domenica 2 febbraio 2020

Parasite

144 - Parasite (febbraio 2020)





Una famiglia koreana, allo sbando finanziario e ridotta a vivere in una baraccopoli, mette in atto tutte le proprie risorse di ingegno per attuare un piano originale che li porterà al servizio della facoltosa famiglia Park e a risolvere il problema della disoccupazione, ma non tutto può essere pianificato...

Bong Joon Ho, sulla scia di Okja e soprattutto Snowpiercer, ma in generale di quasi tutto il suo cinema, torna su quelle tematiche a lui tanto care le quali, a seconda del fatto che vi convinca o meno della sincerità del suo discorso autoriale, possono in uguale misura muovervi a compassione o farvi storcere il naso e respingervi sotto il loro influsso populistico.

La sua poliedricità stilistica, il suo più completo controllo dei ritmi del film, acquisiti ormai attraverso una serie di prove registiche che lo consacrano fra i migliori cineasti mondiali contemporanei, è sempre mirata in qualche modo a conciliare l’aspetto più critico a quello d’evasione; il cinema d’autore che sa riflettere una determinata visione della società ma sa anche intrattenere, sa rendersi narrativo e imprevedibile.

Questo film può essere una graffiante commedia satirica, può essere un apologo o un racconto morale, si tinge delle tinte sociali di un dramma borghese, si trasmuta in horror surreale e attraversa la tragedia classica che si incarna nella metafora sempre più attuale e concreta dei nostri tempi, intersecando fantasia e realtà, allegoria e stretta necessità. È un film camaleontico, che sfugge continuamente alle definizioni, che sa attingere a diversi registri di linguaggio, ma a cui non sfuggono le sottigliezze di una storia ben congegnata, stilizzata in un messaggio che arriva forte e chiaro.

E allora la ricca famiglia borghese, così fuori dal mondo reale da vivere circondata dal lusso e dal silenzio rotto solo dall’occasionale pioggia estiva, talmente isolata e adagiata al sicuro del proprio rifugio costruito sull’agio dei soldi da non sospettare nemmeno le altrui peggiori intenzioni, rappresenta quel tipo di idillio così anacronistico e fuori dalle statistiche economiche dei nostri tempi che inconsapevolmente diventa qualcosa a cui è necessario, prima ancora che utile, ambire.
In questa metafora che ci parla dell’uomo ridotto alla sopravvivenza e, quindi, senza più vergogna o morale propria, si innestano i temi del possesso, dell’avidità, delle differenze di classe. Il “parassita” può esistere solo così, nutrendosi di ciò che a sua insaputa gli passa l’”Ospite”. In questo incrocio di rimandi (biologici, etico-sociali, filosofici), Bong Joon ho rischia continuamente di mescolare elementi di matrice diversa, ma è così bravo ad impastare la storia all’interno della sua stravagante allegoria che tutto trova una sua dimensione esatta, ora seria e puntuale, ora complice e divertita.

Niente sembra accadere sul serio eppure percepiamo l’intima verità del film, la frustrazione che riesce a liberare nei suoi momenti più fisici e diretti, che sono lì assieme alle considerazioni su quest’umanità, che altro non può se non tornare ad uno stato selvaggio, nascondersi dalla luce e dalla propria dignità negata, imbarbarire i propri sistemi di linguaggio, di comunicazione e infine cancellarsi dalla memoria e dalla coscienza del mondo per poi imprimervisi a livello inconscio, sempre tornando nella forma di spettri, spiriti senza requie da un’aldilà; un’entità che è insieme complesso di colpa, inconscio collettivo.

Le proporzioni del film di Bong Joon Ho sono talmente vaste che non è facile percepirle attraverso i meandri di una storia che, figurativamente, si svolge praticamente in un’unica ambientazione, ma - come in Snowpiercer - è proprio qui la grandezza visionaria di tutto, il salto di un’immaginazione rivolta al concreto, ad un discorso diretto e particolareggiato. Il fatto che per gran parte del suo svolgimento, il film sembri prendersi poco sul serio non va a diminuire la sua integrità complessiva, ma è semmai sintomo del disagio moderno incarnato in differenze sociali che sembrano assurde ed insostenibili, nel ruoli chiave delle istituzioni che diventano vere e proprie caricature, e in disegni improbabili di emancipazione che si schiantano nella tragedia più assoluta con la leggerezza e i toni cartunistici di un film di Kung Fu.

Operativamente chirurgica, asettica, la regia scivola come un occhio invisibile in questo caos lampante finché non entra sempre più nella carne viva di una ferita aperta; e al contrario dello svolgersi della storia al suo interno (che non va esattamente come pianificato) il film procede sempre lungo le coordinate del suo itinerario, perfino quando si diverte a deragliare.

Nessun commento:

Posta un commento