venerdì 2 marzo 2018

Call me by your name

131 - Call me by your name (febbraio 2018)





Elio è il figlio di un professore accademico e cresce in una famiglia ebraica cosmopolita e aperta alla multiculturalità della riviera ligure dei primi anni '80; naviga in questa specie di Torre di Babele in cui non ci si scambia più di una frase nella stessa lingua alla volta, dove i tabù sono caduti insieme a quelli dell'Arte che li circonda completamente formando un tuttuno con la Natura, dove si discute di tutto, dalla politica al sesso, dove la musica pop (Psychedelic Furs, Talkin Heads, Battiato) convive con la musica classica.

Il viaggio di formazione di Elio si consuma in una classica estate fatta di avventure accolte con la mente aperta e quindi quantomai confusa di chi, ovunque si guardi intorno, scorge il favore della diversità, delle occasioni da non sprecare e dei confusi modelli a cui rifarsi nel tentativo di creare la propria, di identità.

In questa insistita allusione che Guadagnino protrae in un desiderio tanto romantico quanto proibito nel momento in cui fa entrare in scena Oliver, uno studente in visita presso la famiglia che ricambia l'interesse di Elio nonostante sia molto più grande di lui, il film si sposta sempre più sottilmente e inesorabilmente dal chiuso ombroso degli interni (che conservano il cuore delle discussioni, delle intellettualizzazioni, del "sapere" che però è, appunto, "all'oscuro" di cosa esso significhi concretamente) alle tentazioni e ai colori caldi del giardino estivo, pieno di luce e fitto di una prosperità naturale, giunonica, che lo fanno sembrare l'Eden biblico.

E il film è veramente tutto qui, nella sua massima semplicità naïf: Guadagnino ottiene dalla sua coppia di protagonisti una serie di understatement che si legano bene alla delicatezza delle musiche, ai toni morbidi della fotografia e ai silenzi della regia che inframezzano gli atti di voluttà e realizzano il desiderio logorante dell'attesa, ma (o forse "quindi") non c'è praticamente alcuna tensione se non quella legata allo spontaneo valutarsi di due poli che si attraggono proprio perché diversi e intangibili se non fosse per quel piccolo segreto, quel mistero che entrambi portano con sé.

In quest'idea minima e minimale, in cui i gesti d'amore si specchiano sulle immagini di adoniche sculture greche e i libri avidamente ingialliti vengono ammucchiati davanti al "peccato" originale del coming out (difficile psicologicamente perfino in una famiglia così liberale e progressista), l'atto vero e proprio non è che una rivoluzione liberatoria esplosa in un risveglio di vita, perciò anti-intellettuale, e distaccante dal resto del mondo che infatti, dopo, sfiorisce di tutta la sua importanza, impallidisce letteralmente, e prende lo sfondo dell'immagine con quella finestra che rivela l'inverno di neve ed Elio, in primo piano, che deve elemosinare la luce del camino, ormai troppo consapevole del frutto della verità per potersene liberare come fosse stata tutta una semplice fantasia ad occhi aperti.

Nel titolo si cela la sua più simmetrica (e quindi una volta di più "Greca" nel senso antico e classico) rivelazione: Elio diventa Oliver e viceversa dando vita a una confusione-ordine di identità sottolineata da Guadagnino attraverso la posizione della macchina, i cangianti schemi cromatici e l'uso degli spazi negativi.

Il film procede come un sogno di mezz'estate, Puck assume le fattezze di quest'illusione tanto irresistibile da guardare quanto, appunto, fatta della stessa concretezza di ciò che è ideale e impossibile. Anche Guadagnino riesce in buona parte a camuffare le sembianze del suo film mantenendo una distanza rispettosa ancorché impalpabile, finché non si fa anche lui tentare dal finirci dentro spiegando ciò che non richiede di essere spiegato. Il suo lungometraggio, frutto di una produzione internazionale, sa di una commistione calcolata che possiede la stessa enigmaticità delle facce dell'Arte ma a cui manca, forse, un elemento veramente innovativo e coraggioso per dirsi tale.


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