domenica 4 marzo 2018

Lady Bird

134 - Lady Bird (febbraio 2018)





È la storia di Christine, o Lady Bird, del suo rapporto complicato con la madre che è all'origine di un desiderio di indipendenza che la spinge a fare domanda per i college della costa americana opposta a quella della cattolica Sacramento in cui vive e si sente ingabbiata, e quindi del suo bildungsroman che si consuma nell'arco di un anno in attesa di quel momento.

Greta Gerwig, dieci anni davanti la macchina da presa (nonostante la giovane età), fa il grande salto e dirige il suo primo film e fa subito il botto: il suo film, largamente celebrato dalla critica, è la naturale conseguenza di uno stile che si è andato rafforzando negli anni di collaborazioni nel circuito meno esposto del cinema indipendente (Baumbach, Mike Mills, Solondz...) che ne ha messo alla prova sia l'efficacia come commediografa che la sensibilità come autrice.

Se la sua Lady Bird - che non ha nulla di autobiografico, come si è affrettata a precisare nelle interviste - è quindi la somma delle esperienze di una normale adolescente la cui vita non è più particolare di tante altre, è però il taglio e l'incisività che l'autrice sa dargli a far funzionare un film il cui segreto non è comunque solo nella sceneggiatura e nella prova recitativa della sua protagonista, ma soprattutto nelle piccole cose.

La sceneggiatura, il punto forte del film, spaziando in quella gamma di sfumature che va da drama a comedy cui del resto si fanno risalire le origini della Gerwig, tocca un'infinità di temi essenziali: la crescita, il rapporto difficile figli-genitori, le amicizie vere e presunte, la sessualità, l'omosessualità, l'aborto, il razzismo, la depressione, la politica, la religione, i problemi socio-economici, l'emarginazione, ecc; ma più di quello che tocca è importante come lo fa: in generale, le qualità di regia e montaggio sono al servizio della vena più comedy, perché è qui che il film è più a suo agio, la Gerwig può sdrammatizzare facendo ricorso a quell'aria di eterna "crescita problematica" che, alle prese con i drammi più o meno grandi della vita come quella che racconta, presentano un'ironia o una satira spontanea, che si risolve da sola in punchline e scappatoie per situazioni disperate.
Qui l'essenziale lavoro "touch&run" fatto in fase di stesura paga i suoi frutti e l'intelligente scelta di giocare sulle giustapposizioni e sui salti temporali riempiendo di dialoghi il film hanno un effetto vincente e brillante.

Il film dà un'idea come di densità, di estrema sintesi; come se ci scivolasse da fra le mani. È vero che tutto sembra più significativo e che ogni breve scenetta aggiunge una pennellata al murales della giovane Lady Bird consegnandocela alla fine presumibilmente più matura, disillusa e cresciuta, ma il tutto così scandito, se da una parte incrementa il potenziale della scrittura quasi-nichilista e anticlimatica della Gerwig, dall'altra ha il vantaggio/svantaggio di lasciarsi pesare poco per quelli che sono i suoi contenuti, come se una piccola parte della regista volesse evitare i giudizi, o volesse evitare speculazioni. Come se fuggisse, di continuo.

Saoirse Ronan aggiunge un sottile, intelligente strato di teenage angst che non va mai sopra le righe (a conferma di come il film proceda secondo il doppio binario) e che vale da valvola di sfogo incastrandosi nell'insoddisfacente rapporto con la madre (l'ottima Laurie Metcalf) che si nutre di una vicendevole e naturalissima disapprovazione, ma che è evidentemente tenuto insieme da emozioni oneste che sono quelle che la Gerwig è attenta ad osservare.

In generale, in quest'irrequietezza che dà anima e corpo ad un film come se ne sono visti tanti altri (in termini di contenuti) e che è quella tipica di chi vede passare in un attimo uno dei periodi più memorabili della propria vita come il passaggio all'età adulta, si può dire che la più grande scommessa sia la visione della regista di farne un lavoro di collage, uno di quelli su cui l'occhio si posa attratto non tanto da questo o quell'altro ritaglio ma dal suo senso di insieme, dalle sensazioni che emana, dal grado con cui, soltanto guardandolo, riusciamo a farci un'idea di chi è la persona a cui appartiene.

La Gerwig ha scritto una bella storia e le è rimasta fedele sempre; allo stesso tempo, nonostante la sincerità drammatica prenda il sopravvento nelle scene più evocative del film, il suo tocco è sempre commisurato a quello che racconta, impedendosi di deragliare, sempre in perfetto equilibrio sia nel ritmo che nel mix dei toni, e lo spirito di fondo che sa trovare la verità anche nei contesti meno verosimili non fa che risplendere un piccolo (per budget) ottimo film che esce da una scuola che quest'anno ha particolarmente brillato per originalità.


sabato 3 marzo 2018

Phantom Thread

133 - Phantom Thread (febbraio 2018)





L'ultimo Paul Thomas Anderson è un regista che, al di là dell'ermetismo che riflette da sempre una sua condizione indissolubilmente autobiografica e che recentemente si è fatta sempre più accanita e solipsistica, sa ancora come incantare, ammaliare, e colpire inaspettatamente macerandosi all'interno di una materia organica in continua evoluzione come i suoi personaggi.

Le interpretazioni che sa ottenere, del resto, parlano da sé: questo suo film non fa eccezione; due candidature e altrettante collaborazioni con Daniel Day Lewis - dopo il magnifico There will be blood - cementano un'intesa autoriale fra due pesi massimi dei rispettivi campi artistici che riconoscono per simbiosi lo stimolo ulteriore dello sperimentalismo, dell'ambizione di una verità che deve ancora essere raccontata.

Phantom Thread è un film che vive ancora dei riflessi luminosi della Los Angeles dagli incontri misteriosi di Inherent Vice e dei dualismi violenti di Punch Drunk Love e soprattutto The Master: Woodcock è il prestigioso e controverso sarto proprietario di un atelier di alta moda nella Londra aristocratica del dopoguerra il cui intuito si posa su una dolce e malleabile cameriera di carattere semplice ma orgoglioso.

È sempre interessante in un film di PTA stabilire in quale punto due personaggi si vengano a trovare nella loro interazione per poi vedere in che cosa si sono trasformati, quali reciproci cambiamenti ne hanno tratto. Woodcock è un personaggio che nelle mani da demiurgo di D.D.Lewis acquista un fascino come di un Pigmalione e sono proprio le sue mani, quelle che studiano, prendono appunti, cuciono, tessono, a modellare come seta o pizzo la sua "Eliza", fino a controbilanciarne la personalità.

Woodcock è un personaggio enigmatico, che rasenta la perfezione maniacale delle forme e dello stile, che insegue un assoluto, che veste le apparenze e stratifica le esteriorità delle persone intorno a lui perché calzino nelle sue rigide e schematiche definizioni umane; è un personaggio di rabbia e depressione che reprime le innervature psicologiche di un ego violentato dalla perdita della madre - verso cui tutto tende. Anderson coglie queste sfumature come se utilizzasse una nuova serie di accenti e toni, o di colori, per permettere ai suoi due personaggi di accedere a un nuovo registro di sensazioni; il suo film non è sempre evidente nel suo linguaggio, ma affiora tuttavia una consapevolezza evidente di reciproca necessità, come di un ideale artistico che alimenti la metafora attraverso la sua ricerca.

Supponendo che nel lavoro di Lewis si trovi un'estensione simbolica di quello del regista, si potrebbe quasi affermare un audace parallelo: è come se PTA si riconoscesse in questo mostruoso, impermeabile, imperscrutabile maestro tanto prevedibile nella perfezione tecnica quanto incapace di sostenerne il genio, di darne conto a se stesso. Si trova in questo limbo emotivo, perennemente bloccato nella catatonia di una memoria traumatizzata, e trova questo solidale sostegno in una donna che d'altra parte non ha altro che gli interessi se non l'amore inspiegabile, a tratti unilaterale, per quello che è un uomo drogato dai demoni interiori, troppo assuefatto all'idea di sé per restituire qualcosa che non sia una distanza ponderata.

Non si arriva mai veramente a un punto in questa perversa relazione che procede nel senso di una regressione infantile e mutuamente sadica, ma c'è tuttavia da parte dei personaggi un profondo senso di smarrimento l'uno nell'altro, una assurda - ma non per questo meno bella - edificazione di fiducia reciproca che conforta il fondo acquitrinoso del discorso di Anderson: questo è il solo modo in cui può funzionare, in cui tutto assume un senso, ogni pezzo trova il suo posto.

Il rigido contegno che accompagna tutta la lenta costruzione del film - dalle raffinate soluzioni visive al linguaggio del corpo estremamente affettato, ricercato - si placa solo davanti all'imprevisto, mai così inviso come quando si pone tra l'Artista e la sua creazione mettendone in risalto le insicurezze, e quindi interrompendone il flusso dei pensieri, minandone la rigidità della forma. È il "fanciullo interiore", quello mai dimenticato ma abbandonato nel subconscio all'ombra di chi ora fa luce, a dover uscire per trarre via da sé quel controllo che va necessariamente allentato; è un film sulle vulnerabilità di un amore che richiede una calma contemplazione interiore e un lungo e paziente lavoro di intaglio, in cui la convenzione è derisa in un impeto di ribelle autoflagellazione per esplorare la dinamica del processo umano: dal Freddie Quell di J. Phoenix, reduce traumatizzato dalla guerra e afflitto dal ricordo deluso della ragazza amata, che si sottoponeva alla terapia di regressione del Master Lancaster Dodd, al Maestro che deve egli stesso ritrovare quella voce interna e per guarirsi deve stare male e quindi autorigenerarsi.

Il ruolo sacrificale di Alma sarà, ancora una volta, quello di completare l'uomo ma soprattutto di integrare la visione dell'Artista perché questi possa riconoscersi nella sua stessa arte; il segreto sarà, da parte di quella donna, diventare essa stessa non tanto la Musa, quanto effettivamente la creazione, farsi plasmare nell'immagine materna così che l'artista possa amare la propria creazione, amare e ricongiungersi con quella parte di sé che crea e che giace, quiescente, nell'oblio doloroso per poi inevitabilmente risalire come un fiotto di bile. Il suo ruolo sarà salvarlo da se stesso.

Non è un film facile, quello di PTA, né un film in cui sia emotivamente semplice penetrare, ma parla con gli occhi dei suoi attori e possiede una semplicità intrinseca nelle sue inquadrature che parla più di mille parole; meno sofisticato (ma anche meno ironico) certamente del precedente Inherent Vice, il rapporto duale torna al centro del discorso come lo era stato più o meno in tutti i film precedenti da Magnolia (escluso) in poi. Dove andrà da qui in poi, il multiforme genio di PTA non è dato saperlo, ma sarà un piacere come sempre essere lì ad aspettarlo.


The Shape of Water

132 - The Shape of Water (febbraio 2018)





Dire che Del Toro ama raccontare storie grottesche e straordinarie sembra un eufemismo (del resto è sua la frase «mi piacciono i mostri, mi identifico in loro»), come d'altra parte superfluo sarebbe rimarcare il suo feticismo per il cinema in quanto tale, specialmente horror, e il suo legame con il simbolismo che trascende la vicenda di carattere storico; e così non sorprende molto che la sua nuova fatica sia una rilettura fantasiosa del periodo culminante della guerra fredda (la corsa allo spazio) in cui il cinema era fortemente caratterizzato dalle escrescenze mutagene che la bomba atomica aveva fatto ramificare nel subconscio collettivo, provocando una ridondanza (per lo più dozzinale) dei cosiddetti monster movies.

La creatura che viene dall'acqua e ne simboleggia la vaga, confusa forma, il suo significato allegorico, porta in effetti le sembianze di quell'altra Creatura, quella della laguna nera (datata 1954): se quella, mutazione mostruosa da abbattere a vista poiché aberrazione di una scienza mortificata dal senso di colpa per il disastro guerrafondaio, si nascondeva fra le profondità acquatiche e rapiva la ragazza, qui con un risvolto ironico è la ragazza a "rapire" il mostro, un mostro marino che sa adattarsi all'ambiente terrestre ma che lentamente soffoca in un lamento di schiavitù.

Se lo scenario anni '50, con i suoi complotti spionistici fra agenti segreti, le elaborate scenografie, gli oggetti di scena, la grafica pubblicitaria, la televisione, i musical, il razzismo e le altre piaghe sociali, la repressione sessuale... è la tela, Del Toro agita poi il pennello della sua fantasia per dipingere una storia d'amore che concentra i suoi più ampi sforzi nel film così come in Pan's Labyrinth la dissociazione mentale della piccola protagonista era al centro del discorso, dove Del Toro è sicuro di trovare il suo cuore pulsante.
Riesce a metà nel suo intento visionario e dopo averci fatto immergere nelle bellissime e calme atmosfere del film, fallisce nel dargli una vera e profonda sostanza, con questa storia che è un po' favoletta furbetta alla Spielberg e un po' favoletta sotterranea alla Jeunet-Caro (forse il debito più ovvio); una storia fra due persone "mute", sole, estranee che riescono a trovare un loro linguaggio unico e personale nella mimesi di un amore che possiede la forza vitale dell'acqua, talmente abbondante, talmente ubiqua che la sua pressione deve in qualche modo farla affiorare.

Questa forma è la forma umana, quella che in noi si afferma quando "sentiamo" e non ci limitiamo a sopprimere il diverso, quando gli impulsi naturali (come il risveglio erotico) trovano sfogo, quando il vero amore sconfigge, insomma, il male di un'umanità negletta e isolata in compartimenti stagni.
Ma per dirla tutta, è una fin troppo facile operazione commerciale quella che Del Toro compie sul proprio materiale, rivisitando ogni possibile cliché cui peraltro fa riferimento diretto solo per ribadire un'ovvietà di troppo in un contesto che forse, da artista messicano, conosce troppo superficialmente per essere interessato ad elaborarne una versione più approfondita del semplicistico "buoni buonissimi e cattivi cattivissimi".

In questo sogno acqueo che scorre e sfugge all'analisi della realtà, alimentando le venature porose dell'amore e lasciando letteralmente marcire i tessuti di chi si fa dominare dall'odio, si riafferma il senso di una parabola manichea stracolma di metafore stilizzate e di facile assimilazione per le masse generaliste che vogliono qualcosa che confermi le loro aspettative più scialbe, mentre pur non scontentando i cinefili (un film di Del Toro non può farlo per definizione) limita questi ultimi ad una superficie affascinante ma alla lunga opprimente, abbandonandoli ad un lento annegamento nell'oceano della retorica sentimentalista.

Visivamente ipnotico, con quel suo ricorso manifesto e ossessivo per il color "foglia di tè" che riempie lo schermo fino a farne una sorta di acquario umano, quasi un tableu vivant, Del Toro utilizza assai bene la regia per spostarci all'interno di queste dimensioni originate dalla sua fervida immaginazione riuscendo al contempo, come sempre, a teletrasportarsi fra i passaggi che solo lui vede fra sogno e realtà, ma gli va dato soprattutto il merito di aver creato nel laboratorio delle immagini che fanno di lui lo scienziato post-moderno del monster movie del nuovo millennio, una delle creature più "umane" e veritiere si potessero ottenere dall'integrazione ineluttabile fra computer grafica e film che il progresso ci mette davanti: la sua creazione ci restituisce lo sguardo alieno e ferito che troppo spesso vorremmo dimenticare ma che dice di noi, come razza, più di quanto vorremmo ammettere su noi stessi, di chi viene lasciato indietro per colmare pseudo-illusioni collettive intercettate da chi le strumentalizza per mantenere il potere.

Sally Hawkins, muta come la sirenetta di Christensen, si staglia nei contrasti tagliati con la scure del film con le movenze dolci e aggressive di una novella eroina di genere, ricorrendo a tutta la sua espressività per dare anima ad un personaggio che è come la proiezione della "sua" creatura, anche lei così bisognosa di identificare se stessa con una forma che le dia la consapevolezza di quello che scorre nelle sue vene. Del Toro non fa molto per renderla psicologicamente più interessante di così e in sostanza, la sensazione conclusiva è quella di un film che non conosce via di mezzo: o lo senti oppure no; o lo ami o lo odi.



venerdì 2 marzo 2018

Call me by your name

131 - Call me by your name (febbraio 2018)





Elio è il figlio di un professore accademico e cresce in una famiglia ebraica cosmopolita e aperta alla multiculturalità della riviera ligure dei primi anni '80; naviga in questa specie di Torre di Babele in cui non ci si scambia più di una frase nella stessa lingua alla volta, dove i tabù sono caduti insieme a quelli dell'Arte che li circonda completamente formando un tuttuno con la Natura, dove si discute di tutto, dalla politica al sesso, dove la musica pop (Psychedelic Furs, Talkin Heads, Battiato) convive con la musica classica.

Il viaggio di formazione di Elio si consuma in una classica estate fatta di avventure accolte con la mente aperta e quindi quantomai confusa di chi, ovunque si guardi intorno, scorge il favore della diversità, delle occasioni da non sprecare e dei confusi modelli a cui rifarsi nel tentativo di creare la propria, di identità.

In questa insistita allusione che Guadagnino protrae in un desiderio tanto romantico quanto proibito nel momento in cui fa entrare in scena Oliver, uno studente in visita presso la famiglia che ricambia l'interesse di Elio nonostante sia molto più grande di lui, il film si sposta sempre più sottilmente e inesorabilmente dal chiuso ombroso degli interni (che conservano il cuore delle discussioni, delle intellettualizzazioni, del "sapere" che però è, appunto, "all'oscuro" di cosa esso significhi concretamente) alle tentazioni e ai colori caldi del giardino estivo, pieno di luce e fitto di una prosperità naturale, giunonica, che lo fanno sembrare l'Eden biblico.

E il film è veramente tutto qui, nella sua massima semplicità naïf: Guadagnino ottiene dalla sua coppia di protagonisti una serie di understatement che si legano bene alla delicatezza delle musiche, ai toni morbidi della fotografia e ai silenzi della regia che inframezzano gli atti di voluttà e realizzano il desiderio logorante dell'attesa, ma (o forse "quindi") non c'è praticamente alcuna tensione se non quella legata allo spontaneo valutarsi di due poli che si attraggono proprio perché diversi e intangibili se non fosse per quel piccolo segreto, quel mistero che entrambi portano con sé.

In quest'idea minima e minimale, in cui i gesti d'amore si specchiano sulle immagini di adoniche sculture greche e i libri avidamente ingialliti vengono ammucchiati davanti al "peccato" originale del coming out (difficile psicologicamente perfino in una famiglia così liberale e progressista), l'atto vero e proprio non è che una rivoluzione liberatoria esplosa in un risveglio di vita, perciò anti-intellettuale, e distaccante dal resto del mondo che infatti, dopo, sfiorisce di tutta la sua importanza, impallidisce letteralmente, e prende lo sfondo dell'immagine con quella finestra che rivela l'inverno di neve ed Elio, in primo piano, che deve elemosinare la luce del camino, ormai troppo consapevole del frutto della verità per potersene liberare come fosse stata tutta una semplice fantasia ad occhi aperti.

Nel titolo si cela la sua più simmetrica (e quindi una volta di più "Greca" nel senso antico e classico) rivelazione: Elio diventa Oliver e viceversa dando vita a una confusione-ordine di identità sottolineata da Guadagnino attraverso la posizione della macchina, i cangianti schemi cromatici e l'uso degli spazi negativi.

Il film procede come un sogno di mezz'estate, Puck assume le fattezze di quest'illusione tanto irresistibile da guardare quanto, appunto, fatta della stessa concretezza di ciò che è ideale e impossibile. Anche Guadagnino riesce in buona parte a camuffare le sembianze del suo film mantenendo una distanza rispettosa ancorché impalpabile, finché non si fa anche lui tentare dal finirci dentro spiegando ciò che non richiede di essere spiegato. Il suo lungometraggio, frutto di una produzione internazionale, sa di una commistione calcolata che possiede la stessa enigmaticità delle facce dell'Arte ma a cui manca, forse, un elemento veramente innovativo e coraggioso per dirsi tale.


giovedì 1 marzo 2018

Three Billboards outside Ebbing, Missouri

130 - Three Billboards outside Ebbing, Missouri (febbraio 2018)





McDonagh sa come prendere il suo pubblico. Sa cosa dargli in pasto, sa come manovrarne le emozioni, raramente si prende troppo sul serio e consapevole che niente è solo bianco o solo nero sa tuttavia farne convivere gli estremi in modo più che complementare.
In questo suo film gargantuesco e quasi dantesco, dove al contraltare dei toni fa da eterno sfondo una tragedia privata fin troppo drammatica e realistica per non catturarci nelle sue viscere, che poi ne precede o ne causa altre come in un domino surreale e incontrollabile, a svettare, più su ancora della formidabile recitazione (McDormand su tutti) e dell'inventiva/invettiva della scrittura, è l'alchimia che si crea da qualche parte in questa combinazione e ci restituisce dei personaggi talmente assurdi da non poter essere che veri.

Non importa quanto meschini o spregevoli, i personaggi di questo film sono tutti gloriosi. Li vediamo per quello che realmente sono, questo è il più grande miracolo di McDonagh in un film miracoloso di per sé: potremmo non condividere, diciamo, il 95% di quello che dicono o fanno, ma quando lo dicono o lo fanno sappiamo al 100% che le loro motivazioni sono reali, autentiche, e tragiche; sappiamo che in un qualche modo, difficile per noi da ammettere, le loro azioni hanno un fondamento non solo logico ma di ragione. Lo intuiamo al primo colpo e ce lo conferma quello che perdono per strada. E allora ci spingiamo ancora più in là e ci facciamo attraversare da questo agglomerato di rabbia, risentimento, ingiustizia, violenza, vendetta; amore e distruzione.

Sono personaggi inconsolabili e feriti che non si piangono addosso ma tentano di reagire (come diceva Richard Bach: «le cose brutte non sono le cose peggiori che possono capitarti, il nulla lo è») e lo fanno ovviamente nei toni farseschi e irrimediabili del black humour, come se le conseguenze fisiche non facessero poi tanto male o lasciassero segni tangibili di sofferenza... la sofferenza è infatti interiore e restituisce la misura di un'impotenza che è così emblematicamente, beffardamente, provocatoriamente rappresentata da quei tre manifesti allineati in fila in una stradina ormai "solo per idioti o ciechi" (tale è chi crede ancora alla giustizia) a Ebbing, Missouri; manifesti che nessuno vuole ma che tutti finiscono in qualche modo per salvare dalle fiamme dell'inferno, perché nessuno vuole veramente dimenticare e allo stesso tempo nessuno sa, con lucidità, che cosa fare. E sottopelle si cela una profonda connivenza, come se nella piccola comunità tutto fosse saldamente annodato assieme.

Questo film è puro istinto, sregolatezza, è il movimento e l'azione da cui scaturiscono conseguenze con cui, anche se a fatica, ci si può regolare - mentre il vuoto dell'inazione si allarga e cancella le persone da dentro piano piano.
Eppure lo vediamo, lo vediamo che guardando nel fondo delle loro anime, non ci sono solo le maschere apatiche, violente, menefreghiste, idiote, razziste che ci appaiono davanti agli occhi, ma che in loro brilla la luce di un'intelligenza umana che li riscatta e che li muove verso una rassegnazione più tenue, anche se non meno precaria. Che li spinge, più importante di ogni altra cosa, nelle braccia dell'altro come atomi impazziti bruciati da troppa pressione; finché il peso da portare non viene distribuito meglio.

Il film parla del rancore nei confronti delle ingiustizie della vita, quelle che non hanno colpevoli (o che hanno colpevoli assenti) ma che proprio per questo hanno bisogno di trovarne uno... e parla di amore e perdita, di un'indifferenza che esige di essere sanata frenando il cuore e azionando i recessi più remoti del nostro cervello, di fare leva sulle emozioni più viscerali... è un film che si sente vivo perché è dannatamente vivo, che deve ricordarsi di quanto è vivo dal momento che tutto quello che c'è intorno sono silenzio e strade deserte.
Ma allo stesso tempo è un grido di allarme, un appello alla ragione: se qualcuno che vive fra noi sta male dovremmo anche noi stare male; dovremmo sentire qualcosa, un senso di colpa se non di responsabilità e aiutare; la campana suona per noi.

Mildred Hayes, la madre della ragazza violentata e uccisa, apre questo teatro di (spettacolarizzata) violenza additando le forze dell'ordine (mentre sfrutta una compagnia pubblicitaria e la TV); queste ultime si rifanno sugli impresari pubblicitari. Proprio mentre la logica del prevedibile processo si mette in moto, il genio di McDonagh è quello di imitare la vita e ridefinire la nostra presunzione, è quello di trovare nell'imprevisto dell'imprevisto il fondamento tautologico della condizione umana di fronte all'ignoto.
È anche un film che spiega cosa significhi giudicare ed essere a propria volta giudicati, di come affrontandone le complesse implicazioni, possiamo smettere di esserne ossessionati e arrivare a una sensazione il più vicina possibile a un surrogato senso religioso di conforto.

Il microcosmo della polizia di provincia che sorveglia strade in disuso, fra incompetenza e umorismo grottesco ma capace anche di slancio emotivo; il divario fra cittadino e senso di giustizia, fra cittadino e figure d'autorità (o presunte tali) e all'interno della famiglia stessa; fra persone che si sentono diverse fra loro e quindi ostili... sono tematiche qui così scrupolosamente scandagliate, percorse da un'elettrica ilarità, che non puoi fare a meno di chiederti: cosa li tiene insieme? Perché questa gente non si ammazza veramente, anziché limitarsi a provarci di continuo?
Perché hanno così bisogno l'uno dell'altro?
A volte una lettera, una semplice lettera cambia tutto.

La sceneggiatura, oltre che brillante ed eccentrica come tutta la produzione di McDonagh, ha dei picchi di assoluta, stupefacente perfezione, come se le improbabili giocate che estrae dal cilindro fossero matematicamente esatte, al posto giusto, dove altro non si potrebbero immaginare.

Parlando della colonna sonora: Burwell è un vecchio lupo di mare che non delude mai, e sembra solo un altro dei tanti grandissimi Coeniani di lunga data in quello che è un film che ha molto in sé dell'epopea Coeniana (il paragone ultimativo con "Not a country for old men" è quello più pertinente), ma la cucitura dei pezzi recuperati come in un pastiche dalla pop culture da parte di McDonagh per asservire l'impatto emotivo devastante delle scene madri a cui dà vita (su tutte quella in steadicam con Rockwell) è, semplicemente, da mettere i brividi.

Il finale è poi intelligente, sensibile: senza mancare di rispetto, rinnegarsi o dare prova di cancellare il dolore, riconcilia con l'inizio di un lungo dimenticare e spezza maledettamente il cuore il modo in cui quell'auto scivola via lentamente lontano dalle nostre vite.
La prossima fermata sarà forse l'Iowa o probabilmente il nulla, ma una cosa qui è certa: il cinema non è morto e Three Billboards è lì a provarlo.