lunedì 27 gennaio 2020

Road to Oscar 2020





Nell’attesa che mi separa dal recensire, come di consueto ogni anno, i 9 miglior film candidati agli Oscar, qualche considerazione sommaria sui film che affollano le altre categorie, più o meno sottovalutati, più o meno discussi.

Una categoria che come sempre è sotto osservazione è quella recitativa: delle 20 candidature agli Oscar di quest’anno, sono 9 quelle distribuite a film che non sono poi stati giudicati all’altezza della miglior categoria.
Film che, in un modo o nell’altro, si sono segnalati più per la recitazione che altro includono ad esempio “The Two Popes”, dove l’ennesima grande prova di Anthony Hopkins nel ruolo di Ratzinger è sicuramente la favorita per la vittoria; il suo personaggio strappa quasi tanto screentime quanto quello del protagonista al suo fianco, ma la storia prevede che il suo personaggio sia strumentale al racconto dell’altro ed è in questo che Hopkins mostra ancora una volta la sua maestria, nel prendersi i riflettori in sordina, facendo di un film pensato come un biopic quasi un duello di battute, di sguardi e di carriere a confronto; insieme a Pryce formano una coppia magnifica, capace di tenere su la storia perfino oltre le probabili cadute di una sceneggiatura tecnicamente eccelsa quanto retorica e populista (nonché scopertamente reticente), ma il film non è soltanto quello che dice, e nella forma è un film di grandi interpretazioni e dialoghi pieni di passione, di un vivido intellettualismo capace di rifinire con pazienza e scalpello una dimensione psicologica che è la storia stessa, al di là della sua effettiva aderenza ai fatti o della verosimiglianza di quel che racconta. Pryce non è da meno del collega, ma sarà più arduo per lui sbaragliare la competizione che si troverà davanti.
Più in un angolo è Tom Hanks, che in “A Beautiful Day in the Neighborhood” restituisce il profilo di Mr. Rogers, un noto conduttore di uno show televisivo americano per bambini, film che fa seguito al documentario sullo stesso Rogers uscito appena un anno fa (Will you be my neighbor?). Uno studio sul personaggio intriso di una retorica abbastanza stancante, che si segnala più che altro per il modo in cui ancora una volta Hanks riesca a calarsi in un personaggio fortemente americano, ovvero quel tipico profilo in cui alla straordinaria repressione interiore fa da contrasto una nobilitazione d’animo che si regge su una fiducia infantile (e tuttavia consapevole di esserlo) rivolta verso la vita come sola risposta alle angosce che presenta. I limiti dell’uomo coincidono misteriosamente con i suoi migliori strumenti per sopravvivere in un mondo dove è facile sentirci alienati. Interessante il racconto, ma il film (che prende spunto da un articolo di giornale) è del tutto incapace di conciliare la credibile interpretazione di Hanks con lo sviluppo di una trama coerente - come se l’ansia di recapitare il messaggio volesse sopraffare la verità.

Sul versante femminile, a contendere la vittoria alla favorita Scarlett Johansson (Marriage Story) in un anno fortemente caratterizzato dai biopic, sono attrici come Cynthia Erivo, Charlize Theron e soprattutto Renée Zellweger.
In “Harriet”, la storia di Harriet Tubman (schiava afroamericana fuggita e poi diventata attivista per la liberazione di altri schiavi) prende corpo con la solida interpretazione di Cynthia Erivo, degna e credibile nel racconto drammatico della fuga e del tentativo di riconciliazione con la famiglia ed il proprio passato quanto forse troppo appiattita nella seconda parte, che convince solo a tratti; è un film che ci racconta una storia a tratti surreale, non particolarmente aiutata da una regia piatta o da una sceneggiatura disordinata e poco ispirata. In “Bombshell”, affresco ludico di una recente storia di cronaca (il caso delle molestie che portò alle dimissioni forzate il fondatore della Fox, Roger Ailes) che viene trasposto al cinema sulla falsariga molto ovvia di successi degli ultimi anni come “The Big Short” o “Vice”, una Charlize Theron particolarmente stravolta dal trucco (anch’esso onorato con una nomination) è la protagonista in un cast molto femminile e tutto notevole (che comprende l’altra nominata Margot Robbie) ma più che nell’interpretazione è nel significato allegorico, nella redenzione che salva la morale del suo personaggio il valore del suo ruolo nel film. Roach lo assembla con una grande squadra di attrici (più Lithgow) e lo tiene incollato attraverso l’Improbabile realtà che permea i fatti di cronaca, ma fallisce con un’impostazione pedante ed uno stile ridondante nell’aggiungere al film un senso di vero disagio e di riflessione, premendo invece sulla frammentarietà e su un ritmo che lo rende tanto gradevole quanto vuoto e anche le sottolineature apertamente schierate rendono un pessimo servizio alla nobiltà del messaggio, con un’ironia che sfocia nel manicheismo e nella parodia, in un gioco delle parti che non sempre rende chiare le responsabilità.
La vera star di quest’anno è invece quella che brilla in “Judy”, anch’esso biopic, ispirato agli ultimi anni prima del declino e della morte di Judy Garland, ovvero Renée Zellweger. In un film che fatica forse a darsi un senso più ampio, uno stile più innovativo, in un film che è anzi piuttosto classico e come tale molto monotematico ed ossessivo, è proprio la provvidenziale prova della Zellweger a trasformare un discreto lavoro in qualcosa di più, a fare di una semplice luce di palcoscenico un teatro. Il personaggio è reso in tutta la sua umana debolezza, nella sua fragilità emotiva ed esistenziale, e all’improvviso sa risuonare di momenti magici che sembrano usciti dal nulla. Il fatto di non aver calcato la mano, evitando di scadere in sentimentalismi o melodrammi inutili con la scelta di fermarsi prima del crollo psicologico della Garland, è un plusvalore per il film, e incornicia una superba performance che non ha mai avuto a che vedere con il pietismo o perfino la nevrosi, ma che invece ci vuole rendere partecipi di un momento potenziale, un momento in cui tutto poteva ancora succedere, con un accenno di instabilità che è insieme paura dell’oblio e marchio indelebile dell’artista che non sa vivere se non con l’incompatibilità più intima alla sua vita.
Altro film, per così dire, marginale, è l’ultimo lavoro di Clint Eastwood: “Richard Jewell”, ennesimo biopic dal sapore grottesco, in bilico tra dramma e farsa, che racconta la storia tragicomica della guardia di sicurezza che venne accusata e processata sui media e sui giornali prima di qualsiasi riscontro legale di essere stato il responsabile della bomba al concerto delle olimpiadi di Atlanta ‘96. Il film è ben scritto, ben motivato, anche se incerto su cosa voglia essere e chiaramente avrebbe beneficiato di una sforbiciata o due in fase di montaggio. Il risultato è nella media, il messaggio dei più tradizionali e la recitazione decente. Kathy Bates è la madre di Jewell e la sua candidatura è legata più alla sua capacità di autorelegarsi in un angolino, riuscendo ad incidere nel momento più importante del film, quando la sua struttura d’accusa finalmente si svela, piuttosto prevedibilmente.

Due film sorprendenti compaiono in altre due categorie: fotografia e sceneggiatura.

Se “The Lighthouse” stupisce relativamente, considerando l’attesa per il ritorno sul grande schermo di Eggers a quattro anni da “The Witch”, e ci fa dono di una fotografia in bianco e nero molto vecchia maniera (come di maniera è poi il soggetto del film, la ricercatezza visiva e linguistica, i suoi contenuti) splendidamente virata sui toni dal netto contrasto, che fanno da sfondo alla tensione psicologica e surreale che accompagna le azioni dei due protagonisti, più sorprendente è invece “Knives out”; piccolo gioiellino firmato Rian Johnson (Brick, Looper), a cui si può imputare tutto ma non che non sappia scrivere una sceneggiatura. Questo film dalla confezionatura stile Agatha Christie è in realtà un’immensa parodia di genere e di costume, capace di nascondere all’interno dei suoi intricati e rigidi meccanismi giallistici una chiara sottolineatura di commento alla politica americana e a quel tipo di società a cui al momento quest’ultima sembra più al servizio, ovvero quella dei ricchi, eredi della terra, privilegiati bianchi che non sanno fare molto nella vita se non accampare diritti di proprietà e vivere di rendita, scaricando le colpe di ogni cosa sugli immigrati. Esilarante nel suo schematismo e brillante nel sapersi trovare nel posto giusto nei giusti momenti, azionando leve che lo rendono spiazzante e provocatorio, questo è un film corale, quasi WesAndersoniano, dai molti protagonisti, scritto da favola (anche letteralmente), con un cast incredibile e un gioco ad incastro preciso e affilato come un orologio. La candidatura è ridicolmente doverosa, la statuetta probabile.

Completano il quadro l’animazione (Toy Story inanella l’ennesimo capitolo sul “crescere e andare avanti” che porta a quattro i titoli della saga all’insegna della tradizione, del divertimento un po’ strappalacrime e della morale ad uso e consumo dei più piccoli, mentre J’ai perdu mon corps” porta innovazione stilistica e freschezza di idee) e altri biopic come Rocketman, che segue la scia di Bohemian Rhapsody, con la differenza che non sembra di vedere una stanca videografia (la parte musicale è in effetti al servizio della storia) che è ben recitata dal suo protagonista (Egerton, premiato ai Golden Globes) e che senza prendersi troppo sul serio racconta una dramedy che intrattiene bene almeno quanto drammatizza e che dà conto della persona non come banale anticamera del divo, ma come se l’artista fosse lo specchio dell’uomo. Come è giusto che sia.

Riguardo alle categorie più tecniche, si segnala Ad Astra, film che fa eco al filone fantascientifico più recente, film intelligente ma non intellettuale, che ingloba pezzi da Gravity ma gioca con calibri come 2001. Più del sentimentalismo alla Cuaròn (o alla Nolan), Gray riprende i ritmi bradicardici, i freddi silenzi e le atmosfere misteriose del capolavoro kubrickiano, per esplorare una dimensione intima e inaccessibile come quella in cui si muovono padre e figlio attraverso la metafora dello spazio siderale, del distacco.
Non c’è abbastanza trippa per dargli troppi meriti, ma è un buon film che fa il suo e lo fa tecnicamente bene, come dimostra la candidatura per il sonoro distribuita dall’Academy.

Qualche rimpianto per un buonissimo film della sempiterna mamma A24, che insieme a The Lighthouse quest’anno ci ha portato anche Midsommar e appunto The Farewell, storia molto bella e delicata, sempre in bilico fra due fuochi, due universi che si guardano a distanza inquadrati a loro volta dalla soggettiva di una ragazza che ne rappresenta la sintesi culturale. Il film spiega bene cosa significhi sentirsi smarriti al mondo e quanto sia importante il ruolo delle radici, mettendo in questione i valori tradizionali mentre allo stesso tempo li eleva con buona sensibilità.
Avrebbe meritato almeno un po’ di considerazione.




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