mercoledì 28 febbraio 2018

Get Out

129 - Get Out (febbraio 2018)





Chris è un ragazzo di colore che frequenta Rose, una ragazza bianca. Tutto sembra essere perfettamente normale e "moderno", finché quest'ultima non lo invita a conoscere i suoi genitori.

Ammiccando in chiave parodistica a "Guess who's coming to dinner" (il padre della ragazza è talmente speculare a quello dell'altro film da ostentarne peraltro l'evidenza attraverso le sembianze così simili a quelle di Spencer Tracy) da cui riprende l'idea centrale per farne il padre di tutti i pregiudizi più o meno sottilmente presi di mira per tutto il film, nel suo melange tragicomico, Jordan Peele fa il suo esordio registico con quello che è, nella sua facciata esteriore, un Horror vero e proprio, con tutti i punti narrativi e gli stilemi al posto giusto, ma che, forse per sfida intellettuale forse per provocazione divertita, vuole in realtà farsi misurare dallo spettatore, essere decifrato per tenere un punto socialmente rilevante.

Se da un lato Peele costruisce una prima parte che scava nella paranoia del "maschio bianco" ancora così radicata nella mentalità afroamericana (l'idea di conoscere i genitori della ragazza, il poliziotto sospettoso), sembrando indulgere in senso ironico sulla facciata superficiale che ancora governa la questione del razzismo nell'ovvia America (ma non solo) in cui camminare nel posto sbagliato ha ancora delle conseguenze quando si tratta di giustizia sociale e uguaglianza sostanziale, fino a raggiungere un parossismo di inquietudine che, mediata dagli occhi critici e scettici di Chris, sfocia nel delirio di un incubo allegorico rivisitato dai fantasmi di quegli stessi anni '60 (di Guess who's coming to dinner) in cui nel pieno dei civil right movements si diffondeva l'usanza nei circoli borghesi progressisti dei bianchi di accompagnarsi a persone di colore solo per sfoggiare uno status symbol, fino a raggiungere i giorni nostri della diversity e del politically correct, dall'altro invece Peele ci porta nella astratta concretezza che quei gangli apportano alla mente del suo protagonista "fuori posto", figurativamente e letteralmente plagiata, quindi (quasi) asportata, quindi tenuta a bagno nella ridotta coscienza che vuole il Nero come osservatore esterno della realtà creata da altri (il bianco suprematista che nel suo delirio di onnipotenza superomistico vuole farsi impiantare il cervello del ragazzo per vedere attraverso i suoi occhi) e mai come persona nel vero senso della parola.

Chris è infatti molte cose: lo stereotipato feticcio sessuale della ragazza bianca; un potenziale criminale agli occhi della polizia; il trofeo da esibire da parte della famiglia benpensante e bigotta e con cui potersi vantare di "aver votato per Obama" mentre ci si fa assistere da una servitù di colore; l'estensione di un capriccio genetico che lo vuole più dotato del maschio bianco che per questo gliene chiede conto, eccitato dalla curiosità; un trait d'union di immediatezza dialogica fra il Domus e la sua attrazione (Tiger Woods-Golf), e via dicendo. Non esistono altri tipi di contatto.
Ciò che invece contraddistingue Chris come una persona più ampia della serie di stereotipi cuciti sul suo colore della pelle, ovvero l'hobby della fotografia (che somiglia molto a un'estensione del lavoro di J. Peele), è proprio quello che risveglia attraverso i suoi flash dei barlumi di coscienza (in lui e nei neri ancora "schiavi" di quella condizione passiva, succube). Similmente infatti, Peele fotografa la sua realtà vista dal punto di vista di Chris, la voce interna del suo film: poiché le due visioni sono incompatibili, è Chris, e quindi i suoi occhi, e quindi la soggettiva del film a soccombere davanti al tentativo di manipolazione (la TV è qui il medium borghese, il Cinema implica un atto riflessivo e forse rivoluzionario).

Se, quindi, al termine di questa sottile, sarcastica, satira politica che rivolge contro il classismo dei white liberals i loro stessi preconcetti smascherandoli della loro ipocrisia (ovvero: dietro a ogni bianco con il potere - soldi, posizione, fama - che si mostra tollerante si cela un potenziale pericolo di razzismo), Chris è colui che viene riscattato non tanto dall'intervento salvifico di una pattuglia, espressione della Legge (che, se fosse stata quella precedente, avrebbe comportato e in effetti comporta un altro pre-giudizio secco, del tipo: "secondo voi, vedendo quel ragazzo di colore fra una scia di cadaveri, a chi avrebbero creduto?") ma dalla consapevolezza unica di poter uscire da questo cortocircuito soltanto attraverso l'abluzione dalle fonti di inquinamento che continuano a sporcare, a intercettare il pensiero di un vero progressismo, che non si limiti ad un lavaggio del cervello come quello operato dall'immondizia che la TV "progressista" spaccia ad uso e consumo popolare, dal giornalismo e dalla politica, formalmente diversi ma sostanzialmente uguali una volta chiamati alla sbarra degli imputati.
E allora, allo stesso modo, formalmente e sostanzialmente, Tragicommedia, Orrore e Dramma diventano ugualmente colpevoli di coesistere nel sistema USA.

Chris trova (e cerca) assistenza solo fra i "fratelli", perché solo di loro capisce di potersi fidare, finché l'amico Rod, comicamente relegato alla macchietta di un agente antiterrorismo di poco conto che si improvvisa detective e accorre in un ironico last minute rescue come la cavalleria di The Birth of a Nation, non lo salva dalla prospettiva di finire come gli altri personaggi di colore che vengono "attivati" per ribellarsi contro di lui come cani (a conferma di un White Power ormai giunto alla tracimazione di un sentimento più o meno clandestino e cucito fra le pieghe del sistema di pensiero dominante).

Se il Nero da una parte è ipnotizzato (letteralmente dalla madre psicologa, e per via astratta dalla TV, per poi finire lobotomizzato, numero da circo) e dall'altra è nel suo "Sunken Place" (idiomatico per indicare uno stato di torpore rispetto a una generalizzata condizione di iniquità), il Bianco è invece ben consapevole di quello che fa anche (apparentemente) quando non lo sa, nella lezione di Peele, e in un modo o nell'altro esiste una qualche oscura intersezione fra chi "means well" (ha buone intenzioni) e chi, meno velatamente, vuole controllare e manipolare quelli che non ha mai smesso di considerare i suoi schiavetti neri a tal punto da trapiantare parti di essi per rinnovare l'inclinazione colonizzatrice; niente più di una semplice curiosità morbosa da esaltati, quindi, è quella che lega il Bianco omertoso e connivente, dignitoso ma che non vede al di là del proprio naso e non muove un dito per cambiare la situazione al Bianco suprematista che con il tacito consenso del primo amministra il sistema a proprio intendimento, educa e manipola le coscienze con il suo predicozzo, cieco davanti a quel che è diverso da lui; mantiene i suoi privilegi con il fine non troppo sottile di eliminare le minoranze una ad una rendendoli meri oggetti d'arredamento, come è destinato a fare anche il primo se non esce da quella colpevole oggettivazione.

Se sei uno spettatore passivo sei colpevole, se ti poni delle domande forse hai qualche speranza; intanto, però, l'unico bianco buono è un bianco morto, pressappoco.

Esistono, cioè, cinquanta sfumature di razzismo, ma sempre razzismo si chiama: «It's not what he said, it's how..."», come dice Chris, a poco a poco alienato dal senso di panico che si fa strada dalla premessa di una razionalizzazione concettuale mutuata dall'espressione dominante di un razzismo che ha smesso di chiamare le cose con il proprio nome solo per alludervi in codice (e senza affatto rimuovere il problema semantico) e che si conclude con una destabilizzante esclamazione: "Get Out!", il richiamo finto-ironico ultimo di una lezioncina troppo didattica per essere digerita insieme anche alla sua scorza orrorifica e allo stesso tempo non abbastanza perspicace da sostenere l'originalità del suo impianto; un film che, nel nobile tentativo di far riflettere (e insieme ridere in modo intelligente) su ciò che ancora ci separa da una coscienza comune e condivisa sul razzismo, finisce per inciampare accidentalmente su un'angolazione tanto manichea e vittimistica che svilisce il suo stesso punto argomentativo.



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