domenica 29 gennaio 2017

Deux Jours, une Nuite

112 - Deux jours, une nuit (gennaio 2017)



Sandra è appena stata licenziata dalla ditta in cui, prima della depressione da cui si è appena ristabilita, lavorava.
L'esito di una votazione dei colleghi (sollecitati dall'azienda a scegliere se ottenere un bonus individuale o se impedire che venga licenziata) diventa il fulcro meccanico su cui i fratelli Dardenne costruiscono questo ottimo film, dalle spinte morali, economiche e sociologiche dell'attualità da una parte, dall'inerzia filosofica e psicologica dall'altra.

In realtà il quadro è un quadro in movimento, non solo perché la protagonista affronta un viaggio quasi on-the-road nell'andare a cercare il confronto individuale con gli ex colleghi per convincerli a votare a favore della sua reintegrazione, ma anche perché si tratta di una realtà in continua evoluzione, interiore e compositiva.

Interessante notare come la situazione conflittuale di Sandra (il cui rifiuto nichilistico - "io non esisto" - le pone rilevanti imperativi e divieti morali cui sottostare lungo la non del tutto cosciente strada della ricerca della persona che era) sia resa perfettamente e silenziosamente lungo il procedere del film, attraverso l'attenzione per i piccoli dettagli e l'appaiamento ossessivo degli schemi cromatici (tonalità di rosso e di blu, che si stagliano dallo sfondo) e le rispettive sfumature sempre pertinenti alla cangiante rappresentazione emotiva del contesto.

Il bilanciamento bicromatico è usato sia per descrivere gli stati d'apnea (il verde-blu, che è letteralmente in ogni inquadratura e si fa tanto più carico quanto esasperata è l'inquietudine di Sandra per poi scemare pian piano, simboleggia la depressione, l'ostilità del mondo circostante, l'isolamento, l'apatia, la necessità di comunicare, la stessa sensazione di acqua alla gola che è più volte riferimento narrativo) ed il graduale rigoglio rabbioso che tenta di completarlo e poi di sovrastarlo (il rosso/rosa dell'azione e della reazione, dell'Ego, dell'autocoscienza, della personalizzazione). Mentre Sandra trova sicurezze e sponde che via via le attutiscono gli urti (continui, terribili dentro la sua mente), lo schermo dei fratelli Dardenne risponde e anticipa di conseguenza e le altre trovate della veste figurativa escogitate per il film chiariscono praticamente tutto ciò che più di rilevante c'è in esso: non certo la trama, spicciola e minimale, ma i meccanismi sociologici e il sostrato emotivo in cui Sandra è sospesa e bloccata.

Come da lezione Heideggeriana, la sua (non)esistenza è ripetuta, ossessiva, una serie infinita di tappe finalizzate allo stesso copione, alla stessa battuta da recitare, all'attesa di una risposta dicotomica che è speranza remota di un 'sì' (esisto) ma è aspettativa di un 'no' (non esisto).
È un ciclo interminabile che introduce sofferenza e contrasto psicologico, un effettivo inferno della mente e della vergogna diretto dai Dardenne con una tale trasparenza (nel senso sia di distacco, sia di onestà drammaturgica) da dire tutto con poco, da stimolare sempre una realtà asfittica, irraggiungibile che si sovrappone alla monotonia narrativa arricchendola di significato che altrimenti non avrebbe.

Lo schema è rotto (la lealtà, un senso insieme di fiducia e humanitas prevalgono sulla meschinità delle storture del potere e sull'opportunismo nonostante l'assenza di lieto fine), l'impotenza e l'angoscia lasciano il posto a una consapevolezza nuova, meno fosca in cui l'Io si riappropria di sé e del proprio libero arbitrio. Sandra non è più in balia di quello che la travolgeva e ogni traccia di blu, onnipresente fino al momento precedente, scompare o è confinato a un'importanza minima, è diventato un sottofondo. Il "J'Accuse" , nella sua scarsa rilevanza polemica, è urlato talmente con un filo di voce da risuonare tutt'intorno, aggraziato e riverberato da un nulla circostante che non richiede altro commento o interpretazione.

Sono i colori, il silenzio tutt'intorno, e la mimica dell'ottima Cotillard (il sorriso finale vale più di mille parole) a spiegarlo perfettamente.


sabato 14 gennaio 2017

Elle

111 - Elle (gennaio 2017)



Michèle è una capace donna d'affari, risoluta nelle decisioni del business quanto cinica e sinistramente accomodante nei rapporti, familiari e non. Dopo aver subito violenza domestica, riemergono all'improvviso anche gli effetti di un torbido passato che la costringe inconsciamente a mettere insieme i pezzi di una vita interrotta.

Il cinema (dei feticismi estetici e dei drammi morbosi) di Verhoeven in questo suo ultimo film trova una spalla perfetta nell'interpretazione brillante di Isabelle Huppert, che attraverso un notevole understatement trasforma e scolpisce il suo personaggio con una profondità di storia, di meraviglioso mistero, di empatica apaticità tali da disorientare e scandire ogni snodo della storia.

Una storia che nelle mani del regista non sembra sempre avere la giusta messa a fuoco o la giusta pretesa sugli elementi narrativi, ma che fissa nell'antefatto del trauma infantile e nell'altrettanto ferma sottrazione caratteriale della Huppert un connubio intorno a cui ruota tutta un'atmosfera impudica, innaturale, malsana; a tratti molto pericolosa, e a tratti quasi campy nei suoi eccessi stilistici o piuttosto artatamente fatalista negli accorgimenti linguistici che uniscono i puntini del mosaico psicologico di Verhoeven.

Verhoeven ha sempre avuto un interesse smodato (e ricettivamente controverso) per il modo in cui la tecnologia riesce ad insinuarsi come una malattia fra le pieghe della società (la violenza - anche sessuale - colpisce ogni realtà cibernetica, dai videogiochi in prima persona all'uso quotidiano dello smartphone), nei confronti del ruolo giudice, orientatore e propagandistico dei mass-media (dove prima c'erano TV e i finti inserti telegiornalistici ora ci sono gli speciali delle web TV) e del mistero della perversione fino ad accogliere in sé, se non la religione in senso stretto, qualcosa di spirituale.

A questi consueti stilemi e attraverso il controllo del colore, aggiunge una condizione di psicopatia di fondo che risalta sia nel modo in cui la Huppert "congela" il suo personaggio in un limbo di adamantina elaborazione di un trauma infantile portato sulle spalle come un martirio fino alle estreme conseguenze di un gioco pericoloso e fuori controllo, sia negli snodi del montaggio con cui Verhoeven intesse una trama fitta di rassegnato stupore scevro da qualunque tipo di etica.
Quello che vediamo deve bastare, perché Elle (impersonalmente, "Lei") è questo e molte altre cose insieme: l'aborto di un pazzo, la preda sessuale di un maniaco per il quale non prova una logica repulsione, la via di transito più naturale fra una madre e un figlio ingenui e infantili, l'oggetto della fantasia di più uomini, e donne, che non riescono a portarle rancore nemmeno quando tradisce.

Il film di Verhoeven non potrebbe davvero essere più enigmatico, provocatorio e irrisolto e la misura di quanto lo è si può ottenere soltanto da quella di una delle migliori interpretazioni recitative che il Cinema europeo abbia prodotto di recente.


venerdì 13 gennaio 2017

Sing Street

110 - Sing Street (gennaio 2017)



Una citazione (banale, ma quantomai calzante) di Almost Famous diceva: "Il Rock 'n Roll salverà il mondo".

John Carney, ormai un vero e proprio veterano delle dramedy musicali (Once, Begin Again) si rituffa nella mischia cercando questa volta, in continuità con il suo pensiero di massima (la musica segna la nostra crescita e soprattutto entra nelle nostre vite nei modi più inimmaginabili, e le trasforma senza che ce ne accorgiamo nelle cose più impossibili) di adattare la grande dicotomia della vita (sogno/realtà) e del dramma dei suoi film (personaggi in crisi d'identità) all'esperienza di un teenager della Dublino degli anni '80 in cui lo stesso regista è cresciuto.

Qui il sogno si chiama "Londra" ed è lontano una lingua di mare, ma il sogno è più una sorta di incanto, un vestito o un look, una maschera con cui circumnavigare i disastri famigliari, le pressioni sociali dell'Irlanda in stagnazione economica, il bullismo, il rigore repressivo cattolico del paese, il suo conformismo conservativo. Una maschera come il Rock 'n Roll, che modella stili personali e promuove un individualismo magnetico, caratterizzante, energico e "muscolare". Il cambiamento è costante in tutto il film, e anche se non lo è in modo capillare (i personaggi secondari - e non solo - restano veri e propri stereotipi viventi), lo è per quanto riguarda il rapporto musica-realtà, che è il vero obiettivo di Carney.

È la scelta musicale (del momento, del gruppo, del genere) a modificare sempre di più il principio attivo di una band, la "Sing Street" del protagonista, del tutto improbabile che suona musica molto arrangiata e di seconda mano. Di volta in volta viene introdotto un ingrediente nuovo, l'arte dà accesso a una scoperta interiore e così musica e testi, anche se poco originali, trasformano punti di vista e personalità.

Ma d'altra parte Almost Famous diceva anche: "Non credo che qualcuno possa spiegare che cos'è il Rock 'n Roll". Carney ci prova troppo e troppo a lungo, soprattutto lo fa senza un adeguatamente potente sostrato di supporto (sia la tragedia sentimentale di Once o la vis polemica - e politica - e della poetica dei nuovi inizi in Begin Again che qui ammicca ironicamente all'Uomo Nuovo Futurista) e con decisamente meno profondità soprattutto perché la musica che usa qui, di profondità, ne ha poca. Come si trattasse di un film che parla bene ma non agisce altrettanto bene.
E allora, messa da parte la insincerità di uno sfondo sociale o strutturale molto abbozzato, il risultato dell'interrogazione interiore è quello di una semplice commedia sentimentale che vorrebbe essere eccentrica alla Wes Anderson (a tratti lo è) ma è più che altro eccentrica alla "High School Musical non dovrebbe venire in mente ascoltando musica anni '80, neanche se si tratta di pop muzak, e meno che mai se si parla di Rock 'n Roll".
Troppo superficiale per essere sentimentalmente credibile, troppo ossessionato per essere veramente divertente.

Semplicemente, qui Carney alza poco la posta e finisce poi sfinito in un labirinto di situazioni assurde che si ricalcano, di personaggi un po' troppo macchiette e di un messaggio (Musica-Realtà) questa volta annacquato in un inverosimile senso di artefatto e di irresolutezza. Una cosa però non la si può rimproverare al Carney sceneggiatore ed è la spontaneità con cui rimane fedele al proprio romanticismo, capace di affiorare con una facilità disarmante anche dove non vorresti aspettartelo.

Una medaglia a due facce che qui ne mostra però fondamentalmente una sola, ed è il conforto spirituale semi-serio, ingenuo di un'ingenuità diversa da quella positiva dei suoi personaggi e poco credibile copiato da un Sogno Americano alla School of Rock più che il risultato di un'esperienza emotivamente autentica, "sondabile" e pienamente disponibile come quella che prorompeva dai suoi precedenti lavori.


lunedì 9 gennaio 2017

La Tierra y la Sombra (Land and Shape)


109 - La Tierra y la Sombra (gennaio 2017)



Alfonso, dopo diciassette anni passati separati dalla sua famiglia ritorna nella casa dove vivono la (ex?) moglie e la famiglia del figlio gravemente malato.

Gli sterminati canneti che producono ceneri pericolose per la salute ma che allo stesso tempo sono l'unica fonte di lavoro e di sostentamento per la gente del luogo, la desolazione circostante, la "sporcizia" di un'ambientazione propriamente votata a mostrare un vuoto siderale fra i personaggi e tutto il resto sono gran parte del corpo visivo di questo piccolo film colombiano.

Il suo regista aderisce concettualmente ad una strategia di lentissima e serafica osservazione del dolore, aggiungendo alla storia una dimensione astratta che si fa quasi stoica, senza però dar segni di insofferenza o lasciare tracce sensibili di empatia da dietro la macchina da presa in questo racconto senza sorprese ma altresì pieno di amarezza: la profondità di campo, le inquadrature isolate, il ritmo flemmatico di un montaggio essenziale alle parole centellinate, e i piani sequenza danno tutti un'idea ben precisa di una "fissità" della macchina da presa, e di uno sguardo da fuori, che assiste in contemplazione quasi ipnotizzato, quasi perduto in una qualche superstiziosa maledizione sciamanica che segna un'inesorabile lacerazione della famiglia, nei suoi rapporti interni e nei suoi rimaneggiamenti.

È tutto talmente "poco" che a volte sembra troppo (da sopportare: nel senso che vi è una specie di anti-impermeabilità alla speranza) e a volte torna ad essere esattamente questo, un esercizio espressivo di spessore del suo autore sulla base del compromesso di un dettaglio caratteriale-introspettivo praticamente inesistente e di una storia che non fa proprio niente per rendersi più coinvolgente o, meglio, meno distaccata.

Ma preso come un film di suggestioni, di silenzi angosciosi, di petti traboccanti di dolore e di parole non dette, il film raggiunge un suo equilibrio compositivo che gli fa guadagnare un senso tragico ben più potente di quello cui partecipano i suoi personaggi all'interno della loro storia.

domenica 1 gennaio 2017

The Neon Demon


108 - The Neon Demon (gennaio 2017)




La storia di una giovanissima modella che tenta di farcela a Los Angeles.

Un film sul potere e sulla parabola sociale della bellezza, come attrazione e minaccia (quindi un elemento misterioso e neutro, capace di produrre conseguenze oggettive anche quando soggettive). Refn gli rispolvera addosso la solita perfetta, pulitissima, tempra atmosferica: musiche sapide, luci - al neon ovviamente - caldissime e soffuse, il letargismo di una regia - ralenti, poca profondità, movimenti morbidi di macchina - che per prima tenta di assaporare l'effimero risultato di ciò che ha per oggetto con uno smisurato formalismo concettuale e ritmi vellutati; e acuisce un'ambiguità voluta e mantenuta oltre i più visitati luoghi delle apparenze.

Più vuoto di significato è il contenuto più vacue sono le immagini, quasi per sfida; si nota un velo di constatazione satirica fra i suoi meandri ma per lo più le mire di Refn sono altre, il senso della sorpresa visiva e l'irrigidimento della spoglissima trama nelle maglie del suo manierismo estetico su tutti.

Bellezza come qualcosa di irrinunciabile e di insopportabile nei suoi due estremi, seducente ma pericolosa ("Dangerous"), meravigliosamente catartica ma anche terribile nelle sue conseguenze. Un sole da cui non si può che dipendere e allo stesso tempo una piaga che rende peggiori e impedisce il disinteresse: concentra gli sforzi, crea e distrugge (Eros e Thanatos) e quindi rende immortali.

In generale Refn oscilla fra questi due concetti alternando cose di una purezza assoluta con luci via via sempre meno diffuse e aperte (non casuale la scelta del volto giovanissimo e diafano di Elle Fanning che oltre a prestarsi al discorso centrale, sembra quasi dipinto di momento in momento, invariabilmente a seconda dell'illuminazione) al trash più trascurabile che prende coraggio nell'ultimo Atto della pellicola, facendo della solita schizofrenia stilistica Refniana il vero motivo trainante di un film senz'altro più rivolto a un estetismo chiuso in se stesso (e che quindi spiega la esigua fetta di consensi ricevuti) che altro, ma che, ad un livello artistico meramente inteso ("L'art pour l'Art") sintetizza anche sul piano concettuale un messaggio, un significato, un'evoluzione di forma, e realizza un risultato affascinante nell'unico vero senso del termine.