domenica 9 novembre 2014

Boyhood


80 - Boyhood (novembre 2014)




Mason guarda in alto, verso il cielo, nella prima istantanea di questo meraviglioso film: è un bambino di appena sette anni, confuso come si può esserlo a quell'età, che con lo sguardo rivolto all'insù si domanda, probabilmente, fra le altre cose, cosa gli riserverà la sua vita in futuro.
Lo imparerà, a poco a poco nel corso di ognuno dei 166 minuti del film, al termine dei quali di anni ne avrà diciannove.

Linklater, come spesso gli accade, prende la cinepresa e ridefinisce i canoni cinematografici, sempre con il tempo come ingrediente principale: se nella trilogia dei "Before" una giovane coppia si vedeva attraversare le diverse fasi del proprio rapporto, ogni volta con gli anni a separarne e a maturarne i tratti differenziali, qui la macchina del tempo che costruisce è proprio l'idea portante di un film che rischia di passare per un capolavoro immediato già nelle potenzialità smisurate del concetto, andando a rappresentare un unicum.

Nel dilatare il tempo (anche della pellicola, non casualmente) proprio sotto ai nostri occhi ci immerge e ci fa riflettere sul medesimo, su quanto sia effimero cercare di dargli un significato, perché il significato è cristallizzato in ogni attimo che lo compone.

Il tempo come lo concepiamo noi, come lo concepiscono i personaggi del film, è così inconsapevolmente presente, incalzante ed inesorabile che quello che effettivamente siamo in grado di vedere ci cresce davanti, evolvendosi naturalmente come le prove dei suoi attori.
In un'ottica più distorta della vita reale, ma meno distorta del solito schematismo narrativo del cinema mainstream (la fabula segue pedissequamente l'ordine naturale), ci mostra cosa significhi cambiare, osservare, abbandonare i nostri sogni d'infanzia e venire a contatto con il mondo sì modificato, ma non dal tempo: dalle persone.
Il passato non è che un riavvolgimento dei ricordi; il presente è ciò con cui costruiamo il valore dei ricordi della nostra esistenza, in ogni momento, ma le cose, da sole, si limitano ad esistere. Siamo noi che cambiamo, è la nostra percezione che vaga e coglie il senso d'insieme.

E quale strumento migliore del Cinema, abituato ad immortalare e consegnare alla storia l'attimo, per affermare questo potente concetto?

Se il Cinema ha sempre rivestito questa funzione artistica e storica (funzione che condivide con la Fotografia, proprio l'hobby di Mason), quest'attimo che nient'altro è se non il presente, l'oggi, l'adesso, è in continuo divenire e si presta ad un confronto all'interno del film stesso.

Come il personaggio della Arquette avrà a dire alla fine, "credevo di avere più tempo". Noi l'abbiamo vista disporre di tutto quel tempo, come un Dio che osservasse quello che ha creato, o come uno spettatore che ne osservasse l'esito da un punto di vista neutrale.

Linklater riesce a regalarci questa soddisfazione, questa completezza, armonizzandola con poesia, sentimento, aggiungendo suggestioni, giocando con l'immaginazione e con la parola e coinvolgendo nel suo film la stessa figlia ed amici di vecchia data, come Ethan Hawke. Questo senso di film intimo si respira e si tocca.

Un film che parla di crescita, lo fa sì dalla prospettiva di un bambino (appunto, "infanzia") ma è un elemento che accomuna ognuno dei suoi personaggi, e non potrebbe essere diversamente: 12 anni sono stati impiegati, a periodi alterni, per girarlo. 12 anni in cui gli attori sono invecchiati, ovviamente, e cambiati come i loro alter ego nel film.
È cambiato anche il loro approccio al progetto, il loro modo di recitare.
Vincendo gli ostacoli tecnici, realizzativi, legali (per dirne una la legislazione statunitentese non ammette la possibilità per un attore di sottoscrivere un impegno contrattuale per più di 7 anni) il sapore di quest'esperienza è dei più dolci, proprio in ragione della forza rivoluzionaria che ha pervaso l'attesa, l'intenzione (artistica di per sé) di creare qualcosa di mai visto prima.


Linklater può non aver prodotto la miglior sceneggiatura della sua carriera qui, ma ha di sicuro prodotto il suo miglior film: se per Hitchcock, che incarnava il modo di pensare hollywoodiano, il cinema era "la vita con le parti noiose tagliate", Boyhood è cinema sperimentale, a tratti neorealista, personale, e riempito dell'esperienza umana, che è in grado di indurre una riflessione sul viaggio mostrandocene direttamente e delicatamente i segni.
Boyhood è proprio "le parti tagliate", è la vita stessa, da cui attinge l'ispirazione.

Boyhood è esattamente questo, pur nel suo sforzo di raccogliere i momenti cruciali (per un totale di 143 scene) o alcuni di essi nello sviluppo dei suoi personaggi: raramente punta alla drammatizzazione, l'atmosfera è del tutto comune, familiare.
Le parentesi apparentemente insignificanti, i dialoghi moderati, i momenti di imbarazzo, i silenzi inespressivi; è il mondo che cambia davanti a noi, mentre non riusciamo ad accorgercene, a carpirne l'essenza.

All'impressione esteriore di volti e corpi in progressiva trasformazione si sovrappone un'interiorità in divenire che modella le relazioni e muove le prospettive, che si risolve in un velo di quasi spiritualità.

Un lavoro incredibile da sostenere, appassionato, stimolante, originale.

Più sul sentire che sul pensare, più sul vivere che sul senso della vita.

Se ne parlerà ancora, e molto.
Da non perdere.


Scena scelta











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