere di come la musica cambia continuamente la vita delle persone per il semplice fatto che esiste.

Riportando le cose all'essenza della semplicità, e con piglio donchisciottesco, la musica diventa strumento risolutivo mentre le strade si trasformano in studi musicali ambulanti e le persone incontrate lungo di esse ne sono gli interpreti; l'avversione per il consumismo e la dittatura dei numeri all'interno di un panorama che non fa nulla per reinventarsi o sperimentare emerge con la stessa forza consapevole del valore della condivisione come necessità di base per raggiungere un'autenticità altrimenti falsata in partenza; una ricerca spontanea, naturale, fatta di intimità e raggiunta attraverso una catena di persone più che di soldi, di comunanza di idee più che di una vacua brama di successo che spersonalizza e distorce le prospettive.

Anche qui come in Once lo stile si fonde con il contenuto, Carney riporta quella stessa umiltà delle radici del concept nella direzione artistica di un cast abituato a pellicole di questo tipo, e che vi è quindi particolarmente adatto, ma che oltre a questo si cala perfettamente nello spirito partecipativo che sottende, dando grande spazio all'improvvisazione e ammorbidendo di molto il tono di un film che riesce ad essere dolce anche quando velatamente polemico, perché ispirato e forte delle proprie convinzioni.

Carney preferisce di gran lunga abbandonarsi alla grande nostalgia evocata dalla colonna sonora firmata da Gregg Alexander (e arricchita da Adam Levine) e alla bellezza che i suoi personaggi hanno sotto agli occhi ma che sfugge loro proprio perché distratti dalla momentanea infelicità, che non lanciare dardi infuocati contro la causa della stessa, e il risultato è un altro film che sa farsi apprezzare sia per quello che dice sia per come sa dirlo.


Scena scelta










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