lunedì 24 novembre 2014

Grand Budapest Hotel


84 - Grand Budapest Hotel (novembre 2014)




Per il suo ultimo film Anderson sceglie questa volta per ambientazione il maestoso Grand Budapest Hotel, simbolo di una consuetamente bizzarra storia d'amicizia, quella fra Gustave H, il suo concierge, e Zero Moustafa, il "lobby boy", sullo sfondo fantastico di un'Europa immaginaria da qualche parte a cavallo fra le due guerre, negli anni '30.

Apparentemente non c'è molto in questo film che non fosse contenuto già nel precedente cinema di Anderson o che ne segni una novità, ma in qualche modo ne è però allo stesso tempo la quintessenza, la sublimazione: come nel recente Moonrise Kingdom si rinnova la centralità di un'affinità temprata dalle ostilità circostanti e messa alla prova da un amalgama incerto di personaggi stilizzati, oltre il quale il ricorsivo tema della fuga può trovare nuovamente sfogo.

Ma pur mantenendone saldo il tono, questa volta il regista si avventura più per sentieri impervi, includendo elementi di una severità mai vista prima: scava tutto intorno ai suoi due protagonisti, e al loro stravagante rapporto (e al suo soggettivo rapporto con loro prima ancora), una specie di nicchia, di riparo ideale da eventi tragici o grottescamente drammatici che poi traduce nel suo usuale gergo autoriale pervadendolo di una morbida ironia, confondendo l'immaginario lucente di un'illusione con l'esattezza visiva di uno scenario che gli fa da contraltare.

I suoi film sono perfettamente riconoscibili, codificati nella sua impronta barocca, nell'affettazione comica enfatizzata attraverso il non-sense, nella banda di habituè di cui si contornia e nella vivace caratterizzazione dei suoi sempre memorabili personaggi; anche qui, fedelmente, fra idiosincrasie e stranezze, la loro costruzione è tenace, intima, ossessiva, impulsiva... e sorprendentemente veloce, come la storia che si delinea ed il suo modo di raccontarla.

È un Anderson in grandissima forma quello che vediamo qui, che imprime un ritmo pazzesco ad ogni scena, simbiotizzando ogni dialogo con le inquadrature, lasciando che il sonoro vi entri naturalmente quasi a cadenzare la schizofrenia visiva cui segue quella di una narrazione, molto tipica, che in effetti non ha un mordente particolare e che pur ricalcando gli elementi prioritari del suo cinema d'avventura subisce la manifestazione di una scrittura un po' più caotica e dispersiva del solito; e che in assenza di tutta questa impalcatura rischierebbe di vedersi soccombere su se stessa.

Ma il film con le sue prospettive forzate e i suoi ritmi convulsi ce lo fa dimenticare perché non lascia letteralmente il tempo di metabolizzarne il dinamismo, fra ripetute carrellate orizzontali, vignette, trucchi visivi, e ansiogeni movimenti di macchina a cercare i suoi personaggi, con una camera quasi violentata per assecondare la pulsione frenetica di un'urgenza imprecisata; una struttura che si mostra apertamente nelle didascalie, nelle illustrazioni e in una organizzazione spiccatamente romanzesca proprio come a voler accreditare le opere di Stefan Zweig, da cui trae fondamento.
Ogni immagine è una paradisiaca coltre di sfaccettature, perfezionata nella sua lucidità e servita alacremente alla sensibilità dello spettatore.

La progressione che si staglia davanti al privilegiato occhio di quest'ultimo è quella di un'assurda cronaca, in quadri e parole, sostenuta "solo" dalla bellezza di ciò che si vede e, alla fine, anche di ciò che non si può vedere; Anderson non esce allo scoperto, seppellisce i significati fra le righe delle bizzarrie dei suoi protagonisti, non è mai banale, è invece raffinato e sofisticato e pian piano restituisce la nuda essenza di un legame affettivo che resiste all'eventuale inverosimiglianza dello stesso (o degli eventi che lo formano); attua, infine, un'opera di alleggerimento, sostituendo uno ad uno ai suoi stessi vezzi figurativi un dolore che affoga lentamente lontano dal suo cuore, e la cui eco poetica ed artistica ha lo stesso peso illusorio dell'evasione romantica, colorata e trascendente del mondo inventato dal suo autore che, ugualmente, si scopre striata di una ferale fatalità.

A risaltare è un film a cui la netta contrazione dei tempi gioca a favore piuttosto che il contrario e le cui interpretazioni (soprattutto di Ralph Fiennes, ciliegina sopra ad un un cast come se ne vedono pochi) ne escono, se possibile, avvalorate in accento e profondità.
La sua marcia non conosce tregua, prende lo spettatore e lo avviluppa, lasciando dietro ogni angolo più di qualche stimolo a proseguire nella curiosità.
Se la narrazione è a presa rapida, l'immagine è un battito di ciglia: nella meravigliosa istantaneità visiva che Anderson realizza c'è tutta la tecnica registica desiderabile ed immaginabile lasciata a danzare fra le scenografie inenarrabili di Adam Stockhausen e Anna Pinnock, gli oggetti di scena, i costumi immaginifici della stessa Canonero di Barry Lyndon, l'uso delle luci e dei colori sgargianti dal grande contrasto della fotografia del fidato Yeoman, in un culto della messa in scena sbalorditivo in cui ogni dettaglio, molto più che curato, rapisce l'occhio sottraendolo quasi alla sostanza per condurlo all'affermazione prepotentemente della forma.

Con la sua eleganza compositiva, la ricercatezza e la compostezza di una scena sempre ricca di significati nascosti e di riferimenti, il film è mozzafiato e salva in parte o del tutto le piccole lacune di una sceneggiatura più sconnessa e meno riuscita di altre delle quali però non si avverte il peso, proprio perché il mestiere di Anderson la rende comunque avvincente.

Là dove qualcuno risulterebbe invasivo, fastidioso, ripetitivo, Anderson torreggia raccontando di una commedia niente affatto colossale, facendo collimare il mezzo espressivo con una visione ben chiara di quello che vuole, o non vuole, davanti alla cinepresa. Con un effetto ammaliante.
Chiunque ami il cinema amerà questo film.

Opera matura e consapevole, piena di tutta la cifra stilistica della cinematografia di Anderson che segna un nuovo apice nel suo più materiale disegno artigianale, appassionato; stracolmo di cinema come il Cinema moderno sa esserlo sempre meno; e, se anche non sarà il più organico o consistente dei suoi film, poco importa: gli universi che è in grado di creare e di far sopravvivere alla memoria hanno una potenza molto maggiore della singolarità delle storie o dei personaggi in sé.
Qualcosa che vale sicuramente un po' del nostro tempo.



Scena scelta










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