mercoledì 28 febbraio 2018

Get Out

129 - Get Out (febbraio 2018)





Chris è un ragazzo di colore che frequenta Rose, una ragazza bianca. Tutto sembra essere perfettamente normale e "moderno", finché quest'ultima non lo invita a conoscere i suoi genitori.

Ammiccando in chiave parodistica a "Guess who's coming to dinner" (il padre della ragazza è talmente speculare a quello dell'altro film da ostentarne peraltro l'evidenza attraverso le sembianze così simili a quelle di Spencer Tracy) da cui riprende l'idea centrale per farne il padre di tutti i pregiudizi più o meno sottilmente presi di mira per tutto il film, nel suo melange tragicomico, Jordan Peele fa il suo esordio registico con quello che è, nella sua facciata esteriore, un Horror vero e proprio, con tutti i punti narrativi e gli stilemi al posto giusto, ma che, forse per sfida intellettuale forse per provocazione divertita, vuole in realtà farsi misurare dallo spettatore, essere decifrato per tenere un punto socialmente rilevante.

Se da un lato Peele costruisce una prima parte che scava nella paranoia del "maschio bianco" ancora così radicata nella mentalità afroamericana (l'idea di conoscere i genitori della ragazza, il poliziotto sospettoso), sembrando indulgere in senso ironico sulla facciata superficiale che ancora governa la questione del razzismo nell'ovvia America (ma non solo) in cui camminare nel posto sbagliato ha ancora delle conseguenze quando si tratta di giustizia sociale e uguaglianza sostanziale, fino a raggiungere un parossismo di inquietudine che, mediata dagli occhi critici e scettici di Chris, sfocia nel delirio di un incubo allegorico rivisitato dai fantasmi di quegli stessi anni '60 (di Guess who's coming to dinner) in cui nel pieno dei civil right movements si diffondeva l'usanza nei circoli borghesi progressisti dei bianchi di accompagnarsi a persone di colore solo per sfoggiare uno status symbol, fino a raggiungere i giorni nostri della diversity e del politically correct, dall'altro invece Peele ci porta nella astratta concretezza che quei gangli apportano alla mente del suo protagonista "fuori posto", figurativamente e letteralmente plagiata, quindi (quasi) asportata, quindi tenuta a bagno nella ridotta coscienza che vuole il Nero come osservatore esterno della realtà creata da altri (il bianco suprematista che nel suo delirio di onnipotenza superomistico vuole farsi impiantare il cervello del ragazzo per vedere attraverso i suoi occhi) e mai come persona nel vero senso della parola.

Chris è infatti molte cose: lo stereotipato feticcio sessuale della ragazza bianca; un potenziale criminale agli occhi della polizia; il trofeo da esibire da parte della famiglia benpensante e bigotta e con cui potersi vantare di "aver votato per Obama" mentre ci si fa assistere da una servitù di colore; l'estensione di un capriccio genetico che lo vuole più dotato del maschio bianco che per questo gliene chiede conto, eccitato dalla curiosità; un trait d'union di immediatezza dialogica fra il Domus e la sua attrazione (Tiger Woods-Golf), e via dicendo. Non esistono altri tipi di contatto.
Ciò che invece contraddistingue Chris come una persona più ampia della serie di stereotipi cuciti sul suo colore della pelle, ovvero l'hobby della fotografia (che somiglia molto a un'estensione del lavoro di J. Peele), è proprio quello che risveglia attraverso i suoi flash dei barlumi di coscienza (in lui e nei neri ancora "schiavi" di quella condizione passiva, succube). Similmente infatti, Peele fotografa la sua realtà vista dal punto di vista di Chris, la voce interna del suo film: poiché le due visioni sono incompatibili, è Chris, e quindi i suoi occhi, e quindi la soggettiva del film a soccombere davanti al tentativo di manipolazione (la TV è qui il medium borghese, il Cinema implica un atto riflessivo e forse rivoluzionario).

Se, quindi, al termine di questa sottile, sarcastica, satira politica che rivolge contro il classismo dei white liberals i loro stessi preconcetti smascherandoli della loro ipocrisia (ovvero: dietro a ogni bianco con il potere - soldi, posizione, fama - che si mostra tollerante si cela un potenziale pericolo di razzismo), Chris è colui che viene riscattato non tanto dall'intervento salvifico di una pattuglia, espressione della Legge (che, se fosse stata quella precedente, avrebbe comportato e in effetti comporta un altro pre-giudizio secco, del tipo: "secondo voi, vedendo quel ragazzo di colore fra una scia di cadaveri, a chi avrebbero creduto?") ma dalla consapevolezza unica di poter uscire da questo cortocircuito soltanto attraverso l'abluzione dalle fonti di inquinamento che continuano a sporcare, a intercettare il pensiero di un vero progressismo, che non si limiti ad un lavaggio del cervello come quello operato dall'immondizia che la TV "progressista" spaccia ad uso e consumo popolare, dal giornalismo e dalla politica, formalmente diversi ma sostanzialmente uguali una volta chiamati alla sbarra degli imputati.
E allora, allo stesso modo, formalmente e sostanzialmente, Tragicommedia, Orrore e Dramma diventano ugualmente colpevoli di coesistere nel sistema USA.

Chris trova (e cerca) assistenza solo fra i "fratelli", perché solo di loro capisce di potersi fidare, finché l'amico Rod, comicamente relegato alla macchietta di un agente antiterrorismo di poco conto che si improvvisa detective e accorre in un ironico last minute rescue come la cavalleria di The Birth of a Nation, non lo salva dalla prospettiva di finire come gli altri personaggi di colore che vengono "attivati" per ribellarsi contro di lui come cani (a conferma di un White Power ormai giunto alla tracimazione di un sentimento più o meno clandestino e cucito fra le pieghe del sistema di pensiero dominante).

Se il Nero da una parte è ipnotizzato (letteralmente dalla madre psicologa, e per via astratta dalla TV, per poi finire lobotomizzato, numero da circo) e dall'altra è nel suo "Sunken Place" (idiomatico per indicare uno stato di torpore rispetto a una generalizzata condizione di iniquità), il Bianco è invece ben consapevole di quello che fa anche (apparentemente) quando non lo sa, nella lezione di Peele, e in un modo o nell'altro esiste una qualche oscura intersezione fra chi "means well" (ha buone intenzioni) e chi, meno velatamente, vuole controllare e manipolare quelli che non ha mai smesso di considerare i suoi schiavetti neri a tal punto da trapiantare parti di essi per rinnovare l'inclinazione colonizzatrice; niente più di una semplice curiosità morbosa da esaltati, quindi, è quella che lega il Bianco omertoso e connivente, dignitoso ma che non vede al di là del proprio naso e non muove un dito per cambiare la situazione al Bianco suprematista che con il tacito consenso del primo amministra il sistema a proprio intendimento, educa e manipola le coscienze con il suo predicozzo, cieco davanti a quel che è diverso da lui; mantiene i suoi privilegi con il fine non troppo sottile di eliminare le minoranze una ad una rendendoli meri oggetti d'arredamento, come è destinato a fare anche il primo se non esce da quella colpevole oggettivazione.

Se sei uno spettatore passivo sei colpevole, se ti poni delle domande forse hai qualche speranza; intanto, però, l'unico bianco buono è un bianco morto, pressappoco.

Esistono, cioè, cinquanta sfumature di razzismo, ma sempre razzismo si chiama: «It's not what he said, it's how..."», come dice Chris, a poco a poco alienato dal senso di panico che si fa strada dalla premessa di una razionalizzazione concettuale mutuata dall'espressione dominante di un razzismo che ha smesso di chiamare le cose con il proprio nome solo per alludervi in codice (e senza affatto rimuovere il problema semantico) e che si conclude con una destabilizzante esclamazione: "Get Out!", il richiamo finto-ironico ultimo di una lezioncina troppo didattica per essere digerita insieme anche alla sua scorza orrorifica e allo stesso tempo non abbastanza perspicace da sostenere l'originalità del suo impianto; un film che, nel nobile tentativo di far riflettere (e insieme ridere in modo intelligente) su ciò che ancora ci separa da una coscienza comune e condivisa sul razzismo, finisce per inciampare accidentalmente su un'angolazione tanto manichea e vittimistica che svilisce il suo stesso punto argomentativo.



martedì 27 febbraio 2018

Dunkirk

128 - Dunkirk (febbraio 2018)





Dunkerque, l'operazione di salvataggio "Dynamo" delle truppe britanniche bloccate sulla costa francese sulla Manica entrata nel vivo nel maggio 1940, narrata da Christopher Nolan (per la prima volta anche alla sceneggiatura solista, senza il fratello Jonathan), si trasforma in un'operazione altrettanto colossale fra le mani del regista inglese, che come di consueto intreccia più linee narrative per dare quel senso di tridimensionalità, di spazialità che è comune a tutte le sue opere più titaniche.
Qui seguiamo le vicende su tre piani: il Molo (dove i soldati attendono il loro turno), il Cielo (i piloti di caccia che ostacolano i bombardamenti dell'aviazione tedesca), e il Mare (dove le imbarcazioni stanno cercando di trarre in salvo i soldati).

Strano a dirsi, ma nonostante questo film dica molto più con l'"arsenale" tecnico a sua disposizione, con montaggio, sonoro e musiche (che dominano ampiamente su tutto il resto) di quanto non facciano i suoi stessi personaggi, questo film smussa però i toni - se non trionfalistici, dal momento che qui è naturalmente impossibile trovarne - sopra le righe che normalmente i film di guerra ricevono.

Perché è in effetti un film di sopravvivenza, quello di Nolan, ed è uno strano film di guerra: i ragazzi di cui narra sono pedine in uno scacchiere più grande e lo sono in almeno due sensi (quello più ovvio e secolarizzato, ma anche quello che fa riferimento al disegno politico per il rilancio dell'ottimismo in patria); sono fin dall'inizio esuli in terra straniera, in lenta fila per una ritirata che è dipinta di vergogna e umiliazione. Non c'è fra loro alcuna traccia di spirito di fratellanza o cameratismo (anche fra soldato francese e inglese c'è una distanza insanabile); una desolante rassegnazione li spinge a individualismi egoistici; una sensazione di pericolo costante che, dall'alto del cielo dominato dai caccia che si neutralizzano nella più completa inespressività si estende fino alle profondità silenti del mare minacciato dai sottomarini, aleggia per la sua intera durata; i toni grigio-bluastri della fotografia immortalano una specie di maelström, sovrastato da uno scenario offuscato in una coltre di fumo, nebbia, bombardamenti; dalle coste Francesi è visibile, come un punticino in lontananza, la costa Britannica, e le speranze sono legate anche all'aiuto disperato di soccorritori civili per portare a termine l'evacuazione.

Nolan racconta una serie di episodi che, più che come un film, sono legati fra loro da un'idea prospettica, quasi geometrica o matematica, la cui freddezza glaciale, a differenza dei suoi film precedenti, si accorda con una certa onestà alla materia narrativa e al modo in cui le viene data forma, ma a torto o ragione propone solo uno sguardo osservatore e nulla più. È un film quasi impenetrabile, in cui i soldati (completamente de-umanizzati, anti-eroici, in un film antimilitarista) non possono fare altro che compattarsi, aspettare e sperare, bloccati nello spazio dei loro abitacoli, nel tempo della loro attesa, e nel vuoto emotivo che li spinge più di una volta a mettere il proprio interesse davanti a quello dei fratelli in armi.
Il regista combina questi due elementi, sospingendo silenziosamente la materia drammatica sotto il tappeto formalista della regia, pregando che la sensibilità dello spettatore (se pure a Nolan interessa) ne venga in qualche modo toccata, che qualcuno riesca ad annodare le opacizzate vicende personali con le precisissime acrobazie della battaglia.

Nolan spiega nei crediti conclusivi di aver dedicato il film a coloro la cui vita fu segnata da quegli eventi. Appena prima, il contrappunto finale, quando i soldati umiliati vengono accolti in tono trionfale nei postumi del celebre discorso patriottico di Churchill, è il sigillo naturale di un film che ha rifiutato per tutto il tempo una retorica stantia che non fosse quella di chi è qui per Nolan il vero eroe della situazione (chi prestò il proprio aiuto senza averne un obbligo che non fosse quello prodotto dalla coscienza - la vicenda del ragazzo e del padre a bordo dello yacht) e che continua a opporre il suo sguardo tetro, crudo, dallo spettro esistenzialista ad ogni altra sovrastruttura moralistica o, peggio, militarista.

Le musiche del solito Zimmer, scarne e minimali, ancorché onnipresenti e orientate a una tensione altrimenti irraggiungibile con i soli mezzi della regia, si incollano alla fotografia gelida di Van Hoytema (Interstellar, Let the right one in) e cementano un consorzio di intenzioni che restituisce una visione tanto sinistramente spettacolare nel processo quanto apatica, vuota nella sostanza; probabilmente quello che la guerra, vista dal vivo, davvero è.

Nolan rifiuta determinati cliché da Melò, ma ne impone di propri (come il ricorrente e qui del tutto inutile ricorso alle linee temporali, la finta partecipazione e il patetismo nei confronti di personaggi mal costruiti, la prospettiva multipla, la lotta interiore per capire cosa è vero e cosa non lo è...) che producono uno strano film, che non è né il Nolan classico fra azione e intrattenimento i cui personaggi, pur bidimensionali e cupi, offrono un esplicito territorio di empatia, né un Nolan che voglia definirsi sulla base di un ipotetico e rispettoso neorealismo poiché trucca e stordisce qualche volta di troppo, assorbito più dalle dinamiche della battaglia per occuparsi degli effetti sui suoi personaggi, alienato egli stesso, incapace di estrarre dal cilindro alcuna immagine di vero impatto da ricordare dopo il film, e per un film di guerra o contro la guerra (specialmente in quest'ultimo caso) è abbastanza grave.

Quasi come se il film, in sintonia con il suo contenuto, tentasse di salvare se stesso in extremis, è in parte il finale che lo riscatta da una lunga e lenta catalessi, appunto un tipico sogno Nolaniano, per trovare al risveglio una stordente, sfocata satira della condizione del soldato, un'indolente presa di coscienza scavata nei toni pseudo-umanitari del messaggio; ma un film di guerra (per definizione un genere che apre infinite parentesi metaforiche e critiche) che deve ricorrere a questo espediente, sostenendo una morale abbastanza stiracchiata per far filtrare nell'opera qualcosa di umano, è per davvero un film che spera in un miracolo: che ce lo si faccia bastare.

lunedì 26 febbraio 2018

Darkest Hour

127 - Darkest Hour (febbraio 2018)





Uscito curiosamente nell'anno in cui anche un film come il "Dunkirk" di Nolan tratta di uno dei temi storici della seconda guerra mondiale che videro per protagonista la fondamentale mediazione strategica di Churchill, The Darkest Hour si può però difficilmente considerare un film "sulla" guerra; è piuttosto un film su un uomo che si ritrovò a dirigere quella guerra perché finalmente nel suo elemento naturale, in quello che è un primo segno quasi metatestuale del film.

Proprio nel momento in cui l'esercito alleato è messo alle corde dai tedeschi che lo spinge verso la costa francese e l'invasione nazista a Francia e Gran Bretagna si profila nella sua concretezza, il paese è immobile nella sua ingovernabilità interna, debole e vulnerabile ma anche determinato a reagire.

Un po' thriller politico ma soprattutto un grande studio sul personaggio, il film segue le convulse ore di quei giorni decisivi del 1940 che divisero l'Impero Britannico fra l'idea di una stolta e tenace resistenza contro una capitolazione che sembrava inevitabile e la resa condizionata. È la voce di quell'ora più buia, di quel paese, e insieme di quel blocco mondiale che si oppose all'avanzata delle forze dell'Asse di Hitler a trovare se stessa, identificandosi nella voce di un altro uomo forse a ben vedere non poi così tanto diverso da Hitler stesso: entrambi più personaggi che persone, entrambi largamente osteggiati e temuti, entrambi così caparbi nel muovere all'azione le folle, entrambi così orgogliosi e riverenti del proprio ego e tetragoni alla voce della ragione.

Questa contrapposizione resta, per via figurata, nella mente durante tutto il film anche se tutto quello che vediamo è più che altro lo "one man show" di un uomo che è per lo più in guerra con se stesso; Oldman si prende il film e lo plasma fra i balbettii, le esitazioni, i suoni gutturali, i repentini cambi di umore e dei toni di voce, alternando i chiaroscuri e fornendo i connotati quasi bipolari di un personaggio che sa anche uscire dalla caricaturale immagine che la cultura popolare ci ha restituito per farne un uomo, con le proprie gravi incertezze e la propria implacabile, ostinata capacità di persuasione, con gli scoperti fasci di nervosismo ma anche l'inaspettato, sottile, a tratti fuori luogo senso dello humour. Un eccentrico predicatore in tempo di dubbio.

Guerra o pace, speranza o rassegnazione, perdizione o libertà. Wright cattura lo spirito di un intero paese in bilico (risolvendolo comunque in un finale un po' deludente che non possiede la freschezza della premessa) nella sua massima personificazione politica, patriottica e conflittuale, quella di un uomo incapace di capire se stesso fino in fondo, ma vincolato da un indissolubile bisogno infantile di essere accettato, e al contempo da un segno di maturo pragmatismo in un mondo aperto in due da teorizzazioni e sofismi.

Il film di Wright è una delizia per gli occhi ed appare tanto vivido, con le sue scenografie e le ricercatezze di una fotografia tutta luci e ombre, da galleggiare nella sospensione narrativa e nei ritmi di una regia scostante; le sue scelte registiche non sono sempre azzeccate e il film paga lungaggini e superfluità didascaliche che sembrano fare più male che bene al film e al lavoro di scalpello di Oldman, ma nella conduzione degli attori e nella messa in scena il definitivo occhio attento del regista fa la differenza nel permettere al suo protagonista di fare la differenza, in positivo e in negativo... non tanto per raccontare l'ovvio ma per rendergli in qualche modo una qualche giustizia.

Wright dirige il film con una devozione ipnotica per il suo protagonista, nei suoi primi piani invasivi e inquisitori che ne violano lo spazio vitale, nei profili accennati in controluce che lo ammantano di un alone di leggenda, nel creargli intorno distanze e spaziature visive insormontabili perfino nel chiuso degli angusti interni in cui il film è quasi interamente girato, e che riflettono quell'idea di un uomo comunque isolato dal comando, solo e solipsistico, refrattario e stagno a qualunque autocritica, e che tuttavia trova dentro di sé una vitalità carismatica che man mano riempie quegli stessi vuoti, unificando e riducendo le distanze, sostituendo l'amore con una cieca obbedienza.

Se il contesto storico fornisce un saldo sfondo entro cui muoversi per non deragliare troppo (ma l'incertezza dei confini in tempo di guerra genera a sua volta confuse coordinate all'esplorazione biografica), è anche vero però che i momenti migliori il film se li prende uscendo dal copione, disegnandogli percorsi alternativi, non senza cadere talvolta da un estremo all'altro, ma cercando almeno di rendere interessante la luce in cui ce lo propone, e in questo senso si può dire un film riuscito.



sabato 24 febbraio 2018

The Post

126 - The Post (febbraio 2018)




«L'unico modo di dimostrare il diritto di pubblicare è pubblicare»: dalle parole di Ben Bradlee (Tom Hanks), caporedattore del Washington Post, Steven Spielberg torna sulla storia americana, questa volta per prendere di petto lo scandalo del Watergate in quello che è un momento epocale per il paese, paralizzato dal dibattito interno sulla guerra del Vietnam e spaccato fra la sfiducia nel potere istituzionale e la battaglia per il diritto di stampa e quindi di espressione.

Dall'intenzione all'azione, dunque, come è prerogativa positiva dell'eroe dei diritti civili americano che Spielberg non può fare a meno di raccontare, lungo un processo che deve però scontare il superamento di diversi comprensibili ostacoli politici e giudiziari. A Spielberg più che l'approfondimento su un piano tecnico-documentaristico interessa il quadro generale, il lato più emotivo della ragnatela umana dalle cui mani passarono i delicatissimi dossier prodotti da una fonte che potremmo definire una figura antesignana di quello che sta accadendo ai giorni nostri.
Perché come quasi tutti i film di Spielberg, specialmente quelli più patriottici, le sfaccettature sono tali da rivestirsi immediatamente di metafora senza tempo, da fungere da ipertesto per leggere anche la situazione odierna: e allora non è tanto grande il salto d'immaginazione che porta da un Presidente che riuscì a corrompere e manovrare la stampa a uno che la schernisce e la intimidisce; o quello fra un culto della personalità (il riferimento a Luigi XIV) e un altro.

Il fatto è che Spielberg, che dirige un film tutto sommato abbastanza monotòno e privo di sorprese fino in fondo, lasciandosi attrarre dal fascino invecchiato della storia non tanto per un riesame di grande respiro quanto per riviverne i momenti cruciali (sottolineati dalla sua macchina da presa instancabile) nella speranza che non sfugga, più che la serie di eventi in sé, l'immortalità del principio fondamentale che è universale e che deve essere di insegnamento (qui forse parte del problema, la pedanteria didascalica), per quanto tenti di corroborare con elementi veri e realistici l'apparato del suo film, non riesce a fare a meno di dare una certa prevedibile impronta a quello che lo tiene insieme; non c'è niente di calcolato, è il suo spontaneo atteggiamento culturale a portarlo a credere in questo tipo di storia, in questo tipo di personaggi.
Ma allo stesso tempo, pur rinunciando a vedere questi stessi personaggi in una luce che non sia solo quella dei suoi occhi ammirati, dona loro una leggerezza partecipata quasi ironica e particolarmente umana che fa qualche concessione alla retorica ma sostiene l'empatia dello spettatore, come l'incredulità che accompagna alcuni passaggi ed ha apogeo nel racconto di come la questione più importante della moderna storia americana passi dalla decisione di una donna insicura e fuori posto finita per caso a dirigere un giornale di modesta rilevanza e in crisi economica, ad esempio.


Come molto spesso fa, Spielberg gioca sul contrasto prospettico: il piccolo spaccato della storia del Post, passato da giornale di famiglia a grande giornale vincitore di Pulitzer nelle mani di Kay Graham (Meryl Streep) e il più vasto interesse nazionale; il dettaglio della macchina da presa che segue le vicende dentro gli spazietti degli uffici della redazione giornalistica (l'obiettivo entra letteralmente dentro alle parole dei documenti, agli ingranaggi delle macchine da scrivere, alle rotative che annunciano le stampe) e il campo lunghissimo che inquadra un Nixon come una sagoma minuscola al centro di un immenso vuoto oscuro e silenzioso mentre va fuoricampo la voce delle registrazioni che inchiodarono l'ex presidente degli States al suo destino. Storie di uomini e donne rinchiusi nella propria dimensione, nella solitudine delle proprie scelte fondamentali, al muro delle conseguenze delle loro azioni, che si intrecciano e vanno al proprio posto come tessere di un mosaico, o meglio di una partita a scacchi.

Sebbene lo sguardo sia agevole e quasi al limite dell'inevitabile (necessariamente il punto di vista di chi conosce già l'esito finale), non manca al film una certa inquietudine paranoica, un'agitazione e un confuso dinamismo che si sovrappongono all'immobilismo delle riprese della Casa Bianca e in senso allegorico della situazione Americana. Se il vero eroismo si misura non già dall'assenza di paura ma dalla sua sconfitta, di eroico in questo film c'è poco perché non troppo calcato è il tasto della stessa; c'è più come un senso di pericolo, di indecisione, ma si perde quasi impercettibilmente nella fluidità dello spirito d'iniziativa e del senso di responsabilità che si lega a una santa vocazione e che come tale, non può mai essere sconfitta. Un'ingenuità romantica di cui il cinema Spielbergiano del resto è pieno.

Spielberg si avvale di un cast notevole, tutto particolarmente selezionato e variegato quel tanto che basta a dare al suo film accenti e toni naturali, una intensa multipersonalità che risponde a quell'eccitamento e quella sensazione di engagement vissuta dal paese alla metà degli anni '60 che volgeva al culmine dei movimenti per i diritti civili: le performance sono tutte molto buone, ma fra di esse quelle che spiccano di più e meno allo stesso tempo sono quelle femminili (Streep a parte): anche il ruolo della donna è infatti sotto esame, per quello che significava ieri e per quello che significa ancora oggi, là dove ogni singola figura femminile del film trova sistematicamente un ruolo marginale (la moglie di Bradlee, a casa ad aspettare mentre il marito fa la storia; la giornalista Meg Greenfield fuori da ogni discussione seria di una redazione in cui è l'unica giornalista donna e a cui sarà concessa la ribalta solo nel rileggere lo storico pronunciamento della Corte Suprema; la stessa Kay Graham che viene pungolata sull'orgoglio in ragione della sua inadeguatezza al ruolo, ecc.) che poi invece si rivela per qualche motivo centrale o funzionale al processo stesso (erano anche gli anni del femminismo).

Un affresco in stile period drama con cui Spielberg riafferma il potere della verità e della verità intrinseca della lotta per il diritto di conoscere la verità, e quindi della sopravvivenza ontologica del giornalista in una società che dipende, oggi più che allora, da un'informazione libera e affidabile, e che sembra voler seguire nel suo speciale mirino (la macchina da presa come un'arma di verità) coloro che cercano di impedirlo; con un ghigno retrospettivamente soddisfatto, fino all'ultimo fotogramma. Bye, Tricky Dicky.