sabato 3 marzo 2018

The Shape of Water

132 - The Shape of Water (febbraio 2018)





Dire che Del Toro ama raccontare storie grottesche e straordinarie sembra un eufemismo (del resto è sua la frase «mi piacciono i mostri, mi identifico in loro»), come d'altra parte superfluo sarebbe rimarcare il suo feticismo per il cinema in quanto tale, specialmente horror, e il suo legame con il simbolismo che trascende la vicenda di carattere storico; e così non sorprende molto che la sua nuova fatica sia una rilettura fantasiosa del periodo culminante della guerra fredda (la corsa allo spazio) in cui il cinema era fortemente caratterizzato dalle escrescenze mutagene che la bomba atomica aveva fatto ramificare nel subconscio collettivo, provocando una ridondanza (per lo più dozzinale) dei cosiddetti monster movies.

La creatura che viene dall'acqua e ne simboleggia la vaga, confusa forma, il suo significato allegorico, porta in effetti le sembianze di quell'altra Creatura, quella della laguna nera (datata 1954): se quella, mutazione mostruosa da abbattere a vista poiché aberrazione di una scienza mortificata dal senso di colpa per il disastro guerrafondaio, si nascondeva fra le profondità acquatiche e rapiva la ragazza, qui con un risvolto ironico è la ragazza a "rapire" il mostro, un mostro marino che sa adattarsi all'ambiente terrestre ma che lentamente soffoca in un lamento di schiavitù.

Se lo scenario anni '50, con i suoi complotti spionistici fra agenti segreti, le elaborate scenografie, gli oggetti di scena, la grafica pubblicitaria, la televisione, i musical, il razzismo e le altre piaghe sociali, la repressione sessuale... è la tela, Del Toro agita poi il pennello della sua fantasia per dipingere una storia d'amore che concentra i suoi più ampi sforzi nel film così come in Pan's Labyrinth la dissociazione mentale della piccola protagonista era al centro del discorso, dove Del Toro è sicuro di trovare il suo cuore pulsante.
Riesce a metà nel suo intento visionario e dopo averci fatto immergere nelle bellissime e calme atmosfere del film, fallisce nel dargli una vera e profonda sostanza, con questa storia che è un po' favoletta furbetta alla Spielberg e un po' favoletta sotterranea alla Jeunet-Caro (forse il debito più ovvio); una storia fra due persone "mute", sole, estranee che riescono a trovare un loro linguaggio unico e personale nella mimesi di un amore che possiede la forza vitale dell'acqua, talmente abbondante, talmente ubiqua che la sua pressione deve in qualche modo farla affiorare.

Questa forma è la forma umana, quella che in noi si afferma quando "sentiamo" e non ci limitiamo a sopprimere il diverso, quando gli impulsi naturali (come il risveglio erotico) trovano sfogo, quando il vero amore sconfigge, insomma, il male di un'umanità negletta e isolata in compartimenti stagni.
Ma per dirla tutta, è una fin troppo facile operazione commerciale quella che Del Toro compie sul proprio materiale, rivisitando ogni possibile cliché cui peraltro fa riferimento diretto solo per ribadire un'ovvietà di troppo in un contesto che forse, da artista messicano, conosce troppo superficialmente per essere interessato ad elaborarne una versione più approfondita del semplicistico "buoni buonissimi e cattivi cattivissimi".

In questo sogno acqueo che scorre e sfugge all'analisi della realtà, alimentando le venature porose dell'amore e lasciando letteralmente marcire i tessuti di chi si fa dominare dall'odio, si riafferma il senso di una parabola manichea stracolma di metafore stilizzate e di facile assimilazione per le masse generaliste che vogliono qualcosa che confermi le loro aspettative più scialbe, mentre pur non scontentando i cinefili (un film di Del Toro non può farlo per definizione) limita questi ultimi ad una superficie affascinante ma alla lunga opprimente, abbandonandoli ad un lento annegamento nell'oceano della retorica sentimentalista.

Visivamente ipnotico, con quel suo ricorso manifesto e ossessivo per il color "foglia di tè" che riempie lo schermo fino a farne una sorta di acquario umano, quasi un tableu vivant, Del Toro utilizza assai bene la regia per spostarci all'interno di queste dimensioni originate dalla sua fervida immaginazione riuscendo al contempo, come sempre, a teletrasportarsi fra i passaggi che solo lui vede fra sogno e realtà, ma gli va dato soprattutto il merito di aver creato nel laboratorio delle immagini che fanno di lui lo scienziato post-moderno del monster movie del nuovo millennio, una delle creature più "umane" e veritiere si potessero ottenere dall'integrazione ineluttabile fra computer grafica e film che il progresso ci mette davanti: la sua creazione ci restituisce lo sguardo alieno e ferito che troppo spesso vorremmo dimenticare ma che dice di noi, come razza, più di quanto vorremmo ammettere su noi stessi, di chi viene lasciato indietro per colmare pseudo-illusioni collettive intercettate da chi le strumentalizza per mantenere il potere.

Sally Hawkins, muta come la sirenetta di Christensen, si staglia nei contrasti tagliati con la scure del film con le movenze dolci e aggressive di una novella eroina di genere, ricorrendo a tutta la sua espressività per dare anima ad un personaggio che è come la proiezione della "sua" creatura, anche lei così bisognosa di identificare se stessa con una forma che le dia la consapevolezza di quello che scorre nelle sue vene. Del Toro non fa molto per renderla psicologicamente più interessante di così e in sostanza, la sensazione conclusiva è quella di un film che non conosce via di mezzo: o lo senti oppure no; o lo ami o lo odi.



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