mercoledì 19 novembre 2014

God bless America


83 - God bless America (novembre 2014)




Dettaglio, lenta carrellata verticale dall'alto, leggeri ed insofferenti movimenti di macchina, ralenti; mentre la voce fuori campo di Frank Murdoch racconta il decadimento della sua vita in una società che lo ha portato alla depressione.
Stupidità, maleducazione, cattiveria gratuita e sadismo hanno ormai preso pieno possesso di un Paese cinico che si guarda allo specchio e si compiace di quel che vede, che non dà cenno di vergognarsi di non conoscere alcun limite della decenza.

Sono solo i primi minuti di uno scoppiettante incipit, e sono anche quelli più fatalmente incisivi di un film tremendamente divertente almeno quanto corrosivo è il suo contenuto ed ispirato il suo linguaggio.

L'affresco al vetriolo che Goldthwait, autore ed in precedenza attore comico, compie della società, della sua società, è quello di una tragicità talmente estesa ed impossibile da commisurare che l'unico modo per affrontarla è l'esagerazione.
Attraverso l'analisi di Frank, il pastiche televisivo e i dialoghi serrati, emerge un quadro parossistico da cui nessuna figura, per quanto autoritaria sia, esce indenne, con i media a guidare il grande carrozzone.
Dove le buone intenzioni si trasformano in diffidenza e accendere il cervello è solo sinonimo di frustrazione.

Con una difficile situazione personale, resa ancor più dolorosa dal rifiuto della figlia di vederlo, dalla perdita del lavoro e da gravi problemi di salute, allora Frank (un grande Joel Murray) è naturalmente portato a vedere nella degenerante realtà che gli sta attorno quegli stessi negativi tratti evolutivi (involutivi?) che sembra rimasto l'unico a non riuscire a sopportare.

Provocatoria, caustica, dissacrante, la satira del film di Goldthwait fa pieno centro nella sua continua deformazione e trova, nel portare ogni singolo episodio alla sua estrema caricatura, un risultato di rara efficacia comica che, fra il più sofisticato politically incorrect e la più brutale dark comedy, fa alla società Americana e ai suoi significati politico-comunicativi più o meno quello che Kevin Smith fece nei confronti della religione organizzata e della Chiesa con Dogma, ma con più rabbia in corpo.

Con molte similitudini, come un angelo sterminatore, e riferimenti (non ultimo il Bonnie and Clyde di Arthur Penn) Frank esplode e si trova davanti al dilemma morale che lo comprende ormai dentro di sé, perché lui fa parte dello stesso marcescente processo di de-civilizzazione in cui la nobiltà d'animo va estinguendosi e ogni sforzo di resistere passivamente è insopportabile, e trova nell'improbabile compagnia della sedicenne Roxy la spalla per attuare un disegno più grande, andando peraltro a comporre una delle coppie più deliranti che si possano riconoscere.

Fra gag feroci da vecchio burlesque ed un nativo contesto trash che trabocca di sarcasmo da sé, il film fa bella (e ovviamente ironica) mostra di immagini che sarebbe invece la dignità dominante a dover censurare, una sensibilità che è venuta a mancare; cresce e diventa, nella sua opera di destrutturazione, la realtà stessa che combatte al fine di mostrarne il decadimento e l'assurdità; rimescola nel torbido delle coscienze, ormai incapaci di purezza persino nei più innocenti elementi della propria comunità o supposti tali ed offre un panorama di sconforto morale e intellettuale che finisce con il giustificare la violenza e le sue implicazioni in un'inesorabilità narrativa molto spettacolosa e parodisticamente Americana, ma che va ben lontana dal voler trarre lezioncine o facili soluzioni espiatorie.

Ok, la violenza fa schifo, ma in una società anestetizzata, spietata e senza filtri, non ne è che la diretta (e conclusiva) conseguenza.
In questa folle rincorsa al clamoroso, l'unico modo per attirare l'attenzione ed offrire un punto di vista originale è quello di sottostare alle leggi del branco. "È la maggioranza, e vinceranno loro", sembra dire il film, "ma almeno prima si può combattere".


Non riguarda il salire in cattedra, o un'affermazione di superiorità. È semplicemente un urlo liberatorio, generato dalla solitudine e dalla sopraggiunta incapacità di riconoscersi nei riferimenti del posto in cui si vive.
È vero, c'è un codice, quindi non tutto va completamente a vuoto, ma è proprio nella regressione umana alle sue regole più primitive e agli istinti più viscerali che si perfeziona il cerchio: lì dove ogni genere di elevazione è impossibile e non resta altro che un triste distaccamento dal tutto, e quindi da se stessi.

Certo, man mano che avanza il plot scopre qualche debolezza nell'impianto narrativo e si stanca un po' troppo presto del proprio virtuosismo; e certo, nel procedere lo abbandona un po' in fretta quel compiaciuto senso di sé, ma l'esito è lo stesso obiettivamente esilarante.

Cos'altro chiedere ad un film che riesce ad essere così completamente onesto?


Scena scelta










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