sabato 3 marzo 2018

Phantom Thread

133 - Phantom Thread (febbraio 2018)





L'ultimo Paul Thomas Anderson è un regista che, al di là dell'ermetismo che riflette da sempre una sua condizione indissolubilmente autobiografica e che recentemente si è fatta sempre più accanita e solipsistica, sa ancora come incantare, ammaliare, e colpire inaspettatamente macerandosi all'interno di una materia organica in continua evoluzione come i suoi personaggi.

Le interpretazioni che sa ottenere, del resto, parlano da sé: questo suo film non fa eccezione; due candidature e altrettante collaborazioni con Daniel Day Lewis - dopo il magnifico There will be blood - cementano un'intesa autoriale fra due pesi massimi dei rispettivi campi artistici che riconoscono per simbiosi lo stimolo ulteriore dello sperimentalismo, dell'ambizione di una verità che deve ancora essere raccontata.

Phantom Thread è un film che vive ancora dei riflessi luminosi della Los Angeles dagli incontri misteriosi di Inherent Vice e dei dualismi violenti di Punch Drunk Love e soprattutto The Master: Woodcock è il prestigioso e controverso sarto proprietario di un atelier di alta moda nella Londra aristocratica del dopoguerra il cui intuito si posa su una dolce e malleabile cameriera di carattere semplice ma orgoglioso.

È sempre interessante in un film di PTA stabilire in quale punto due personaggi si vengano a trovare nella loro interazione per poi vedere in che cosa si sono trasformati, quali reciproci cambiamenti ne hanno tratto. Woodcock è un personaggio che nelle mani da demiurgo di D.D.Lewis acquista un fascino come di un Pigmalione e sono proprio le sue mani, quelle che studiano, prendono appunti, cuciono, tessono, a modellare come seta o pizzo la sua "Eliza", fino a controbilanciarne la personalità.

Woodcock è un personaggio enigmatico, che rasenta la perfezione maniacale delle forme e dello stile, che insegue un assoluto, che veste le apparenze e stratifica le esteriorità delle persone intorno a lui perché calzino nelle sue rigide e schematiche definizioni umane; è un personaggio di rabbia e depressione che reprime le innervature psicologiche di un ego violentato dalla perdita della madre - verso cui tutto tende. Anderson coglie queste sfumature come se utilizzasse una nuova serie di accenti e toni, o di colori, per permettere ai suoi due personaggi di accedere a un nuovo registro di sensazioni; il suo film non è sempre evidente nel suo linguaggio, ma affiora tuttavia una consapevolezza evidente di reciproca necessità, come di un ideale artistico che alimenti la metafora attraverso la sua ricerca.

Supponendo che nel lavoro di Lewis si trovi un'estensione simbolica di quello del regista, si potrebbe quasi affermare un audace parallelo: è come se PTA si riconoscesse in questo mostruoso, impermeabile, imperscrutabile maestro tanto prevedibile nella perfezione tecnica quanto incapace di sostenerne il genio, di darne conto a se stesso. Si trova in questo limbo emotivo, perennemente bloccato nella catatonia di una memoria traumatizzata, e trova questo solidale sostegno in una donna che d'altra parte non ha altro che gli interessi se non l'amore inspiegabile, a tratti unilaterale, per quello che è un uomo drogato dai demoni interiori, troppo assuefatto all'idea di sé per restituire qualcosa che non sia una distanza ponderata.

Non si arriva mai veramente a un punto in questa perversa relazione che procede nel senso di una regressione infantile e mutuamente sadica, ma c'è tuttavia da parte dei personaggi un profondo senso di smarrimento l'uno nell'altro, una assurda - ma non per questo meno bella - edificazione di fiducia reciproca che conforta il fondo acquitrinoso del discorso di Anderson: questo è il solo modo in cui può funzionare, in cui tutto assume un senso, ogni pezzo trova il suo posto.

Il rigido contegno che accompagna tutta la lenta costruzione del film - dalle raffinate soluzioni visive al linguaggio del corpo estremamente affettato, ricercato - si placa solo davanti all'imprevisto, mai così inviso come quando si pone tra l'Artista e la sua creazione mettendone in risalto le insicurezze, e quindi interrompendone il flusso dei pensieri, minandone la rigidità della forma. È il "fanciullo interiore", quello mai dimenticato ma abbandonato nel subconscio all'ombra di chi ora fa luce, a dover uscire per trarre via da sé quel controllo che va necessariamente allentato; è un film sulle vulnerabilità di un amore che richiede una calma contemplazione interiore e un lungo e paziente lavoro di intaglio, in cui la convenzione è derisa in un impeto di ribelle autoflagellazione per esplorare la dinamica del processo umano: dal Freddie Quell di J. Phoenix, reduce traumatizzato dalla guerra e afflitto dal ricordo deluso della ragazza amata, che si sottoponeva alla terapia di regressione del Master Lancaster Dodd, al Maestro che deve egli stesso ritrovare quella voce interna e per guarirsi deve stare male e quindi autorigenerarsi.

Il ruolo sacrificale di Alma sarà, ancora una volta, quello di completare l'uomo ma soprattutto di integrare la visione dell'Artista perché questi possa riconoscersi nella sua stessa arte; il segreto sarà, da parte di quella donna, diventare essa stessa non tanto la Musa, quanto effettivamente la creazione, farsi plasmare nell'immagine materna così che l'artista possa amare la propria creazione, amare e ricongiungersi con quella parte di sé che crea e che giace, quiescente, nell'oblio doloroso per poi inevitabilmente risalire come un fiotto di bile. Il suo ruolo sarà salvarlo da se stesso.

Non è un film facile, quello di PTA, né un film in cui sia emotivamente semplice penetrare, ma parla con gli occhi dei suoi attori e possiede una semplicità intrinseca nelle sue inquadrature che parla più di mille parole; meno sofisticato (ma anche meno ironico) certamente del precedente Inherent Vice, il rapporto duale torna al centro del discorso come lo era stato più o meno in tutti i film precedenti da Magnolia (escluso) in poi. Dove andrà da qui in poi, il multiforme genio di PTA non è dato saperlo, ma sarà un piacere come sempre essere lì ad aspettarlo.


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