venerdì 8 novembre 2019

Flashbacks: Vampyr (C. Th. Dreyer, 1932)




Dreyer è uno di quegli enormi maestri del Cinema Muto che ha fatto grande l'Europa dell'avanguardia, quella che poi sarebbe inevitabilmente confluita con le sue più grandi personalità (registi, attori, fotografi, scenografi) nella Hollywood che tutto poteva e tutto attirava verso di sé.

Altri scandinavi avevano in precedenza compiuto un percorso migratorio che li vide prestare la propria opera all’industria o cedere ai richiami a stelle e strisce, trovando lì successo, come Sjöstrom o Stiller, ma le cose andarono diversamente per il grande drammaturgo danese, caposcuola del cinema realista nordico, che solo quattro anni prima aveva talmente impressionato il giovane mondo cinematografico con il suo capolavoro "Il processo di Giovanna d'Arco" da guadagnarsi immenso rispetto a livello mondiale, e una grande chance per il suo progetto successivo, il secondo consecutivo girato in suolo francese, nel 1932, con le case di produzione europee nel caos provocato dall’introduzione delle nuove tecnologie del suono. "Vampyr", appunto.

Solo l'anno prima la Universal aveva dato il via alla sua saga dei "Mostri", inaugurando il ciclo proprio con il vampiro di Bram Stoker Dracula, diretto dal grande Tod Browning (film ricordabile per lo più solo per l'interpretazione di Lugosi e per il lavoro del grande direttore della fotografia espressionista Karl Freund - per il resto incline alle attese mediodimensionate di un pubblico che si faceva andare bene più o meno qualsiasi cosa), seguito a stretto giro di posta da Frankenstein.

Qui Dreyer sale invece di diversi gradini nelle pretese che rivolge al suo pubblico. Comincia con il prendere a soggetto il materiale ben più arduo da trasporre come quello di LeFanu e dà immediatamente un indirizzo estremamente astratto ed evanescente al suo film, non rinunciando mai a quella spietatezza che aveva condito l'impostazione stilistica di "Giovanna D'Arco" ma diluendolo piuttosto nelle inebrianti ed angoscianti atmosfere figlie di un felice mix di espressionismo e surrealismo in cui si muove il protagonista, atterrito in un'avventura quasi Kafkiana, sconcertante ed insondabile, che sembra non avere canali di comunicazione con la nostra realtà ma allo stesso tempo talmente urgente e misteriosa da richiedere una risoluzione.







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Gran parte del fascino della pellicola risiede nel tono minaccioso che sembra riempire ogni fotogramma già in apertura di film. Ogni inquadratura sembra studiata nel minimo dettaglio e giustapposta fino a creare come un momento di enfasi, di pieno e incomprensibile terrore per qualcosa che deve ancora mostrarsi. Tutto è sfocato, o avvolto nell’ombra, o nascosto alla nostra prospettiva visiva. Difficile parlare di un qualsiasi film horror senza passare da questo film, prima.


Sorprende quindi relativamente che il film, così audace e anticonvenzionale per l'epoca, quasi del tutto privato di un riscontro coerente, risultò in un tale flop commerciale; si racconta di tutto: proteste, gente che pretese il rimborso del biglietto, sommosse, eccetera. Il film fu proiettato per essere distribuito in più paesi e prevedeva originariamente tre lingue di doppiaggio (inglese, francese, tedesco), ma ovunque fu un disastro. Alla proiezione a Copenaghen, nella sua Danimarca, il regista neanche presenziò, fu colto da un esaurimento nervoso e questo rimase per molto tempo il suo ultimo film, peraltro a lungo rimaneggiato e lontano dalla versione oggi restaurata e più fedele alla sua visione, prima di fare ritorno a casa, dove avrebbe continuato la sua opera.





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Il simbolismo è usato con molta parsimonia, in questo film. Dreyer sembra non voler dare ovvi riferimenti visuali e lasciare lo spettatore nella condizione di dover decifrare o interpretare il significato di quello che sta guardando. La famosa immagine del teschio animato, che probabilmente deve aver esercitato una potente influenza almeno visiva sullo Psycho di Hitchcock, è una delle rare eccezioni. Similmente a quello che avviene nel Nosferatu di Murnau, il climax è costruito sull’onirismo inquietante dei frammenti visivi e sull’ambiguità della letteratura mitica che accompagna le didascalie e gli inserti fra di esse.


Fu anche il primo film sonoro di Dreyer, sebbene risenta ancora chiaramente degli sforzi dell’epoca di familiarizzare con i nuovi strumenti tecnologici e fosse di conseguenza ancora sotto l’influenza dei fortissimi legami con la tradizione del muto: le pochissime linee di dialogo e il montaggio lo dimostrano e richiamano proprio il Dreyer migliore, quello che non ha bisogno di parole perché fa parlare i suoi film tramite le immagini, le angolazioni distorte, la doppia esposizione, gli ingegnosi trucchi come la garza posta davanti all'obiettivo per confondere e togliere lucidità alla dimensione visiva del film.





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I temi dell’allucinazione sensoriale e dello sdoppiamento della personalità sono da sempre legati alle leggende vampiriche e sovrannaturali in generale, a partire dalla tradizione gotica. Esiste un mondo ulteriore che Dreyer accenna, ma non svela mai del tutto. Insieme al suo protagonista, ci lasciamo sedurre dai segni di questa impotenza, in un regno dove le ombre si staccano dai muri e diventano reali almeno quanto i vivi, fino al punto che, sempre dalla soggettiva del protagonista, non riusciamo più a distinguere cosa sia reale e cosa no, precipitando in un’inerzia ferale.


Vampyr è un film sicuramente singolare. La prima impressione che può generare, guardandolo con gli occhi di oggi, è quella di un film sinistro, stordente, meravigliosamente sfuggente, e che abbia forse potuto provocare nel pubblico di allora qualcosa di simile all'effetto che in tempi più recenti dobbiamo a film come Eraserhead o Shining: il paragone viaggia sottile lungo le luci e ombre del bianco e nero di un incubo che ha cittadinanza nel reale quanto nel regno dell'astrazione, in cui verosimiglianza e leggenda si contaminano a vicenda, e il loro sperduto protagonista è come trascinato dalle forze inerziali di un'ambientazione viva che lo trattiene a mezz'aria tenendolo a distanza, ma che vuole anche lasciarsi esplorare, conoscere, sfidare, dissacrare.






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I due momenti più iconici di tutto il film: la tumulazione prematura e la morte per soffocamento. Dreyer riempie il finale di una catarsi funesta che rivaleggia in asprezza soltanto con l’austerità de “Il Processo di Giovanna d’Arco”: i personaggi sono vittime del loro fragile stato mentale, portati a confondere bugie e verità, e il mondo non ha alcuna clemenza per loro. Una lezione che un adepto di Dreyer come Lars von Trier deve aver imparato fin troppo bene.


Un film da guardare al buio, di notte, rinserrati fra le pareti di una stanza il più stretta possibile, per godersi il finale con la giusta disposizione d’animo.




Immagini da Film-Grab.com

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