martedì 27 febbraio 2018

Dunkirk

128 - Dunkirk (febbraio 2018)





Dunkerque, l'operazione di salvataggio "Dynamo" delle truppe britanniche bloccate sulla costa francese sulla Manica entrata nel vivo nel maggio 1940, narrata da Christopher Nolan (per la prima volta anche alla sceneggiatura solista, senza il fratello Jonathan), si trasforma in un'operazione altrettanto colossale fra le mani del regista inglese, che come di consueto intreccia più linee narrative per dare quel senso di tridimensionalità, di spazialità che è comune a tutte le sue opere più titaniche.
Qui seguiamo le vicende su tre piani: il Molo (dove i soldati attendono il loro turno), il Cielo (i piloti di caccia che ostacolano i bombardamenti dell'aviazione tedesca), e il Mare (dove le imbarcazioni stanno cercando di trarre in salvo i soldati).

Strano a dirsi, ma nonostante questo film dica molto più con l'"arsenale" tecnico a sua disposizione, con montaggio, sonoro e musiche (che dominano ampiamente su tutto il resto) di quanto non facciano i suoi stessi personaggi, questo film smussa però i toni - se non trionfalistici, dal momento che qui è naturalmente impossibile trovarne - sopra le righe che normalmente i film di guerra ricevono.

Perché è in effetti un film di sopravvivenza, quello di Nolan, ed è uno strano film di guerra: i ragazzi di cui narra sono pedine in uno scacchiere più grande e lo sono in almeno due sensi (quello più ovvio e secolarizzato, ma anche quello che fa riferimento al disegno politico per il rilancio dell'ottimismo in patria); sono fin dall'inizio esuli in terra straniera, in lenta fila per una ritirata che è dipinta di vergogna e umiliazione. Non c'è fra loro alcuna traccia di spirito di fratellanza o cameratismo (anche fra soldato francese e inglese c'è una distanza insanabile); una desolante rassegnazione li spinge a individualismi egoistici; una sensazione di pericolo costante che, dall'alto del cielo dominato dai caccia che si neutralizzano nella più completa inespressività si estende fino alle profondità silenti del mare minacciato dai sottomarini, aleggia per la sua intera durata; i toni grigio-bluastri della fotografia immortalano una specie di maelström, sovrastato da uno scenario offuscato in una coltre di fumo, nebbia, bombardamenti; dalle coste Francesi è visibile, come un punticino in lontananza, la costa Britannica, e le speranze sono legate anche all'aiuto disperato di soccorritori civili per portare a termine l'evacuazione.

Nolan racconta una serie di episodi che, più che come un film, sono legati fra loro da un'idea prospettica, quasi geometrica o matematica, la cui freddezza glaciale, a differenza dei suoi film precedenti, si accorda con una certa onestà alla materia narrativa e al modo in cui le viene data forma, ma a torto o ragione propone solo uno sguardo osservatore e nulla più. È un film quasi impenetrabile, in cui i soldati (completamente de-umanizzati, anti-eroici, in un film antimilitarista) non possono fare altro che compattarsi, aspettare e sperare, bloccati nello spazio dei loro abitacoli, nel tempo della loro attesa, e nel vuoto emotivo che li spinge più di una volta a mettere il proprio interesse davanti a quello dei fratelli in armi.
Il regista combina questi due elementi, sospingendo silenziosamente la materia drammatica sotto il tappeto formalista della regia, pregando che la sensibilità dello spettatore (se pure a Nolan interessa) ne venga in qualche modo toccata, che qualcuno riesca ad annodare le opacizzate vicende personali con le precisissime acrobazie della battaglia.

Nolan spiega nei crediti conclusivi di aver dedicato il film a coloro la cui vita fu segnata da quegli eventi. Appena prima, il contrappunto finale, quando i soldati umiliati vengono accolti in tono trionfale nei postumi del celebre discorso patriottico di Churchill, è il sigillo naturale di un film che ha rifiutato per tutto il tempo una retorica stantia che non fosse quella di chi è qui per Nolan il vero eroe della situazione (chi prestò il proprio aiuto senza averne un obbligo che non fosse quello prodotto dalla coscienza - la vicenda del ragazzo e del padre a bordo dello yacht) e che continua a opporre il suo sguardo tetro, crudo, dallo spettro esistenzialista ad ogni altra sovrastruttura moralistica o, peggio, militarista.

Le musiche del solito Zimmer, scarne e minimali, ancorché onnipresenti e orientate a una tensione altrimenti irraggiungibile con i soli mezzi della regia, si incollano alla fotografia gelida di Van Hoytema (Interstellar, Let the right one in) e cementano un consorzio di intenzioni che restituisce una visione tanto sinistramente spettacolare nel processo quanto apatica, vuota nella sostanza; probabilmente quello che la guerra, vista dal vivo, davvero è.

Nolan rifiuta determinati cliché da Melò, ma ne impone di propri (come il ricorrente e qui del tutto inutile ricorso alle linee temporali, la finta partecipazione e il patetismo nei confronti di personaggi mal costruiti, la prospettiva multipla, la lotta interiore per capire cosa è vero e cosa non lo è...) che producono uno strano film, che non è né il Nolan classico fra azione e intrattenimento i cui personaggi, pur bidimensionali e cupi, offrono un esplicito territorio di empatia, né un Nolan che voglia definirsi sulla base di un ipotetico e rispettoso neorealismo poiché trucca e stordisce qualche volta di troppo, assorbito più dalle dinamiche della battaglia per occuparsi degli effetti sui suoi personaggi, alienato egli stesso, incapace di estrarre dal cilindro alcuna immagine di vero impatto da ricordare dopo il film, e per un film di guerra o contro la guerra (specialmente in quest'ultimo caso) è abbastanza grave.

Quasi come se il film, in sintonia con il suo contenuto, tentasse di salvare se stesso in extremis, è in parte il finale che lo riscatta da una lunga e lenta catalessi, appunto un tipico sogno Nolaniano, per trovare al risveglio una stordente, sfocata satira della condizione del soldato, un'indolente presa di coscienza scavata nei toni pseudo-umanitari del messaggio; ma un film di guerra (per definizione un genere che apre infinite parentesi metaforiche e critiche) che deve ricorrere a questo espediente, sostenendo una morale abbastanza stiracchiata per far filtrare nell'opera qualcosa di umano, è per davvero un film che spera in un miracolo: che ce lo si faccia bastare.

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