sabato 24 febbraio 2018

The Post

126 - The Post (febbraio 2018)




«L'unico modo di dimostrare il diritto di pubblicare è pubblicare»: dalle parole di Ben Bradlee (Tom Hanks), caporedattore del Washington Post, Steven Spielberg torna sulla storia americana, questa volta per prendere di petto lo scandalo del Watergate in quello che è un momento epocale per il paese, paralizzato dal dibattito interno sulla guerra del Vietnam e spaccato fra la sfiducia nel potere istituzionale e la battaglia per il diritto di stampa e quindi di espressione.

Dall'intenzione all'azione, dunque, come è prerogativa positiva dell'eroe dei diritti civili americano che Spielberg non può fare a meno di raccontare, lungo un processo che deve però scontare il superamento di diversi comprensibili ostacoli politici e giudiziari. A Spielberg più che l'approfondimento su un piano tecnico-documentaristico interessa il quadro generale, il lato più emotivo della ragnatela umana dalle cui mani passarono i delicatissimi dossier prodotti da una fonte che potremmo definire una figura antesignana di quello che sta accadendo ai giorni nostri.
Perché come quasi tutti i film di Spielberg, specialmente quelli più patriottici, le sfaccettature sono tali da rivestirsi immediatamente di metafora senza tempo, da fungere da ipertesto per leggere anche la situazione odierna: e allora non è tanto grande il salto d'immaginazione che porta da un Presidente che riuscì a corrompere e manovrare la stampa a uno che la schernisce e la intimidisce; o quello fra un culto della personalità (il riferimento a Luigi XIV) e un altro.

Il fatto è che Spielberg, che dirige un film tutto sommato abbastanza monotòno e privo di sorprese fino in fondo, lasciandosi attrarre dal fascino invecchiato della storia non tanto per un riesame di grande respiro quanto per riviverne i momenti cruciali (sottolineati dalla sua macchina da presa instancabile) nella speranza che non sfugga, più che la serie di eventi in sé, l'immortalità del principio fondamentale che è universale e che deve essere di insegnamento (qui forse parte del problema, la pedanteria didascalica), per quanto tenti di corroborare con elementi veri e realistici l'apparato del suo film, non riesce a fare a meno di dare una certa prevedibile impronta a quello che lo tiene insieme; non c'è niente di calcolato, è il suo spontaneo atteggiamento culturale a portarlo a credere in questo tipo di storia, in questo tipo di personaggi.
Ma allo stesso tempo, pur rinunciando a vedere questi stessi personaggi in una luce che non sia solo quella dei suoi occhi ammirati, dona loro una leggerezza partecipata quasi ironica e particolarmente umana che fa qualche concessione alla retorica ma sostiene l'empatia dello spettatore, come l'incredulità che accompagna alcuni passaggi ed ha apogeo nel racconto di come la questione più importante della moderna storia americana passi dalla decisione di una donna insicura e fuori posto finita per caso a dirigere un giornale di modesta rilevanza e in crisi economica, ad esempio.


Come molto spesso fa, Spielberg gioca sul contrasto prospettico: il piccolo spaccato della storia del Post, passato da giornale di famiglia a grande giornale vincitore di Pulitzer nelle mani di Kay Graham (Meryl Streep) e il più vasto interesse nazionale; il dettaglio della macchina da presa che segue le vicende dentro gli spazietti degli uffici della redazione giornalistica (l'obiettivo entra letteralmente dentro alle parole dei documenti, agli ingranaggi delle macchine da scrivere, alle rotative che annunciano le stampe) e il campo lunghissimo che inquadra un Nixon come una sagoma minuscola al centro di un immenso vuoto oscuro e silenzioso mentre va fuoricampo la voce delle registrazioni che inchiodarono l'ex presidente degli States al suo destino. Storie di uomini e donne rinchiusi nella propria dimensione, nella solitudine delle proprie scelte fondamentali, al muro delle conseguenze delle loro azioni, che si intrecciano e vanno al proprio posto come tessere di un mosaico, o meglio di una partita a scacchi.

Sebbene lo sguardo sia agevole e quasi al limite dell'inevitabile (necessariamente il punto di vista di chi conosce già l'esito finale), non manca al film una certa inquietudine paranoica, un'agitazione e un confuso dinamismo che si sovrappongono all'immobilismo delle riprese della Casa Bianca e in senso allegorico della situazione Americana. Se il vero eroismo si misura non già dall'assenza di paura ma dalla sua sconfitta, di eroico in questo film c'è poco perché non troppo calcato è il tasto della stessa; c'è più come un senso di pericolo, di indecisione, ma si perde quasi impercettibilmente nella fluidità dello spirito d'iniziativa e del senso di responsabilità che si lega a una santa vocazione e che come tale, non può mai essere sconfitta. Un'ingenuità romantica di cui il cinema Spielbergiano del resto è pieno.

Spielberg si avvale di un cast notevole, tutto particolarmente selezionato e variegato quel tanto che basta a dare al suo film accenti e toni naturali, una intensa multipersonalità che risponde a quell'eccitamento e quella sensazione di engagement vissuta dal paese alla metà degli anni '60 che volgeva al culmine dei movimenti per i diritti civili: le performance sono tutte molto buone, ma fra di esse quelle che spiccano di più e meno allo stesso tempo sono quelle femminili (Streep a parte): anche il ruolo della donna è infatti sotto esame, per quello che significava ieri e per quello che significa ancora oggi, là dove ogni singola figura femminile del film trova sistematicamente un ruolo marginale (la moglie di Bradlee, a casa ad aspettare mentre il marito fa la storia; la giornalista Meg Greenfield fuori da ogni discussione seria di una redazione in cui è l'unica giornalista donna e a cui sarà concessa la ribalta solo nel rileggere lo storico pronunciamento della Corte Suprema; la stessa Kay Graham che viene pungolata sull'orgoglio in ragione della sua inadeguatezza al ruolo, ecc.) che poi invece si rivela per qualche motivo centrale o funzionale al processo stesso (erano anche gli anni del femminismo).

Un affresco in stile period drama con cui Spielberg riafferma il potere della verità e della verità intrinseca della lotta per il diritto di conoscere la verità, e quindi della sopravvivenza ontologica del giornalista in una società che dipende, oggi più che allora, da un'informazione libera e affidabile, e che sembra voler seguire nel suo speciale mirino (la macchina da presa come un'arma di verità) coloro che cercano di impedirlo; con un ghigno retrospettivamente soddisfatto, fino all'ultimo fotogramma. Bye, Tricky Dicky.

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