giovedì 1 marzo 2018

Three Billboards outside Ebbing, Missouri

130 - Three Billboards outside Ebbing, Missouri (febbraio 2018)





McDonagh sa come prendere il suo pubblico. Sa cosa dargli in pasto, sa come manovrarne le emozioni, raramente si prende troppo sul serio e consapevole che niente è solo bianco o solo nero sa tuttavia farne convivere gli estremi in modo più che complementare.
In questo suo film gargantuesco e quasi dantesco, dove al contraltare dei toni fa da eterno sfondo una tragedia privata fin troppo drammatica e realistica per non catturarci nelle sue viscere, che poi ne precede o ne causa altre come in un domino surreale e incontrollabile, a svettare, più su ancora della formidabile recitazione (McDormand su tutti) e dell'inventiva/invettiva della scrittura, è l'alchimia che si crea da qualche parte in questa combinazione e ci restituisce dei personaggi talmente assurdi da non poter essere che veri.

Non importa quanto meschini o spregevoli, i personaggi di questo film sono tutti gloriosi. Li vediamo per quello che realmente sono, questo è il più grande miracolo di McDonagh in un film miracoloso di per sé: potremmo non condividere, diciamo, il 95% di quello che dicono o fanno, ma quando lo dicono o lo fanno sappiamo al 100% che le loro motivazioni sono reali, autentiche, e tragiche; sappiamo che in un qualche modo, difficile per noi da ammettere, le loro azioni hanno un fondamento non solo logico ma di ragione. Lo intuiamo al primo colpo e ce lo conferma quello che perdono per strada. E allora ci spingiamo ancora più in là e ci facciamo attraversare da questo agglomerato di rabbia, risentimento, ingiustizia, violenza, vendetta; amore e distruzione.

Sono personaggi inconsolabili e feriti che non si piangono addosso ma tentano di reagire (come diceva Richard Bach: «le cose brutte non sono le cose peggiori che possono capitarti, il nulla lo è») e lo fanno ovviamente nei toni farseschi e irrimediabili del black humour, come se le conseguenze fisiche non facessero poi tanto male o lasciassero segni tangibili di sofferenza... la sofferenza è infatti interiore e restituisce la misura di un'impotenza che è così emblematicamente, beffardamente, provocatoriamente rappresentata da quei tre manifesti allineati in fila in una stradina ormai "solo per idioti o ciechi" (tale è chi crede ancora alla giustizia) a Ebbing, Missouri; manifesti che nessuno vuole ma che tutti finiscono in qualche modo per salvare dalle fiamme dell'inferno, perché nessuno vuole veramente dimenticare e allo stesso tempo nessuno sa, con lucidità, che cosa fare. E sottopelle si cela una profonda connivenza, come se nella piccola comunità tutto fosse saldamente annodato assieme.

Questo film è puro istinto, sregolatezza, è il movimento e l'azione da cui scaturiscono conseguenze con cui, anche se a fatica, ci si può regolare - mentre il vuoto dell'inazione si allarga e cancella le persone da dentro piano piano.
Eppure lo vediamo, lo vediamo che guardando nel fondo delle loro anime, non ci sono solo le maschere apatiche, violente, menefreghiste, idiote, razziste che ci appaiono davanti agli occhi, ma che in loro brilla la luce di un'intelligenza umana che li riscatta e che li muove verso una rassegnazione più tenue, anche se non meno precaria. Che li spinge, più importante di ogni altra cosa, nelle braccia dell'altro come atomi impazziti bruciati da troppa pressione; finché il peso da portare non viene distribuito meglio.

Il film parla del rancore nei confronti delle ingiustizie della vita, quelle che non hanno colpevoli (o che hanno colpevoli assenti) ma che proprio per questo hanno bisogno di trovarne uno... e parla di amore e perdita, di un'indifferenza che esige di essere sanata frenando il cuore e azionando i recessi più remoti del nostro cervello, di fare leva sulle emozioni più viscerali... è un film che si sente vivo perché è dannatamente vivo, che deve ricordarsi di quanto è vivo dal momento che tutto quello che c'è intorno sono silenzio e strade deserte.
Ma allo stesso tempo è un grido di allarme, un appello alla ragione: se qualcuno che vive fra noi sta male dovremmo anche noi stare male; dovremmo sentire qualcosa, un senso di colpa se non di responsabilità e aiutare; la campana suona per noi.

Mildred Hayes, la madre della ragazza violentata e uccisa, apre questo teatro di (spettacolarizzata) violenza additando le forze dell'ordine (mentre sfrutta una compagnia pubblicitaria e la TV); queste ultime si rifanno sugli impresari pubblicitari. Proprio mentre la logica del prevedibile processo si mette in moto, il genio di McDonagh è quello di imitare la vita e ridefinire la nostra presunzione, è quello di trovare nell'imprevisto dell'imprevisto il fondamento tautologico della condizione umana di fronte all'ignoto.
È anche un film che spiega cosa significhi giudicare ed essere a propria volta giudicati, di come affrontandone le complesse implicazioni, possiamo smettere di esserne ossessionati e arrivare a una sensazione il più vicina possibile a un surrogato senso religioso di conforto.

Il microcosmo della polizia di provincia che sorveglia strade in disuso, fra incompetenza e umorismo grottesco ma capace anche di slancio emotivo; il divario fra cittadino e senso di giustizia, fra cittadino e figure d'autorità (o presunte tali) e all'interno della famiglia stessa; fra persone che si sentono diverse fra loro e quindi ostili... sono tematiche qui così scrupolosamente scandagliate, percorse da un'elettrica ilarità, che non puoi fare a meno di chiederti: cosa li tiene insieme? Perché questa gente non si ammazza veramente, anziché limitarsi a provarci di continuo?
Perché hanno così bisogno l'uno dell'altro?
A volte una lettera, una semplice lettera cambia tutto.

La sceneggiatura, oltre che brillante ed eccentrica come tutta la produzione di McDonagh, ha dei picchi di assoluta, stupefacente perfezione, come se le improbabili giocate che estrae dal cilindro fossero matematicamente esatte, al posto giusto, dove altro non si potrebbero immaginare.

Parlando della colonna sonora: Burwell è un vecchio lupo di mare che non delude mai, e sembra solo un altro dei tanti grandissimi Coeniani di lunga data in quello che è un film che ha molto in sé dell'epopea Coeniana (il paragone ultimativo con "Not a country for old men" è quello più pertinente), ma la cucitura dei pezzi recuperati come in un pastiche dalla pop culture da parte di McDonagh per asservire l'impatto emotivo devastante delle scene madri a cui dà vita (su tutte quella in steadicam con Rockwell) è, semplicemente, da mettere i brividi.

Il finale è poi intelligente, sensibile: senza mancare di rispetto, rinnegarsi o dare prova di cancellare il dolore, riconcilia con l'inizio di un lungo dimenticare e spezza maledettamente il cuore il modo in cui quell'auto scivola via lentamente lontano dalle nostre vite.
La prossima fermata sarà forse l'Iowa o probabilmente il nulla, ma una cosa qui è certa: il cinema non è morto e Three Billboards è lì a provarlo.




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