lunedì 26 febbraio 2018

Darkest Hour

127 - Darkest Hour (febbraio 2018)





Uscito curiosamente nell'anno in cui anche un film come il "Dunkirk" di Nolan tratta di uno dei temi storici della seconda guerra mondiale che videro per protagonista la fondamentale mediazione strategica di Churchill, The Darkest Hour si può però difficilmente considerare un film "sulla" guerra; è piuttosto un film su un uomo che si ritrovò a dirigere quella guerra perché finalmente nel suo elemento naturale, in quello che è un primo segno quasi metatestuale del film.

Proprio nel momento in cui l'esercito alleato è messo alle corde dai tedeschi che lo spinge verso la costa francese e l'invasione nazista a Francia e Gran Bretagna si profila nella sua concretezza, il paese è immobile nella sua ingovernabilità interna, debole e vulnerabile ma anche determinato a reagire.

Un po' thriller politico ma soprattutto un grande studio sul personaggio, il film segue le convulse ore di quei giorni decisivi del 1940 che divisero l'Impero Britannico fra l'idea di una stolta e tenace resistenza contro una capitolazione che sembrava inevitabile e la resa condizionata. È la voce di quell'ora più buia, di quel paese, e insieme di quel blocco mondiale che si oppose all'avanzata delle forze dell'Asse di Hitler a trovare se stessa, identificandosi nella voce di un altro uomo forse a ben vedere non poi così tanto diverso da Hitler stesso: entrambi più personaggi che persone, entrambi largamente osteggiati e temuti, entrambi così caparbi nel muovere all'azione le folle, entrambi così orgogliosi e riverenti del proprio ego e tetragoni alla voce della ragione.

Questa contrapposizione resta, per via figurata, nella mente durante tutto il film anche se tutto quello che vediamo è più che altro lo "one man show" di un uomo che è per lo più in guerra con se stesso; Oldman si prende il film e lo plasma fra i balbettii, le esitazioni, i suoni gutturali, i repentini cambi di umore e dei toni di voce, alternando i chiaroscuri e fornendo i connotati quasi bipolari di un personaggio che sa anche uscire dalla caricaturale immagine che la cultura popolare ci ha restituito per farne un uomo, con le proprie gravi incertezze e la propria implacabile, ostinata capacità di persuasione, con gli scoperti fasci di nervosismo ma anche l'inaspettato, sottile, a tratti fuori luogo senso dello humour. Un eccentrico predicatore in tempo di dubbio.

Guerra o pace, speranza o rassegnazione, perdizione o libertà. Wright cattura lo spirito di un intero paese in bilico (risolvendolo comunque in un finale un po' deludente che non possiede la freschezza della premessa) nella sua massima personificazione politica, patriottica e conflittuale, quella di un uomo incapace di capire se stesso fino in fondo, ma vincolato da un indissolubile bisogno infantile di essere accettato, e al contempo da un segno di maturo pragmatismo in un mondo aperto in due da teorizzazioni e sofismi.

Il film di Wright è una delizia per gli occhi ed appare tanto vivido, con le sue scenografie e le ricercatezze di una fotografia tutta luci e ombre, da galleggiare nella sospensione narrativa e nei ritmi di una regia scostante; le sue scelte registiche non sono sempre azzeccate e il film paga lungaggini e superfluità didascaliche che sembrano fare più male che bene al film e al lavoro di scalpello di Oldman, ma nella conduzione degli attori e nella messa in scena il definitivo occhio attento del regista fa la differenza nel permettere al suo protagonista di fare la differenza, in positivo e in negativo... non tanto per raccontare l'ovvio ma per rendergli in qualche modo una qualche giustizia.

Wright dirige il film con una devozione ipnotica per il suo protagonista, nei suoi primi piani invasivi e inquisitori che ne violano lo spazio vitale, nei profili accennati in controluce che lo ammantano di un alone di leggenda, nel creargli intorno distanze e spaziature visive insormontabili perfino nel chiuso degli angusti interni in cui il film è quasi interamente girato, e che riflettono quell'idea di un uomo comunque isolato dal comando, solo e solipsistico, refrattario e stagno a qualunque autocritica, e che tuttavia trova dentro di sé una vitalità carismatica che man mano riempie quegli stessi vuoti, unificando e riducendo le distanze, sostituendo l'amore con una cieca obbedienza.

Se il contesto storico fornisce un saldo sfondo entro cui muoversi per non deragliare troppo (ma l'incertezza dei confini in tempo di guerra genera a sua volta confuse coordinate all'esplorazione biografica), è anche vero però che i momenti migliori il film se li prende uscendo dal copione, disegnandogli percorsi alternativi, non senza cadere talvolta da un estremo all'altro, ma cercando almeno di rendere interessante la luce in cui ce lo propone, e in questo senso si può dire un film riuscito.



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