martedì 25 febbraio 2014

Gravity


69 - Gravity (febbraio 2014)



Spazio. Un incidente con un satellite provoca una pioggia di detriti devastante per lo shuttle e per l'equipaggio di cui fa parte la dottoressa Ryan Stone, assieme all'astronauta Kowalski l'unica sopravvissuta all'impatto e privata di qualunque possibilità di comunicare con la base.

Il panico che fa da sfondo a questi primi minuti, esploso in un crescendo assolutamente micidiale dopo una breve carrellata di personaggi e situazioni cui ci introduce Cuarón - la classica quiete prima della tempesta, verrebbe da dire - è ottenuto con rara maestria dal regista messicano, in totale controllo della cinepresa, del suo cast, delle immagini.

Se c'è una cosa su tutte che avvalora questo suo lavoro è proprio la sua capacità di rapire con immediatezza l'attenzione di uno spettatore che non è tenuto ad approfondire background e psiche dei personaggi, ma che impara a conoscerli nel corso degli eventi, facendosi strada fra ciò che la cronaca del film gli presenta con urgenza e scegliendo di dosare e calibrare le informazioni in suo possesso solo dopo essere già stato messo nella condizione di non poterne e volerne fare a meno.

In altre parole, questo ottimo film prima ancora che nella buonissima recitazione della Bullock, "costretta" a tenere su baracca e burattini praticamente da sola, e nella sceneggiatura (nel complesso non eccezionale anche se sicuramente non facile da riempire e in questo è da apprezzare anche la scelta di non spingere troppo sulla durata) trova nello strapotere delle immagini il suo vero atto di forza; una prepotente e insieme affascinante dimostrazione di come trasformare l'immaginario umano, con esso comprendendo anche i sogni e gli incubi più terrificanti, in drammatica realtà, pur se scenica.

Quello di cui ci convincono i protagonisti - soprattutto la dottoressa dato che la macchietta di Kowalski, un personaggio molto americano cui Cuarón forse deve pagar dazio sembra uscire da un film di Emmerich con tanto di faretra di spacconate e di freddure antipanico al seguito - è di essere lì con loro, in quel momento, in quella vista assolutamente meravigliosa e agghiacciante allo stesso tempo, come il confronto fra uomo (piccolo) e ignoto, o universo (immenso) che si reitera anche qui ci tende a ricordare spesso.

C'è tutta una sorta di ansia, ingenerata sì dagli eventi ma, come l'ossigeno che sembra mancare ai suoi personaggi, necessaria al film per potersi avviluppare e distendere con proprio agio lungo un percorso che via via perde qualche colpo, ma ha il merito oggettivo di determinare un tale livello di coinvolgimento da non permettere facili distrazioni e anche nei passaggi intermedi non si notano quasi mai forzature tali da gridare al falso.

Ci sono, inevitabilmente, alcuni tratti che giocoforza rendono il personaggio "troppo" umano, come se si insistesse a premere un tasto per tentazione, per automatismo. Ma Cuarón non è bravissimo in questo, e anzi, su quest'aspetto calca decisamente la mano finendo con il lasciare tutto il film all'espressionismo della Bullock, ma riuscendo tutto sommato a trovare un'impronta personale e genuina, evidente oltre che in certe macchinazioni anche nel suo cedere al richiamo affettivo (come i riferimenti a 2001: Odissea nello spazio o a Méliès), che gli consentono di produrre qualcosa di tecnicamente mostruoso ma ad un tempo tutt'altro che gelido o distaccato.

Lascia invece senza parole nel far parlare apertamente l'eloquente fotografia di Luberzki (già noto per la collaborazione con Malick, un altro che di estetica delle immagini se ne intende) ed estrae dal cilindro uno dei migliori film di quest'anno.
Nonché uno dei maggiori thriller degli ultimi anni.

La lode non ci sta, ed i canoni non troppo classici non sembrano lanciarlo verso la statuetta dell'Academy, ma al grande giudizio complessivo toglie nulla.


Scena scelta










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