lunedì 24 novembre 2014

Grand Budapest Hotel


84 - Grand Budapest Hotel (novembre 2014)




Per il suo ultimo film Anderson sceglie questa volta per ambientazione il maestoso Grand Budapest Hotel, simbolo di una consuetamente bizzarra storia d'amicizia, quella fra Gustave H, il suo concierge, e Zero Moustafa, il "lobby boy", sullo sfondo fantastico di un'Europa immaginaria da qualche parte a cavallo fra le due guerre, negli anni '30.

Apparentemente non c'è molto in questo film che non fosse contenuto già nel precedente cinema di Anderson o che ne segni una novità, ma in qualche modo ne è però allo stesso tempo la quintessenza, la sublimazione: come nel recente Moonrise Kingdom si rinnova la centralità di un'affinità temprata dalle ostilità circostanti e messa alla prova da un amalgama incerto di personaggi stilizzati, oltre il quale il ricorsivo tema della fuga può trovare nuovamente sfogo.

Ma pur mantenendone saldo il tono, questa volta il regista si avventura più per sentieri impervi, includendo elementi di una severità mai vista prima: scava tutto intorno ai suoi due protagonisti, e al loro stravagante rapporto (e al suo soggettivo rapporto con loro prima ancora), una specie di nicchia, di riparo ideale da eventi tragici o grottescamente drammatici che poi traduce nel suo usuale gergo autoriale pervadendolo di una morbida ironia, confondendo l'immaginario lucente di un'illusione con l'esattezza visiva di uno scenario che gli fa da contraltare.

I suoi film sono perfettamente riconoscibili, codificati nella sua impronta barocca, nell'affettazione comica enfatizzata attraverso il non-sense, nella banda di habituè di cui si contornia e nella vivace caratterizzazione dei suoi sempre memorabili personaggi; anche qui, fedelmente, fra idiosincrasie e stranezze, la loro costruzione è tenace, intima, ossessiva, impulsiva... e sorprendentemente veloce, come la storia che si delinea ed il suo modo di raccontarla.

È un Anderson in grandissima forma quello che vediamo qui, che imprime un ritmo pazzesco ad ogni scena, simbiotizzando ogni dialogo con le inquadrature, lasciando che il sonoro vi entri naturalmente quasi a cadenzare la schizofrenia visiva cui segue quella di una narrazione, molto tipica, che in effetti non ha un mordente particolare e che pur ricalcando gli elementi prioritari del suo cinema d'avventura subisce la manifestazione di una scrittura un po' più caotica e dispersiva del solito; e che in assenza di tutta questa impalcatura rischierebbe di vedersi soccombere su se stessa.

Ma il film con le sue prospettive forzate e i suoi ritmi convulsi ce lo fa dimenticare perché non lascia letteralmente il tempo di metabolizzarne il dinamismo, fra ripetute carrellate orizzontali, vignette, trucchi visivi, e ansiogeni movimenti di macchina a cercare i suoi personaggi, con una camera quasi violentata per assecondare la pulsione frenetica di un'urgenza imprecisata; una struttura che si mostra apertamente nelle didascalie, nelle illustrazioni e in una organizzazione spiccatamente romanzesca proprio come a voler accreditare le opere di Stefan Zweig, da cui trae fondamento.
Ogni immagine è una paradisiaca coltre di sfaccettature, perfezionata nella sua lucidità e servita alacremente alla sensibilità dello spettatore.

La progressione che si staglia davanti al privilegiato occhio di quest'ultimo è quella di un'assurda cronaca, in quadri e parole, sostenuta "solo" dalla bellezza di ciò che si vede e, alla fine, anche di ciò che non si può vedere; Anderson non esce allo scoperto, seppellisce i significati fra le righe delle bizzarrie dei suoi protagonisti, non è mai banale, è invece raffinato e sofisticato e pian piano restituisce la nuda essenza di un legame affettivo che resiste all'eventuale inverosimiglianza dello stesso (o degli eventi che lo formano); attua, infine, un'opera di alleggerimento, sostituendo uno ad uno ai suoi stessi vezzi figurativi un dolore che affoga lentamente lontano dal suo cuore, e la cui eco poetica ed artistica ha lo stesso peso illusorio dell'evasione romantica, colorata e trascendente del mondo inventato dal suo autore che, ugualmente, si scopre striata di una ferale fatalità.

A risaltare è un film a cui la netta contrazione dei tempi gioca a favore piuttosto che il contrario e le cui interpretazioni (soprattutto di Ralph Fiennes, ciliegina sopra ad un un cast come se ne vedono pochi) ne escono, se possibile, avvalorate in accento e profondità.
La sua marcia non conosce tregua, prende lo spettatore e lo avviluppa, lasciando dietro ogni angolo più di qualche stimolo a proseguire nella curiosità.
Se la narrazione è a presa rapida, l'immagine è un battito di ciglia: nella meravigliosa istantaneità visiva che Anderson realizza c'è tutta la tecnica registica desiderabile ed immaginabile lasciata a danzare fra le scenografie inenarrabili di Adam Stockhausen e Anna Pinnock, gli oggetti di scena, i costumi immaginifici della stessa Canonero di Barry Lyndon, l'uso delle luci e dei colori sgargianti dal grande contrasto della fotografia del fidato Yeoman, in un culto della messa in scena sbalorditivo in cui ogni dettaglio, molto più che curato, rapisce l'occhio sottraendolo quasi alla sostanza per condurlo all'affermazione prepotentemente della forma.

Con la sua eleganza compositiva, la ricercatezza e la compostezza di una scena sempre ricca di significati nascosti e di riferimenti, il film è mozzafiato e salva in parte o del tutto le piccole lacune di una sceneggiatura più sconnessa e meno riuscita di altre delle quali però non si avverte il peso, proprio perché il mestiere di Anderson la rende comunque avvincente.

Là dove qualcuno risulterebbe invasivo, fastidioso, ripetitivo, Anderson torreggia raccontando di una commedia niente affatto colossale, facendo collimare il mezzo espressivo con una visione ben chiara di quello che vuole, o non vuole, davanti alla cinepresa. Con un effetto ammaliante.
Chiunque ami il cinema amerà questo film.

Opera matura e consapevole, piena di tutta la cifra stilistica della cinematografia di Anderson che segna un nuovo apice nel suo più materiale disegno artigianale, appassionato; stracolmo di cinema come il Cinema moderno sa esserlo sempre meno; e, se anche non sarà il più organico o consistente dei suoi film, poco importa: gli universi che è in grado di creare e di far sopravvivere alla memoria hanno una potenza molto maggiore della singolarità delle storie o dei personaggi in sé.
Qualcosa che vale sicuramente un po' del nostro tempo.



Scena scelta










mercoledì 19 novembre 2014

God bless America


83 - God bless America (novembre 2014)




Dettaglio, lenta carrellata verticale dall'alto, leggeri ed insofferenti movimenti di macchina, ralenti; mentre la voce fuori campo di Frank Murdoch racconta il decadimento della sua vita in una società che lo ha portato alla depressione.
Stupidità, maleducazione, cattiveria gratuita e sadismo hanno ormai preso pieno possesso di un Paese cinico che si guarda allo specchio e si compiace di quel che vede, che non dà cenno di vergognarsi di non conoscere alcun limite della decenza.

Sono solo i primi minuti di uno scoppiettante incipit, e sono anche quelli più fatalmente incisivi di un film tremendamente divertente almeno quanto corrosivo è il suo contenuto ed ispirato il suo linguaggio.

L'affresco al vetriolo che Goldthwait, autore ed in precedenza attore comico, compie della società, della sua società, è quello di una tragicità talmente estesa ed impossibile da commisurare che l'unico modo per affrontarla è l'esagerazione.
Attraverso l'analisi di Frank, il pastiche televisivo e i dialoghi serrati, emerge un quadro parossistico da cui nessuna figura, per quanto autoritaria sia, esce indenne, con i media a guidare il grande carrozzone.
Dove le buone intenzioni si trasformano in diffidenza e accendere il cervello è solo sinonimo di frustrazione.

Con una difficile situazione personale, resa ancor più dolorosa dal rifiuto della figlia di vederlo, dalla perdita del lavoro e da gravi problemi di salute, allora Frank (un grande Joel Murray) è naturalmente portato a vedere nella degenerante realtà che gli sta attorno quegli stessi negativi tratti evolutivi (involutivi?) che sembra rimasto l'unico a non riuscire a sopportare.

Provocatoria, caustica, dissacrante, la satira del film di Goldthwait fa pieno centro nella sua continua deformazione e trova, nel portare ogni singolo episodio alla sua estrema caricatura, un risultato di rara efficacia comica che, fra il più sofisticato politically incorrect e la più brutale dark comedy, fa alla società Americana e ai suoi significati politico-comunicativi più o meno quello che Kevin Smith fece nei confronti della religione organizzata e della Chiesa con Dogma, ma con più rabbia in corpo.

Con molte similitudini, come un angelo sterminatore, e riferimenti (non ultimo il Bonnie and Clyde di Arthur Penn) Frank esplode e si trova davanti al dilemma morale che lo comprende ormai dentro di sé, perché lui fa parte dello stesso marcescente processo di de-civilizzazione in cui la nobiltà d'animo va estinguendosi e ogni sforzo di resistere passivamente è insopportabile, e trova nell'improbabile compagnia della sedicenne Roxy la spalla per attuare un disegno più grande, andando peraltro a comporre una delle coppie più deliranti che si possano riconoscere.

Fra gag feroci da vecchio burlesque ed un nativo contesto trash che trabocca di sarcasmo da sé, il film fa bella (e ovviamente ironica) mostra di immagini che sarebbe invece la dignità dominante a dover censurare, una sensibilità che è venuta a mancare; cresce e diventa, nella sua opera di destrutturazione, la realtà stessa che combatte al fine di mostrarne il decadimento e l'assurdità; rimescola nel torbido delle coscienze, ormai incapaci di purezza persino nei più innocenti elementi della propria comunità o supposti tali ed offre un panorama di sconforto morale e intellettuale che finisce con il giustificare la violenza e le sue implicazioni in un'inesorabilità narrativa molto spettacolosa e parodisticamente Americana, ma che va ben lontana dal voler trarre lezioncine o facili soluzioni espiatorie.

Ok, la violenza fa schifo, ma in una società anestetizzata, spietata e senza filtri, non ne è che la diretta (e conclusiva) conseguenza.
In questa folle rincorsa al clamoroso, l'unico modo per attirare l'attenzione ed offrire un punto di vista originale è quello di sottostare alle leggi del branco. "È la maggioranza, e vinceranno loro", sembra dire il film, "ma almeno prima si può combattere".


Non riguarda il salire in cattedra, o un'affermazione di superiorità. È semplicemente un urlo liberatorio, generato dalla solitudine e dalla sopraggiunta incapacità di riconoscersi nei riferimenti del posto in cui si vive.
È vero, c'è un codice, quindi non tutto va completamente a vuoto, ma è proprio nella regressione umana alle sue regole più primitive e agli istinti più viscerali che si perfeziona il cerchio: lì dove ogni genere di elevazione è impossibile e non resta altro che un triste distaccamento dal tutto, e quindi da se stessi.

Certo, man mano che avanza il plot scopre qualche debolezza nell'impianto narrativo e si stanca un po' troppo presto del proprio virtuosismo; e certo, nel procedere lo abbandona un po' in fretta quel compiaciuto senso di sé, ma l'esito è lo stesso obiettivamente esilarante.

Cos'altro chiedere ad un film che riesce ad essere così completamente onesto?


Scena scelta










martedì 18 novembre 2014

Locke


82 - Locke (novembre 2014)




Per la serie "grandi film a basso budget", c'è questo gioiellino britannico diretto da Steven Knight.

Si chiama Locke, come il suo protagonista che per tutto il corso del film si vedrà affrontare il viaggio da Birmingham, in cui ha una famiglia ed un lavoro di responsabilità, a Londra, città in cui vive Bethan che, si scoprirà, sta per avere il figlio da lui concepito al di fuori del suo matrimonio tempo prima.

Locke allora si lascia tutto alle spalle, la sua Birmingham, la moglie, la famiglia, la partita alla TV con i figli, l'impegno lavorativo mastodontico che solo lui è in grado di portare avanti.
Fugge, ma in realtà va incontro alle sue responsabilità, affrontando un senso di colpa di cui la precedente storia di suo padre ha alimentato lo spettro.

Questa piccola perla, recitata interamente a bordo di un'automobile con un Tom Hardy in modalità one-man-show e solo un apparecchio telefonico installato on board ad inserire nel film le voci dei personaggi secondari permettendo così i dialoghi di cui è straripante, è uno di quei lavori che alla fine, dopo averli visti, ti lasciano con grande soddisfazione.

Basta un'idea (semplice), una sceneggiatura scritta con ritmi ben scanditi, scambi di battute continui, salterelli da una vicenda all'altra ed un sottotesto a cui Hardy attinge da grande attore che sa lavorare da solo (come dimostrato anche in Bronson) con la sua presenza da palcoscenico nel dare vita ad un personaggio fra i più enigmatici, moralmente complessi e narrativamente coinvolgenti che si siano visti di recente, per fare dono a questo film di una spontanea tensione, capace di sostenerlo fino alla fine.

Ma quello che più è sorprendente è il risultato finale tenute in considerazione le limitazioni di uno script che prevedeva, come detto, l'impiego principale di un unico attore in camera e soprattutto quelle fisiche di uno spazio che rimane lo stesso per 90 minuti, proprio come a teatro. Se in Bronson quel palcoscenico era reale, qui si tratta del sedile di una BMW, ma il concetto è lo stesso.

Knight (che lo ha anche scritto) si avvale di tutta una serie di lunghe inquadrature fisse inframezzate solo da qualche scorcio visivo delle luci della strada intorno, primissimi piani claustrofobici e un movimento di macchina azzerato.
Come se fosse un invisibile passeggero di questo on-the-road movie che non ne ha per nulla i connotati, il regista gli punta la cinepresa in faccia e lo assilla come le telefonate che riceve, e che lui cerca di riportare alla calma della ragione.

In questo thriller urbano minimalista, ancora una volta notturno con l'oscurità ad avvolgere completamente il suo protagonista, proprio come a suggerire la simbiosi fra dentro e fuori, come a sostenere il suo contrasto interiore, il background che gli viene costruito è talmente riuscito, dopo una buona mezzoretta di preliminare caratterizzazione descrittiva (attraverso le parole scambiate al telefono) che, sebbene i dialoghi si facciano via via un po' più scialbi e la storia subisca un naturale inaridimento, il magnetismo non si esaurisce neanche per un minuto.

Una storia solitaria, di redenzione e di determinazione etica (non casuali i riferimenti alla filosofia razionale di John Locke, da cui prende il nome) che è emotivamente convincente, il cui storytelling saprebbe raccontare un trucco o due su come si mantiene la suspence e che, convenzionalità e mezzi di produzione a parte, non ha molto da invidiare a tante altre pellicole ingiustamente più famose.


Scena scelta











lunedì 17 novembre 2014

White bird in a blizzard


81 - White bird in a blizzard (novembre 2014)




Basato sull'omonimo romanzo di Laura Kasischke, White Bird in a Blizzard racconta la storia di Kat Connors, una ragazza la cui vita ordinario-familiare viene turbata dall'improvvisa e misteriosa scomparsa nel nulla della madre, oppressa e morbosamente oppressiva.

Araki scrive e dirige un film che è costruito tutto su superfici riflettenti e apparenze, che come al suo solito riprende le tematiche intimistiche e campy della gioventù post-adolescenziale della sua epoca, immergendole nelle atmosfere eteree e patinate in cui i suoi personaggi perdono se stessi un po' alla volta mentre tentano di venire a capo dell'intrico.

Il mistero è servito dalla perfetta attitudine di un'Eva Green bella quanto inquietante (tanto per cambiare) che assieme al sempre ottimo Christopher Meloni (Oz) dà credibilità ad un ritratto coniugale in lento disfacimento, sotto agli occhi della nichilista Kat, anche narratrice della storia.

Quest'ultima è interpretata da una sempre più convincente Shailene Woodley. L'attrice, che fa parte della stessa lega delle Jennifer Lawrence, ha ormai superato lo status di rivelazione per affermare prepotentemente il proprio indiscutibile talento che anche qui, come soprattutto nel recente The Fault in our stars, si palesa apertamente nel permetterle di compensare per larghi tratti ad un'architrave narrativa un po' vacillante.

Per gran parte del tempo, Araki sembra disinteressarsi degli eventi, distogliendo l'occhio dall'urgenza del misfatto che accoglie i primi minuti di pellicola; lo fa, in realtà, per addentrarsi più nel mondo della sua protagonista, di cui oltre allo spaccato familiare ci mostra tutte quelle influenze culturali appartenenti alla Generazione X che ricorrono nel suo cinema, fra onnipresenti walkmen, riferimenti all'omosessualità e alla sessualità esplicita, dialoghi spogliati di pudicizia e una ricercata colonna sonora severamente in debito con la new wave degli anni '80 a partire dai Cocteau Twins che monopolizzano le prime sequenze del film proprio come il suo chitarrista Robin Guthrie faceva dieci anni fa in Mysterious Skin.

La storia portante è così quella formativa e canonica che ricalca leggermente il suo ultimo film davvero riuscito (Mysterious Skin) pur senza possederne l'irriverente autenticità o la crudezza, ma ri-tracciando la grammatica dello spettro emotivo dei valori suburbani dei ragazzi con cui Araki era cresciuto.
Fra questi, i più evidenti sono sicuramente il pessimismo e l'incertezza del futuro, dietro alla traballante struttura familiare che non dà riferimenti ed una rottura con gli schemi tradizionali inculcati dalla società.

La peculiarità dell'opera del regista californiano, a prescindere che piaccia o meno, è quella di non perdere mai quell'invadente tocco formalista che lo contraddistingue e che, anche qui, finisce con il prendere il sopravvento su quasi ogni cosa, storia e attori compresi.
Anche se qui, va detto, siamo di fronte ad uno dei film meno trasgressivi e consapevolmente forzati della sua filmografia; ma le sue atmosfere rimangono la cosa più indimenticabile (o meno dimenticabile) e anche qui non tradisce le attese.

A tutto questo si aggiunge poi una trama snella, semplice e piuttosto lineare che si tinge di thriller dopo aver flirtato con il Melò in salsa surreale e che spiega se stessa dopo aver rimosso qualche velo di troppo anche da una cinepresa che riflette visivamente la sua personale prospettiva onirica e fantastica del cinema, dentro una sceneggiatura che si dimostra comunque non priva di frecce nella sua faretra.

Araki smarrisce un po' i ritmi narrativi, perdendosi un po' fra quelle stesse visionarie tormente in cui seppellisce le banalità di una superficie che ne nasconde altre al suo interno e del cui significato allegorico carica gli elementi in gioco, alternando la lucida fotografia delle scene quotidiane a quella più sfocata delle proiettive intromissioni del subconscio; si mostra un po' ondivago nel tenere insieme il suo film e non dà sempre la sensazione di sapere cosa vuole dirci.

Ma stordisce, affascina, incanta. Nel sottrarre ai suoi attori ne trova la solidità, anche grazie ad un cast particolarmente attraente.
Un'esasperante vaghezza di immagini sovrapposte che ci accompagna fino alla fine, e che si rivela dannatamente piacevole.


Scena scelta












domenica 9 novembre 2014

Boyhood


80 - Boyhood (novembre 2014)




Mason guarda in alto, verso il cielo, nella prima istantanea di questo meraviglioso film: è un bambino di appena sette anni, confuso come si può esserlo a quell'età, che con lo sguardo rivolto all'insù si domanda, probabilmente, fra le altre cose, cosa gli riserverà la sua vita in futuro.
Lo imparerà, a poco a poco nel corso di ognuno dei 166 minuti del film, al termine dei quali di anni ne avrà diciannove.

Linklater, come spesso gli accade, prende la cinepresa e ridefinisce i canoni cinematografici, sempre con il tempo come ingrediente principale: se nella trilogia dei "Before" una giovane coppia si vedeva attraversare le diverse fasi del proprio rapporto, ogni volta con gli anni a separarne e a maturarne i tratti differenziali, qui la macchina del tempo che costruisce è proprio l'idea portante di un film che rischia di passare per un capolavoro immediato già nelle potenzialità smisurate del concetto, andando a rappresentare un unicum.

Nel dilatare il tempo (anche della pellicola, non casualmente) proprio sotto ai nostri occhi ci immerge e ci fa riflettere sul medesimo, su quanto sia effimero cercare di dargli un significato, perché il significato è cristallizzato in ogni attimo che lo compone.

Il tempo come lo concepiamo noi, come lo concepiscono i personaggi del film, è così inconsapevolmente presente, incalzante ed inesorabile che quello che effettivamente siamo in grado di vedere ci cresce davanti, evolvendosi naturalmente come le prove dei suoi attori.
In un'ottica più distorta della vita reale, ma meno distorta del solito schematismo narrativo del cinema mainstream (la fabula segue pedissequamente l'ordine naturale), ci mostra cosa significhi cambiare, osservare, abbandonare i nostri sogni d'infanzia e venire a contatto con il mondo sì modificato, ma non dal tempo: dalle persone.
Il passato non è che un riavvolgimento dei ricordi; il presente è ciò con cui costruiamo il valore dei ricordi della nostra esistenza, in ogni momento, ma le cose, da sole, si limitano ad esistere. Siamo noi che cambiamo, è la nostra percezione che vaga e coglie il senso d'insieme.

E quale strumento migliore del Cinema, abituato ad immortalare e consegnare alla storia l'attimo, per affermare questo potente concetto?

Se il Cinema ha sempre rivestito questa funzione artistica e storica (funzione che condivide con la Fotografia, proprio l'hobby di Mason), quest'attimo che nient'altro è se non il presente, l'oggi, l'adesso, è in continuo divenire e si presta ad un confronto all'interno del film stesso.

Come il personaggio della Arquette avrà a dire alla fine, "credevo di avere più tempo". Noi l'abbiamo vista disporre di tutto quel tempo, come un Dio che osservasse quello che ha creato, o come uno spettatore che ne osservasse l'esito da un punto di vista neutrale.

Linklater riesce a regalarci questa soddisfazione, questa completezza, armonizzandola con poesia, sentimento, aggiungendo suggestioni, giocando con l'immaginazione e con la parola e coinvolgendo nel suo film la stessa figlia ed amici di vecchia data, come Ethan Hawke. Questo senso di film intimo si respira e si tocca.

Un film che parla di crescita, lo fa sì dalla prospettiva di un bambino (appunto, "infanzia") ma è un elemento che accomuna ognuno dei suoi personaggi, e non potrebbe essere diversamente: 12 anni sono stati impiegati, a periodi alterni, per girarlo. 12 anni in cui gli attori sono invecchiati, ovviamente, e cambiati come i loro alter ego nel film.
È cambiato anche il loro approccio al progetto, il loro modo di recitare.
Vincendo gli ostacoli tecnici, realizzativi, legali (per dirne una la legislazione statunitentese non ammette la possibilità per un attore di sottoscrivere un impegno contrattuale per più di 7 anni) il sapore di quest'esperienza è dei più dolci, proprio in ragione della forza rivoluzionaria che ha pervaso l'attesa, l'intenzione (artistica di per sé) di creare qualcosa di mai visto prima.


Linklater può non aver prodotto la miglior sceneggiatura della sua carriera qui, ma ha di sicuro prodotto il suo miglior film: se per Hitchcock, che incarnava il modo di pensare hollywoodiano, il cinema era "la vita con le parti noiose tagliate", Boyhood è cinema sperimentale, a tratti neorealista, personale, e riempito dell'esperienza umana, che è in grado di indurre una riflessione sul viaggio mostrandocene direttamente e delicatamente i segni.
Boyhood è proprio "le parti tagliate", è la vita stessa, da cui attinge l'ispirazione.

Boyhood è esattamente questo, pur nel suo sforzo di raccogliere i momenti cruciali (per un totale di 143 scene) o alcuni di essi nello sviluppo dei suoi personaggi: raramente punta alla drammatizzazione, l'atmosfera è del tutto comune, familiare.
Le parentesi apparentemente insignificanti, i dialoghi moderati, i momenti di imbarazzo, i silenzi inespressivi; è il mondo che cambia davanti a noi, mentre non riusciamo ad accorgercene, a carpirne l'essenza.

All'impressione esteriore di volti e corpi in progressiva trasformazione si sovrappone un'interiorità in divenire che modella le relazioni e muove le prospettive, che si risolve in un velo di quasi spiritualità.

Un lavoro incredibile da sostenere, appassionato, stimolante, originale.

Più sul sentire che sul pensare, più sul vivere che sul senso della vita.

Se ne parlerà ancora, e molto.
Da non perdere.


Scena scelta











martedì 4 novembre 2014

Frank


79 - Frank (novembre 2014)




Jon ama canticchiare in cerca dell'ispirazione, la melodia giusta. Ha discrete abilità musicali ma mediocri idee compositive, oltre ad una singolare ossessione per il successo.
Cerca una sua personale originalità e la trova invece in Frank, geniale musicista che ha comunque la stravagante abitudine di indossare costantemente una grande testa di cartapesta.

Ne fa l'incontro nella prima delle tante scene surreali ed iperboliche che delineeranno il ritratto di una band dal nome impronunciabile (quella di Frank, quella in cui Jon entrerà) che è come un piccolo e bizzarro cerchio protetto all'interno di uno molto più sconfinato, quello della normalità.
La voce interiore è (auto)isolamento, è ricerca dell'eccesso, è la maledizione degli stereotipi e la fuga dalle realtà fabbricate e dolorose del mondo contaminato ed omologante.
Così Frank conquista il giovane Jon, aiutandolo a scoprire se stesso. In cambio, ne viene blandito e sempre più conquistato dalla sua smania di sfondare, di piacere.


In perenne bilico fra la commedia nera (a tratti quasi slapstick) ed il dramma esistenziale, Frank è un film che si eleva sulla mediocrità dei film di oggi proprio per il suo rifiuto ostinato ad essa.
Dentro, c'è una storia complessa, che parla di malattie mentali, tendenze suicide, perdita di sé, sconvolgimenti in serie. Dell'incapacità di accettare e di accettarsi secondo le regole imposte.

Mette in discussione tutto quello che pensiamo di sapere (o pensiamo di voler sapere), rovescia cliché e prospettive; nella sua pretesa di lanciare un messaggio non è pretenzioso, nella sua implicita anaffettività si espande in una richiesta di affetto che è ben facile riconoscergli per empatia.
Frank è molti di noi, oggi, qui, in questo tempo.

Siamo circondati da una società normalizzante, che si nutre di numeri di visualizzazioni on-line, amici virtuali, hashtags e che ha un bisogno abnorme di socializzare con estranei in tempo reale per dare un senso alla propria esistenza.
In una diluizione sempre più evidente di significati ed invidualismi, e di perdita di contatto con la realtà, Frank sembra voler gridare con gentilezza la propria voce stonata all'interno dell'assordante vuoto creativo, ideologico, culturale che ci invade.

Con la (sorprendentemente buona) musica in un sottofondo farsesco e al contempo esilarante, quest'esperienza è una presa di coscienza interiore, un inno alla marginalità dell'essere, ma allo stesso tempo una condanna al lasciarsi giudicare con troppa facilità, sotto il rifuggire delle pressioni di quel grande cerchio che va stringendosi, pericolosamente ed inesorabilmente.
Allo stesso tempo riflette su se stesso, mette in guardia dal suo stesso entusiasmo, che può rivelarsi un inefficace filtro per orientarsi nelle insondabili profondità dell'animo umano, impedendoci di distinguere nella stratificata realtà.


Non c'è veramente elemento di questo film che non concentri su di sé un carico di ilarità e che non strida a contatto con gli altri esattamente nella stessa misura in cui disfunzionale è il suo gruppo musicale e, alle orecchie della normalità, inascoltabile è la loro musica (immancabile, poi, il Theremin per un tocco alternativo).
Tutto questo si traduce in un brusio, cacofonico o meraviglioso, opprimente o liberatorio, fine a se stesso o da aggiustare perché piaccia anche agli altri.

Ma l'imbarazzo non è tolto; quando la maschera vola via (effettiva o per metafora quella di uno schermo virtuale di un account youtube) ciò che resta è la nuda realtà ed una disillusione da scoprire persino fra i nomi di ipotetiche cittadine del Mid-West U.S.A.


Un film dal grande richiamo emotivo, che va ben oltre la mera affermazione di uno stato mentale e che deve alla sua originalità il merito principale della sua, totalizzante, bellezza.
Buffo senza essere ridicolo, toccante senza essere molesto, malato senza essere morboso, diverso senza sentirsi colpevole.

Fra le righe di un Frank interpretato con grande impatto da un nuovamente ottimo Fassbender ed ispirato (con faccia posticcia e tutto) al Frank Sidebottom di Chris Sievey, si muove uno strato di resistenza ontologica al cambiamento, all'imponderabilità di una grandezza travolgente e come ad accoglierne il risultato, prende forma il processo creativo dell'arte stessa e del pensiero che vi confluisce.

Una salvaguardia della sacralità di un Io Pensante, a volte decisamente ai limiti dell'eccentricità e del weirdo di cui questo film fa un edonistico sfoggio, limiti che però è sempre lasciato alla soggettività definire.

Si ride, si pensa, si è intrattenuti con sapienza; a volte si ha la tentazione di allontanarsene perché straniante, impenetrabile, confuso, ma il film di Abrahamson ha tutto per incantare qualunque tipo di spettatore sotto la sua scorza apparentemente hipster che lo inquadra in un certo tipo di cinema di cui altri esempi sono Dummy o Lars e una ragazza tutta sua.

Fra i tanti misteri che lo rivestono c'è quello di un cinema fresco, intimo, che racconta di un mistero ancora più grande dentro di sé: quello di fare film nel 2014 che non siano un vacuo spettacolo di energie profuse solo per stupire, ma che lasciano un solco dietro di sé e, in qualche modo, si servono della realtà piuttosto che il contrario.


Scena scelta