venerdì 28 febbraio 2014

The wolf of Wall Street


73 - The wolf of Wall Street (febbraio 2014)




Jordan Belfort è un tipo che, resistendo alla sua provenienza dalla middle-class americana degli anni '80, alla sua prima esperienza da broker ai piani alti di Wall Street conclusasi in fretta con il crollo della borsa e all'insopportabile idea di essere solo una persona come tante altre nella folla, si fa largo e diventa esattamente la persona che ha sempre voluto essere.

Lui è un venditore "nel paese dove tutto è in vendita", dove la facciata conta più della sostanza, il ricco più del povero, l'ottimismo più della mediocrità; dove gli si offre il fianco, completamente fertile, di un'industria capitalista che avanza a gran passo e in cui trova una commisurazione della propria sfrenata ambizione, della propria capacità di vivere al limite.

Si trova nel posto giusto, al momento giusto. L'eccitazione, l'irriverenza, la voglia di prendersi tutto e subito non fanno che accompagnarsi ad uno stile di vita che è lì bello pronto, che sia lui o qualcun altro a raccoglierne l'eredità.

In questa vanagloriosa e spasmodica corsa beffarda, provocatoria e sempre destinata all'eccesso che ha come epicentro il dollaro (che è quello che trasforma la considerazione di sé ed è quello che può comprare anche un "no" come risposta) e che tocca inevitabilmente per vie traverse tutto ciò che esso corrompe, trova sedimento l'ascesa di Jordan Belfort, il quale non è poi altro - così come tutte le persone più care di cui si circonda - che un attore che sa recitare meglio di altri in un paese scarno, dalla morale decadente e la scala di valori distorta. Dove esiste un prezzo anche per l'umiliazione.

Regna il fasto, l'autocelebrazione, siamo in presenza di un viluppo di futilità convertito sul piano scenico in un'orgia di denaro, sesso, potere, magnificenza. Dove le droghe ingrossano le arterie di un corpo costretto a seguire ritmi e logiche, regole e misure assurde di un mondo assurdo, dove il teatro di ostentazione in cui i personaggi si muovono ha sempre un pubblico davanti a cui esibirsi. E con orgoglio (come la citazione a "Freaks" insinua fra le righe).

Il nuovo Scorsese è estremamente divertente, denso, dai ritmi impazziti, muove la sua camera all'unisono con il suo protagonista: non si sta letteralmente dietro ad un Di Caprio tirato a lucido che regala un'altra interpretazione da sogno, il quale ci guida lungo l'arco di una narrazione sicuramente intensa (per una sceneggiatura, mastodontica, dello stesso Terence Winter di Boardwalk Empire e Sopranos) anche se non impeccabile per ridondanza e che finisce un po' per strafare nel sottolineare il concetto, che costruisce e distrugge allo stesso tempo.

Tutto è vacuo, aleatorio; il film, a tratti anche sgraziato, è il primo a non prendersi sul serio (non a caso nel cast troviamo Jonah Hill - anche se perfetto - Rob Reiner, Jon Favreau, Ethan Suplee, cioè gente che viene dalla commedia) e a premere sul parossismo e sull'esagerazione continua, ma sta qui tutta la forza del suo film: è tutto così lontano dall'essere irreale! La risata, anche se decontestualizzata, anche se sempre conseguenza di un controllo incerto, è risonanza di un disturbo sul quale non si può che essere calcolatamente compiacenti per smascherarne l'ipocrisia.

È nell'iperbole che Scorsese individua il mezzo per giungere al punto di non ritorno, quel particolare punto in cui si capisce che una Ferrari spinta a tutta velocità prima o poi deve fermarsi e fare i conti con la scia di cadaveri che ha lasciato per strada; la morale è dietro l'angolo e per quanto fastidiosa è nettamente anticipata dalla catastrofe.


Sorretto da un cast invidiabile e come detto da un Di Caprio che alza il valore del film all'n-esima potenza ma la cui elettrizzante prova è sostenuta anche da un montaggio molto di mestiere e da una regia che al solito non ha nulla che non funzioni, da parte di Scorsese, questo è un film sicuramente più pop e apparentemente più "di pancia" rispetto ai suoi recenti. Apparentemente perché non è privo di critica e riflessione, ma è anche vero che, pur ricordando in piccola parte i suoi capolavori come "Goodfellas" o "After hours" e pur mantenendo un vigore nel racconto degno del miglior Scorsese, manca di una benché minima pretesa.

Ma il film è esilarante, esplode fra le mani di un pubblico probabilmente abituato ad altro con questo autore, disorientato nel ritrovarsi davanti una grande, maestosa, commedia dove si celebrano due funerali: quello della vita (vera) ai vertici di Jordan Belfort e dell'America in cui viveva e vive. E in entrambi i casi, udite udite: c'è da farsela sotto dalle risate.

Scena scelta










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