sabato 14 gennaio 2017

Elle

111 - Elle (gennaio 2017)



Michèle è una capace donna d'affari, risoluta nelle decisioni del business quanto cinica e sinistramente accomodante nei rapporti, familiari e non. Dopo aver subito violenza domestica, riemergono all'improvviso anche gli effetti di un torbido passato che la costringe inconsciamente a mettere insieme i pezzi di una vita interrotta.

Il cinema (dei feticismi estetici e dei drammi morbosi) di Verhoeven in questo suo ultimo film trova una spalla perfetta nell'interpretazione brillante di Isabelle Huppert, che attraverso un notevole understatement trasforma e scolpisce il suo personaggio con una profondità di storia, di meraviglioso mistero, di empatica apaticità tali da disorientare e scandire ogni snodo della storia.

Una storia che nelle mani del regista non sembra sempre avere la giusta messa a fuoco o la giusta pretesa sugli elementi narrativi, ma che fissa nell'antefatto del trauma infantile e nell'altrettanto ferma sottrazione caratteriale della Huppert un connubio intorno a cui ruota tutta un'atmosfera impudica, innaturale, malsana; a tratti molto pericolosa, e a tratti quasi campy nei suoi eccessi stilistici o piuttosto artatamente fatalista negli accorgimenti linguistici che uniscono i puntini del mosaico psicologico di Verhoeven.

Verhoeven ha sempre avuto un interesse smodato (e ricettivamente controverso) per il modo in cui la tecnologia riesce ad insinuarsi come una malattia fra le pieghe della società (la violenza - anche sessuale - colpisce ogni realtà cibernetica, dai videogiochi in prima persona all'uso quotidiano dello smartphone), nei confronti del ruolo giudice, orientatore e propagandistico dei mass-media (dove prima c'erano TV e i finti inserti telegiornalistici ora ci sono gli speciali delle web TV) e del mistero della perversione fino ad accogliere in sé, se non la religione in senso stretto, qualcosa di spirituale.

A questi consueti stilemi e attraverso il controllo del colore, aggiunge una condizione di psicopatia di fondo che risalta sia nel modo in cui la Huppert "congela" il suo personaggio in un limbo di adamantina elaborazione di un trauma infantile portato sulle spalle come un martirio fino alle estreme conseguenze di un gioco pericoloso e fuori controllo, sia negli snodi del montaggio con cui Verhoeven intesse una trama fitta di rassegnato stupore scevro da qualunque tipo di etica.
Quello che vediamo deve bastare, perché Elle (impersonalmente, "Lei") è questo e molte altre cose insieme: l'aborto di un pazzo, la preda sessuale di un maniaco per il quale non prova una logica repulsione, la via di transito più naturale fra una madre e un figlio ingenui e infantili, l'oggetto della fantasia di più uomini, e donne, che non riescono a portarle rancore nemmeno quando tradisce.

Il film di Verhoeven non potrebbe davvero essere più enigmatico, provocatorio e irrisolto e la misura di quanto lo è si può ottenere soltanto da quella di una delle migliori interpretazioni recitative che il Cinema europeo abbia prodotto di recente.


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