venerdì 28 febbraio 2014

Philomena


74 - Philomena (febbraio 2014)




Il dramma di Philomena Lee, rinchiusa in un convento Irlandese in giovane età a seguito del concepimento del figlio, portatole via con la forza, che da allora tenta affannosamente di ritrovare. Parallelamente, un giornalista appena colpito dal fuoco incrociato della politica perde il suo lavoro e trova, in Philomena, precisamente la storia che stava cercando per scriverne un libro.

Ci viene presentato un terribile sopruso che abbraccia un arco temporale di 50 anni, da una poco più che bambina ad una ormai anziana e tormentata donna che ha vissuto sulla sua pelle un'espiazione imposta per un peccato che in realtà ha compreso, accettato, sebbene sofferto, perché è parte della sua natura semplice, arrendevole, incontaminata.

Frears, da ottimo e navigato regista qual è, è pienamente consapevole del cast che ha a disposizione: la chimica fra un'amabile Judi Dench ed un caustico Steve Coogan è talmente forte da riempirne di colore i personaggi e, quindi, la storia intera.
Fra i due scatta una sorta di botta e risposta continuo che trae ispirazione dalle marcatissime differenze, sul piano sociale e filosofico pianeti lontani, ed alimenta quella sottile ironia molto british che scava nel terreno compatto di ricordi difficili da rimuovere; altri in attesa di ricevere una casa in cui abitare, un significato.

C'è una storia che è effettivamente trasportante (e a tratti veramente inquietante) ma c'è soprattutto lo scontro verbale, filosofico, ideologico fra due stati d'animo, due modi di convivere con se stessi, due sensi d'appartenenza diversi; e questo contraltare magnifico completa un film lucente, toccante, senza sembrare mai ipocrita, in cui la Philomena di Judi Dench riesce a far parlare più gli occhi della voce, non prende lezioni che non restituisca puntualmente svuotate di cattiveria (parola che aborrisce), conferisce ad un'immagine chiusa, isolata e segnata dal dolore in una mente avulsa da un certo tipo di mondo che non ha mai conosciuto tutta una serie di gradazioni che rendono il personaggio memorabile, ed ogni esitazione, ogni ostinazione sanata da una sensibilità che ha imparato a modellare sul tempo strappatole via dalle mani.

Oltre a questo, c'è anche la contrapposizione inevitabile fra chi vive e chi ha vissuto, come se una specie di flashback molto veloce rapisse e smarrisse gli anni; come se si avvertisse candidamente l'esigenza materiale di dare un valore al tempo, e non necessariamente tramite le risposte sulla carta rilegata di un libro.

La regia di Frears è minuziosa, graffiante e paternale insieme. Affida a Coogan (che è anche co-sceneggiatore assieme a Pope di una storia vera ed ispirata a The Lost Child of Philomena Lee di Martin Sixsmith) il ruolo provocatorio (e divertente) ma ordinato di chi tenta di accendere una luce fra le ombre proiettate con somma eleganza dalla Dench.

Potrebbe facilmente perdersi nella polemica, invece si raccoglie e trova in un ultimo barlume di finezza la sua ultima parola. Che è anche quella che resta nell'aria, mentre scorrono i titoli di coda.


Scena scelta










The wolf of Wall Street


73 - The wolf of Wall Street (febbraio 2014)




Jordan Belfort è un tipo che, resistendo alla sua provenienza dalla middle-class americana degli anni '80, alla sua prima esperienza da broker ai piani alti di Wall Street conclusasi in fretta con il crollo della borsa e all'insopportabile idea di essere solo una persona come tante altre nella folla, si fa largo e diventa esattamente la persona che ha sempre voluto essere.

Lui è un venditore "nel paese dove tutto è in vendita", dove la facciata conta più della sostanza, il ricco più del povero, l'ottimismo più della mediocrità; dove gli si offre il fianco, completamente fertile, di un'industria capitalista che avanza a gran passo e in cui trova una commisurazione della propria sfrenata ambizione, della propria capacità di vivere al limite.

Si trova nel posto giusto, al momento giusto. L'eccitazione, l'irriverenza, la voglia di prendersi tutto e subito non fanno che accompagnarsi ad uno stile di vita che è lì bello pronto, che sia lui o qualcun altro a raccoglierne l'eredità.

In questa vanagloriosa e spasmodica corsa beffarda, provocatoria e sempre destinata all'eccesso che ha come epicentro il dollaro (che è quello che trasforma la considerazione di sé ed è quello che può comprare anche un "no" come risposta) e che tocca inevitabilmente per vie traverse tutto ciò che esso corrompe, trova sedimento l'ascesa di Jordan Belfort, il quale non è poi altro - così come tutte le persone più care di cui si circonda - che un attore che sa recitare meglio di altri in un paese scarno, dalla morale decadente e la scala di valori distorta. Dove esiste un prezzo anche per l'umiliazione.

Regna il fasto, l'autocelebrazione, siamo in presenza di un viluppo di futilità convertito sul piano scenico in un'orgia di denaro, sesso, potere, magnificenza. Dove le droghe ingrossano le arterie di un corpo costretto a seguire ritmi e logiche, regole e misure assurde di un mondo assurdo, dove il teatro di ostentazione in cui i personaggi si muovono ha sempre un pubblico davanti a cui esibirsi. E con orgoglio (come la citazione a "Freaks" insinua fra le righe).

Il nuovo Scorsese è estremamente divertente, denso, dai ritmi impazziti, muove la sua camera all'unisono con il suo protagonista: non si sta letteralmente dietro ad un Di Caprio tirato a lucido che regala un'altra interpretazione da sogno, il quale ci guida lungo l'arco di una narrazione sicuramente intensa (per una sceneggiatura, mastodontica, dello stesso Terence Winter di Boardwalk Empire e Sopranos) anche se non impeccabile per ridondanza e che finisce un po' per strafare nel sottolineare il concetto, che costruisce e distrugge allo stesso tempo.

Tutto è vacuo, aleatorio; il film, a tratti anche sgraziato, è il primo a non prendersi sul serio (non a caso nel cast troviamo Jonah Hill - anche se perfetto - Rob Reiner, Jon Favreau, Ethan Suplee, cioè gente che viene dalla commedia) e a premere sul parossismo e sull'esagerazione continua, ma sta qui tutta la forza del suo film: è tutto così lontano dall'essere irreale! La risata, anche se decontestualizzata, anche se sempre conseguenza di un controllo incerto, è risonanza di un disturbo sul quale non si può che essere calcolatamente compiacenti per smascherarne l'ipocrisia.

È nell'iperbole che Scorsese individua il mezzo per giungere al punto di non ritorno, quel particolare punto in cui si capisce che una Ferrari spinta a tutta velocità prima o poi deve fermarsi e fare i conti con la scia di cadaveri che ha lasciato per strada; la morale è dietro l'angolo e per quanto fastidiosa è nettamente anticipata dalla catastrofe.


Sorretto da un cast invidiabile e come detto da un Di Caprio che alza il valore del film all'n-esima potenza ma la cui elettrizzante prova è sostenuta anche da un montaggio molto di mestiere e da una regia che al solito non ha nulla che non funzioni, da parte di Scorsese, questo è un film sicuramente più pop e apparentemente più "di pancia" rispetto ai suoi recenti. Apparentemente perché non è privo di critica e riflessione, ma è anche vero che, pur ricordando in piccola parte i suoi capolavori come "Goodfellas" o "After hours" e pur mantenendo un vigore nel racconto degno del miglior Scorsese, manca di una benché minima pretesa.

Ma il film è esilarante, esplode fra le mani di un pubblico probabilmente abituato ad altro con questo autore, disorientato nel ritrovarsi davanti una grande, maestosa, commedia dove si celebrano due funerali: quello della vita (vera) ai vertici di Jordan Belfort e dell'America in cui viveva e vive. E in entrambi i casi, udite udite: c'è da farsela sotto dalle risate.

Scena scelta










giovedì 27 febbraio 2014

Captain Phillips


72 - Captain Phillips (febbraio 2014)




La storia vera della Maersk Alabama, capitanata da Richard Phillips, che nell'aprile del 2009 fu presa d'assalto e dirottata ad opera di pirati Somali al largo del corno d'Africa, a sua volta trasposta sul grande schermo da Paul Greengrass e sceneggiata sulla base dell'autobiografia dello stesso Phillips "Il dovere di un capitano".

È la messa in scena degli eventi, con l'eroe Phillips (Tom Hanks) che spicca, per coraggio, astuzia e grande senso di responsabilità per la protezione del proprio equipaggio sulle feroci e disperate umanità dei suoi rapitori, con l'oceano a fare da sfondo a quello che è, in buona sostanza, la narrazione di un salvataggio.

Greengrass si prende qualche momento per fare il punto della situazione, tenta quantomeno - in modo impacciato - di contemplare i punti di vista in gioco, e poi preme a tavoletta sull'acceleratore per più di un'ora e mezza con un'intensità e ritmi mai visti che hanno il compito di far impennare la suspence. Con buon successo. Peccato solo perda di vista l'occasione di dare un significato all'insieme.

Si tratta infatti di un buon film d'intrattenimento (e assolutamente niente di più) che non si può dire fallisca nel suo intento primario; riesce ad imporsi subito con grande enfasi, frenesia, con il tempo che sembra volare mentre la situazione si evolve.
La regia è concitata, la fotografia efficace. L'alta tensione è portata in dote dall'elettricità dei suoi personaggi, ma è innegabilmente ben reso il contrasto psicologico fra l'agitazione e l'inquietudine degli uni e la calma ordinata dell'altro, maschera portata su di un volto probabilmente terrorizzato.


Però è un film che solleva tante riserve sulla sostanza: c'è il virtuosismo tecnico fine a se stesso, c'è l'interpretazione sopra le righe stampata a lettere cubitali nel melodramma dell'eroe che non perde mai la sua integrità, c'è in addizione il solito bagaglio di retorica che davvero non può mai mancare in storie come questa, la descrizione bidimensionale dei personaggi, lo sfoggio virile del grande arsenale militare americano a suggello della rassicurante opera di celebrazione di potere Americano.
E c'è il ritorno a casa.

Sarebbe ingeneroso accusare il film di essere un'Americanata nel senso più acre del termine. Ma si può senz'altro azzardare che se negli oltre 120 minuti di adrenalina di film, condensati in modo tale da portare allo sfinimento nervoso lo spettatore, anch'esso partecipe delle disavventure del suo paladino, il film avesse in qualche modo ottenuto di dedicare più di tre o quattro battute e qualche sottigliezza all'approfondimento della questione e alle condizioni inumane del popolo Somalo, alle vere motivazioni delle azioni dei pirati, comprese le implicazioni e le ripercussioni sul piano socio-economico legate alla guerra civile degli anni '90, allora avrebbe probabilmente restituito un film più sincero, più attento, e permesso al suo pubblico di prendere una posizione più consapevole e approfondita su un tema che, sicuramente, non merita di essere trattato con superficialità.

Non che del resto il film voglia essere smaccatamente patriottico (solo quel tanto che basta per alleviare i sensi di colpa nel guardarsi allo specchio) però sicuramente si fa prendere la mano e porta a casa un risultato tutto sommato fra i più prevedibili della storia del cinema, spingendo sul sano ottimismo americano che ce la fa sempre, e con un Tom Hanks che, sì, prova ad uscire dai ranghi del suo classico canovaccio ma che non convince mai del tutto, probabilmente perché la parte del bravo cittadino americano gli è cucita addosso alla perfezione.

Senza badare al contesto e a tutto quello che può dar fastidio accendendo il cervello, invece, buonissimo thriller (nel suo genere).


Scena scelta










mercoledì 26 febbraio 2014

Her


71 - Her (febbraio 2014)




Theodore vive un complicato rapporto con se stesso. Ipersensibile e solo, dopo la rottura e la prospettiva dell'imminente divorzio dalla moglie Catherine, consuma le sue giornate a scrivere lettere in cui manifesta i propri sentimenti per conto di altre persone che non hanno tempo né le sue capacità.

Il rimestio nostalgico dei ricordi, combinato alle difficoltà di adattarsi alle leggi di un mondo che sarà pure tecnologicamente avanzato ma resta fondamentalmente la stessa giungla che conosciamo, ci introducono alla visione di Jonze, che parte dalla promessa di una frontiera tecnologica in cui sia possibile interagire con un'intelligenza artificiale avanzata, in grado non solo di replicare un'intelligenza umana ma di sviluppare una propria coscienza, per affrontare l'irrisolto rapporto uomo-macchina, in chiave romantico-sentimentale.

Ma c'è molto di più, in realtà: nell'accettazione generale con cui questo ipotetico futuro recepisce a tutti i livelli le dinamiche e le interazioni fra uomo e realtà virtuale e pur nello scetticismo tutto sommato moderatissimo che fa da sfondo ai legami fra uomini e 'OS', si studia attentamente l'idea che l'interdipendenza fra di essi non sia altro che il preludio ad una accresciuta coscienza di sé, la quale porta quasi inevitabilmente però conseguenze diverse per le due entità, in progressivo allontanamento.

Così, l'A.I. non essendo vincolata ad un contenitore fatto di carne e ossa e quindi dispensata dalla minaccia del tempo che scorre, può travalicare le pieghe del tempo e dello spazio stesso; ciò che all'uomo non è concesso, ed oltre a questo, si percepisce chiaramente il timbro con cui Jonze nella sua sceneggiatura memorabile, cervellotica ed emotiva allo stesso tempo, ci chiede di ricordare per l'ennesima volta come l'uomo si approcci a qualcosa di potenzialmente più profondo e sconosciuto quasi sempre per gioco, perché effettivamente spaventato, disorientato, oppure perché limitato da un tipo di evoluzione che gli ha insegnato qualcosa che ancora non riesce pienamente a comprendere; perché ragiona ancora in termini di distanze fisiche, rapporti di biunivocità, perché ancorato ad una dimensione corporea che ne mina l'esplorazione individuale.

Il film di Spike Jonze, che nasce dall'esigenza fisica di confrontarsi in modo cerebrale, molto attraverso la parola, ma comunque riuscendo a trattare tematiche tendenzialmente legate alla commedia sentimentale senza chiederci di spegnere il cervello (tutt'altro), cosa già di per sé notevole, vuole in fondo a sua volta spaziare ed esplorare con una lettura più ambiziosa, provocante e a tratti surreale un fenomeno cui la nostra odierna società sta tendendo, indagando sulle cause dell'immobilismo e sulla parabola dell'esistenza in senso esteso, e su come sia l'insoddisfazione a generare la ricerca di risposte piuttosto che il contrario.

Lo fa sempre con una delicatezza di fondo indescrivibile, ma non certo sottraendo allo stimolo della fantasia il rovescio della medaglia; il taglio fortemente melancolico che riveste l'intero lungometraggio vive e risente degli stessi stati d'animo e dei cambi d'umore del suo (suoi) protagonista (i) - un Joaquin Phoenix la cui sagoma è infallibile per questo genere di ruoli e la voce, carica di espressività, di Scarlett Johansson - e in questa sorta di montagna russa assillante trova piena evasione la pulsante vena lirica che riempie le profonde sfumature di grigio in cui perdersi sembra essere il solo modo possibile per riacquistare la prospettiva di sé e permetterle di crescere.

Opera matura di Jonze, risolutiva, dal linguaggio diretto, che non si risparmia l'amara ironia di una sofferenza annunciata, eppure vive di una grazia rara da trovare, e si contornia di tutta una serie di elementi d'atmosfera, a cominciare dalla meravigliosa colonna sonora firmata nientemeno che da Arcade Fire e Karen O (degli Yeah Yeah Yeahs), che rendono l'esperienza non solo esteticamente valida ed inebriante ma anche tremendamente pragmatica. E necessaria.


Scena scelta










martedì 25 febbraio 2014

Nebraska


70 - Nebraska (febbraio 2014)




Da quando ha scoperto di essere il vincitore di un fasullo premio milionario da ritirare a Lincoln, Nebraska, Woody Grant percorre tutti i giorni a piedi la distanza da casa sua, nel Montana che solo la bontà d'animo e di presenza del figlio David gli impedisce di compiere completamente. Finché quest'ultimo non capisce che il padre non ha nessuna intenzione di lasciar perdere e decide di mettersi in viaggio per accompagnarlo di persona.

Il vecchio (un monumentale Bruce Dern), alcolista, credulone, tendenzialmente intrattabile, in ostinata ricerca di qualcosa che la sua vita non sembra avergli spiegato con la massima chiarezza, e bonariamente incapace di badare a se stesso si scontra con il proprio ruolo, evidentemente ormai ingestibile, in un mondo - e più in particolare nel microcosmo della sua famiglia allargata - che lo considera niente più che una persona di cui prendersi gioco, su cui si può fare poco affidamento, se non addirittura da sfruttare.

Il pretesto della presunta vincita funziona dunque perfettamente nel far tornare conti che Payne aveva mirabilmente previsto sin dall'inizio, in questa sua ennesima chicca che si va ad inanellare in quella serie di dramatic comedy che sembrano portare il suo marchio di fabbrica dopo Sideways.

Ed in effetti il regista è talmente bravo a caricare ogni singola situazione e personaggio di intelligente ironia che acquistano tutt'altra luce quei ricordi sommessi, a singhiozzo, che si fanno strada nella strada (on-the-road come da copione) creando familiarità con un personaggio forse difficile da inquadrare ma sicuramente impossibile da detestare, tanta è la tenerezza che ispira e la comicità che trasuda da ogni espressione, ogni sguardo lanciato, ogni risposta secca.

Al cliché dell'anziano brontolone e bisbetico, Payne implementa dunque la sua visione della vita estendendo il proprio raggio d'azione qui anche ad un confronto fra generazioni (i due figli proprio come lui sembrano entrambi ben lungi dalla felicità nonostante il divario mentale e culturale che li separa) in cui proietta un raggio di speranza, come a voler immedesimarsi in quel David Grant e a sottoscrivere con coraggio la sua testimonianza a non fregarsene, come a volerci dire che le buone intenzioni sono rare, ma quando sono sincere compensano e superano tutto il resto perché capaci di segnare un momento e forse una vita.

Giocando su piani diversi, il tempo scorre più velocemente di quanto sia possibile controllarlo ed il solo modo di appropriarsene sembra essere lasciare qualche segno di sé lungo il percorso.
L'irrequietezza di Woody lo porta continuamente alla ricerca di qualcosa, che sia qualcosa di fisico come la dentiera persa fra le rotaie o che sia simbolico come la strada da percorrere verso un premio da ritirare ma se il punto per altri rimane la compagnia durante l'attesa, per lui nessuna discussione può realmente valere la fredda concretezza di qualcosa di utile ed è curioso come a tratti questo cinismo si amalgami bene alla leggerezza dell'insieme; una sensazione indefinita che aleggia sopra le teste di tutti i personaggi, riconvertendo la malizia in stupidità e l'impellenza dell'azione in ilarità.

Non c'è una singola voce che non contenga in sé un tratto comico, ma la cosa bella è scoprire che c'è un finale lì ad aspettarti che supera le migliori attese.

Piccola curiosità: il film oltre ad aver preso in considerazione Bryan Cranston per il ruolo principale, condivide con Breaking Bad l'attore Bob Odenkirk che proprio nella serie lo citava.


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Gravity


69 - Gravity (febbraio 2014)



Spazio. Un incidente con un satellite provoca una pioggia di detriti devastante per lo shuttle e per l'equipaggio di cui fa parte la dottoressa Ryan Stone, assieme all'astronauta Kowalski l'unica sopravvissuta all'impatto e privata di qualunque possibilità di comunicare con la base.

Il panico che fa da sfondo a questi primi minuti, esploso in un crescendo assolutamente micidiale dopo una breve carrellata di personaggi e situazioni cui ci introduce Cuarón - la classica quiete prima della tempesta, verrebbe da dire - è ottenuto con rara maestria dal regista messicano, in totale controllo della cinepresa, del suo cast, delle immagini.

Se c'è una cosa su tutte che avvalora questo suo lavoro è proprio la sua capacità di rapire con immediatezza l'attenzione di uno spettatore che non è tenuto ad approfondire background e psiche dei personaggi, ma che impara a conoscerli nel corso degli eventi, facendosi strada fra ciò che la cronaca del film gli presenta con urgenza e scegliendo di dosare e calibrare le informazioni in suo possesso solo dopo essere già stato messo nella condizione di non poterne e volerne fare a meno.

In altre parole, questo ottimo film prima ancora che nella buonissima recitazione della Bullock, "costretta" a tenere su baracca e burattini praticamente da sola, e nella sceneggiatura (nel complesso non eccezionale anche se sicuramente non facile da riempire e in questo è da apprezzare anche la scelta di non spingere troppo sulla durata) trova nello strapotere delle immagini il suo vero atto di forza; una prepotente e insieme affascinante dimostrazione di come trasformare l'immaginario umano, con esso comprendendo anche i sogni e gli incubi più terrificanti, in drammatica realtà, pur se scenica.

Quello di cui ci convincono i protagonisti - soprattutto la dottoressa dato che la macchietta di Kowalski, un personaggio molto americano cui Cuarón forse deve pagar dazio sembra uscire da un film di Emmerich con tanto di faretra di spacconate e di freddure antipanico al seguito - è di essere lì con loro, in quel momento, in quella vista assolutamente meravigliosa e agghiacciante allo stesso tempo, come il confronto fra uomo (piccolo) e ignoto, o universo (immenso) che si reitera anche qui ci tende a ricordare spesso.

C'è tutta una sorta di ansia, ingenerata sì dagli eventi ma, come l'ossigeno che sembra mancare ai suoi personaggi, necessaria al film per potersi avviluppare e distendere con proprio agio lungo un percorso che via via perde qualche colpo, ma ha il merito oggettivo di determinare un tale livello di coinvolgimento da non permettere facili distrazioni e anche nei passaggi intermedi non si notano quasi mai forzature tali da gridare al falso.

Ci sono, inevitabilmente, alcuni tratti che giocoforza rendono il personaggio "troppo" umano, come se si insistesse a premere un tasto per tentazione, per automatismo. Ma Cuarón non è bravissimo in questo, e anzi, su quest'aspetto calca decisamente la mano finendo con il lasciare tutto il film all'espressionismo della Bullock, ma riuscendo tutto sommato a trovare un'impronta personale e genuina, evidente oltre che in certe macchinazioni anche nel suo cedere al richiamo affettivo (come i riferimenti a 2001: Odissea nello spazio o a Méliès), che gli consentono di produrre qualcosa di tecnicamente mostruoso ma ad un tempo tutt'altro che gelido o distaccato.

Lascia invece senza parole nel far parlare apertamente l'eloquente fotografia di Luberzki (già noto per la collaborazione con Malick, un altro che di estetica delle immagini se ne intende) ed estrae dal cilindro uno dei migliori film di quest'anno.
Nonché uno dei maggiori thriller degli ultimi anni.

La lode non ci sta, ed i canoni non troppo classici non sembrano lanciarlo verso la statuetta dell'Academy, ma al grande giudizio complessivo toglie nulla.


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domenica 23 febbraio 2014

Il sospetto


68 - Il sospetto (febbraio 2014)



Lucas, un insegnante d'asilo con passato nebuloso e rapporti pendenti incrinati con la famiglia viene messo in una fragile posizione quando una bambina, Klara, dà ad intendere di essere stata da lui molestata. Non fosse che, probabilmente per una piccola ripicca infantile e certamente nascondendoci qualcosa, la bimba si sia inventata tutto di sana pianta.

Ma la parola è seminata con una tale veemenza, propria dell'ingenua e naturale franchezza dei bambini, che immediatamente viene accolta all'interno di tutta la comunità, trasformandone i connotati.
E dato che con una adeguata cassa di risonanza anche il più piccolo sussurro può trasformarsi in un boato terrificante, nasce e si ingrossa, passando di bocca in bocca e di pregiudizio in pregiudizio il sospetto.

Il film di Vinterberg si focalizza su un argomento tanto delicatissimo quanto ricco di sfaccettature; sicuramente sociologicamente zeppo di spunti interessanti.
Assistiamo di fatto al progressivo inspessirsi di una metaforica lente, una lente che ogni membro della società adotta con Lucas e che ne determina via via la colpevolezza, attraverso la perdita o l'offuscamento della prospettiva opposta.

Non si tratta cioè propriamente della certezza della colpevolezza, non più dal momento in cui la pulce viene messa nell'orecchio e il ronzio, vero o presunto che sia, diventa reale. Diventa vero perché sentimento partecipato, condiviso, impossibile da rimuovere senza esserne emarginati a propria volta; il semplice aver preso in considerazione l'ipotesi fa dell'ipotesi, e quindi del ronzio incessante, una tortura a cui si può resistere solo permettendole di diventare verità.

Naturalmente la legge fa il suo corso, ma il giudizio popolare, quello della gente a stretto contatto della quale si vive viaggia su binari separati: la prima necessita di prove tangibili per emettere una sentenza certa; il secondo ha il "vantaggio" (discutibile) di formare il proprio (pre)giudizio indipendentemente da esse.

Al di là della vicenda, sicuramente in sé già trattata svariate volte, è la sovrapposizione delle facciate sul piano psicologico, e umano, che monopolizza l'attenzione del film, tingendosi inoltre chiaramente di metafora per tentare di approssimare il suo punto di vista (stilisticamente parlando molto precisi i riferimenti alla natura delle cose, generalmente intesa).

Partendo dal presupposto di avere a che fare con qualcosa di necessariamente invisibile, strisciante, indistinto, corroborato dai lunghi silenzi interiori ed indagatori che si mischiano a quelli delle languide boscaglie tardoautunnali in cui viene praticata la caccia (il film originale porta appunto questo titolo decisamente più centrato), il tutto fuso nell'interpretazione poco meno che perfetta di Mikkelsen nel ritrarre questo tipo di personaggio, tristemente demonizzato, ostracizzato, trascinato alla più totale infamia sulla base di un semplice pettegolezzo (poco rileva che l'intenzione non fosse questa e che il tema nella sua importanza meriti ben altro appellativo), il film riesce in maniera superba a comporre un ritratto autentico di una situazione autentica.

Ovviamente alcuni dei suoi personaggi arrivano a certi passaggi un po' forzati, però sono complessivamente efficaci alla rappresentazione di un controllo che sfugge a tutti i suoi livelli più essenziali, fino a giungere al buon senso; la recitazione di Mikkelsen come detto aiuta moltissimo in questa direzione. Il progressivo disfacimento interiore è scolpito nel volto consunto del suo Lucas e proprio nella sua perdita (definitiva?) di qualsiasi tipo di credibilità sta la forza granitica delle idee come quelle cui si riferisce il titolo, probabilmente impossibili da estirpare perché è dove ci conduce la collettivizzazione come meccanismo di difesa contro il singolo individuo, sia questi una reale minaccia per la comunità o sia solo il fantasma di un'angoscia sociale la cui ammissione è sempre preferibile alla convinzione della propria vulnerabilità.


Scena scelta