lunedì 20 gennaio 2020

J’ai perdu mon corps (I lost my body)

143 - J’ai perdu mon corps (gennaio 2020)





Naoufel vive una vita di solitudine ed emarginazione, sotto il peso del senso di fallimento dell’esistenza che conduce. Al verde, demotivato e umiliato nel lavoro che svolge, orfano dei genitori persi in un incidente e sempre gravato da un intimo senso di distacco nei confronti del mondo, osserva l’inerzia della vita che prende il sopravvento su di lui, mentre una surreale sequenza di montaggio alternato mostra una misteriosa mano mozzata che cerca di sfuggire alle insidie che si presentano sul suo cammino e si fa largo alla ricerca del resto del proprio corpo.

Clapin, all’esordio come regista, coadiuvato dal più navigato Guillaume Laurent (la penna dietro ai grandi film di Jeunet e Caro) sceglie una rappresentazione multiprospettica per il suo film, alternando le due vicende (e i punti di interesse) principali così come anche intersecando i flashback del passato con il volgere della storia del presente, arrivando infine a una convergenza, quasi una diminuzione di entropia.

Questa iniziale scomposizione dell’immagine, questo decoupage, serve a Clapin per dare coerenza e ritmo al suo concept, mandando la storia del suo protagonista all’unisono con la vita del suo film, insieme così personale e così universale da fluttuare, quasi, su un senso cosmico (e quindi disordinato) degli eventi, fornendo al contempo una chiave di interpretazione che si presta alla società e al momento attuale, con tutte le sue conflittualità, le sue difficoltà di integrazione.

In una città che non viene mai nominata, ma che potrebbe essere Parigi, nella quale le vite ordinarie, monotone, quasi insignificanti che ne percorrono la quotidianità sfrecciano verso un qualche orizzonte sconosciuto, il film si sofferma sui dettagli, ci parla delle interconnessioni invisibili che ci legano a quello che ci circonda fino a fare di noi quello che siamo.

Nelle ansie da frammentarietà che fanno da comune sfondo, fisico ed emotivo, al film, intrinsecamente legate alla sua premessa, si ritrova come un disegno programmatico, un sentimento panico: sia nell’individualità che nella società, siamo il risultato della fusione di più elementi che servono un fine ultimo. Quando tali componenti non agiscono in modo organico, quando cioè un corpo è smembrato (seguendo la sineddoche del film) o semplicemente una fase della nostra vita non è allineata con una qualche fase biologica precedente (il lutto, la perdita di sé, i sensi di colpa derivati dall’infanzia) si ha come risultato un equilibrio incerto, che può essere modificato solo venendo a patti con questa consapevolezza nel tentativo di riafferrare la propria identità.

Così Gabrielle, che diventa l’elemento chiave di una storia a cui prima della sua comparsa mancavano patologicamente l’affetto, l’amicizia, un comune sentire, forse una solitudine condivisa, è la bibliotecaria che presta libri, e dunque sapere, consapevolezza, frammenti di identità; che offre una desolazione ancora diversa e in effetti irrisolta; che rappresenta il punto di congiunzione altrimenti improbabile nella discontinuità narrativa del film.
Sono i suoi occhi, ma più che altro la sua capacità di ascoltare, a testimoniare del significato ultimo della storia.

Un film che pur essendo quasi atemporale (poiché privo di sostanziali riferimenti culturali, ad avvalorare il suo valore concettuale) chiama in causa direttamente le tematiche della sua epoca, dall’alienazione del singolo ridotto all’isolamento, al degrado delle relazioni umane, fino al rapporto materiale tra l’uomo e il suo corpo ereditato dall’epoca del cyberpunk (che chiaramente ispira anche l’eterea colonna sonora) e filtrato oggi attraverso la lente della virtualità digitale.

Clapin si destreggia bene, mostrando di essere sensibile e attento alla natura umana quanto lo è ad astrarre in senso sovrannaturale o persino surrealista permettendo alle immagini del suo film una poesia, un senso di leggerezza metafisica amplificato dal vuoto esistenziale che ritrae, dalla dilatazione dei tempi del racconto, dallo stato contemplativo in cui ci si abbandona lungo quest’avventura nevrotica i cui disegni fortemente improntati al realismo, anche crudo, esaltano una doppia dimensione di inconscio e di realtà attraverso i cui binari è necessario, prima o poi, compiere qualcosa di veramente straordinario per poter rimanere aggrappati a se stessi, per potersi ritrovare all’interno della propria storia.



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