mercoledì 29 febbraio 2012

Frozen River, un punto di contatto


47 - Frozen River (febbraio 2012)



Ray (Melissa Leo) è madre di due figli, ma è anche una donna sola, costretta a trovare il denaro per mandare avanti la famiglia e pagare una nuova casa. Il marito, fervente giocatore d'azzardo, li ha derubati e abbandonati. Alla lunga, i conti da pagare aumentano e le poche soddisfazioni che l'onestà lavorativa le concede la spingono, inconsapevolmente, in una serie di eventi attraverso cui conoscerà Lila, non meno sola e non meno madre di lei, appartenente alla comunità dei Mohawk, e che si guadagna da vivere grazie a quel fiume ghiacciato: il St. Lawrence d'inverno, che delimitando la frontiera fra Canada e lo stato di New York, diventa una strada ai limiti della praticabilità per trasportare clandestini da una parte all'altra.

Le asperità con cui devono entrambe fare i conti sono immediatamente alluse attraverso lo sguardo delle glaciali ed inospitali lande nelle quali questa storia è ambientata; dove lo stesso fiume, nonostante sia simbolo di precarietà, rappresenta anche, nelle rispettive proporzioni, la possibilità per entrambe più concreta di ottenere una parvenza di normalità.
Come è nella natura dualistica delle cose, alla tensione che le accompagna in ogni "attraversamento", per ciò che implica (e che fa di questo film un thriller), si contrappone il legame empatico dettato dall'estrema somiglianza delle due situazioni.

Premiato col Gran Premio della Giuria al Sundance e con due Independent Spirit Awards, questo film prende le mosse dal sottobosco indipendente americano, capace ormai da qualche anno di sfornare in sordina lavori importanti, ognuno improntato al realismo portato alle sue estreme conseguenze per esigenze di fiction ma mirato ad illustrare condizioni spesso lontane dai riflettori del cinema statunitense.
Lo stile visivo-realizzativo è, non solo incidentale, ma direttamente traslato dalla realtà raccontata.
Così il minimalismo sottende la povertà, i grandi spazi inabitati la solitudine e via dicendo; mentre la mente richiama Fargo - archetipo del noir che si serve della sua rappresentazione visiva per raggiungere con essa una simbiosi - la strada ghiacciata unisce due punti sulla cartina, ma contiene anche un significato allegorico in grado di far riflettere sulla comunanza dei bisogni e dei desideri, trascendendo le diversità etniche, linguistiche, culturali.

Un thriller in piena regola, permeato dal dramma dello spaccato di vita che ha ad oggetto. Ha il merito di prendere molto poco e restituire intensità ed onestà allo spettatore.
Melissa Leo, premiata dalla Film Independent come miglior attrice, ricevette molti consensi dalla critica per questa sua interpretazione, nel complesso molto credibile.
Tarantino lo definì il "più emozionante thriller dell'anno".
Di certo offre un punto di vista particolare. E alla luce del rischio, oggi sempre più accentuato, di smarrirsi nel mare magnum della mediocrità che caratterizza certe sceneggiature, è difficile non apprezzare tentativi come questo. Dove "semplice" non diventa sinonimo di "insulso".









domenica 26 febbraio 2012

The tree of life, il mistero della vita secondo Malick


46 - The tree of life (febbraio 2012)



A sei anni di distanza dal suo ultimo lavoro - Il nuovo mondo - Malick torna ad appassionare il suo pubblico con The tree of life, ennesimo, sublime, esercizio di stile del regista texano che ci ha abituati negli anni allo strapotere delle immagini dei suoi film, quasi rendendoci dipendenti e succubi, persino in soggezione rispetto all'infinitezza dei mondi da lui ricreati, nei quali a volte ci sorprendiamo a perderci e a volte ritroviamo noi stessi.
Malick è esattamente questo: è il mortale che si lega all'immortale, l'abile alchimia capace di rendere indistinguibili la poesia della narrazione e l'esplorazione dell'ignoto.

In questo film, che è forse il suo più ambizioso, ritroviamo una storyline piuttosto semplice, netta, banale nella sua straordinarietà: quello del genitore che sopravvive al proprio figlio non è certo un soggetto inedito ma è, tuttavia, qualcosa di molto personale e quindi rispetto alla versatilità del messaggio che se ne vuole trarre parecchio audace, di per sé; e Malick non si accontenta certamente di raccontare, è un virtuoso: a lui piace addentrarsi, giocare, entrare nel vivo, anche dilungarsi. A questo va ad aggiungersi una complessità di linguaggio e una ricerca laboriosa quanto appagante del significato tale da rivestire la sua opera di un fascino raro.

La prospettiva principale è quella di Jack, la sua evoluzione in una famiglia rigorosamente cattolica degli anni '50 e del contrasto interiore fra la Natura, espressa dal padre autoritario ed intransigente e la Grazia, rappresentata dalla madre devota a Dio, pura e amorevole; ciò ne agiterà lo stato d'animo, rendendolo ansioso di dare un senso al risultato di quel conflitto e di conseguenza alla sua vita.
Il senso della vita diventa allora l'oggetto dell'indagine dal punto di vista del microcosmo del nucleo famigliare e dell'individuo in contrapposizione con il macrocosmo dell'universo, del Tutto; la comprensione dell'esperienza umana muove dal passato, dal big bang in poi, e su questo si calca la mano mentre sul piano strettamente più immediato si sprecano le citazioni bibliche e si fa largo uso del simbolismo religioso e dell'approccio spirituale.
Dal punto di vista concettuale, i parallelismi ed i rimandi sono tanto incisivi e notevoli che salta immediatamente alla mente il capolavoro di Kubrick 2001: Odissea nello spazio, citato anche da parte della critica e senza dubbio suggeritore ed ispiratore di alcune delle sequenze visionarie più memorabili, nel loro avvilupparsi con il sottofondo delle musiche (incredibili, anch'esse) di Desplat.

Mentre si dipana la storia della famiglia, di cui quell'albero che cresce in giardino è simbolo (biblico, letterario, terreno ed ultraterreno) e costruzione, siamo trascinati, su un livello differente pur se adiacente, nel climax della rappresentazione della creazione dell'universo, e poi ancora su quello di una realtà parallela che vede Jack adulto, eterea ed irreale.
La sovrapposizione ideologica si combina con quella visiva delle immagini, nitide e veramente fantastiche.
L'imperfezione raffigurata nel dilemma insolubile dell'impurità delle radici (il metaforico albero), che potremmo sintetizzare anche con il detto "le colpe dei padri ricadono sui figli", prende il sopravvento su qualunque velleità di scoprire realmente chi siamo e da dove veniamo.

Gli input sono talmente numerosi e a loro volta capaci di reindirizzare a livello interpretativo ad altrettante soluzioni che si finisce per smarrire quelle poche certezze che invece il film si prodiga a darci per tessere la trama e non perdersi nella vacuità di ciò che intende rappresentare.
Così, ne esce qualcosa di non facile assimilazione, ma di universale ed esteticamente impagabile: sul piano visivo, Malick dà il meglio di sé, aiutato dalla fotografia eccelsa di Lubezki, frutto di febbrili sperimentazioni, e dalle inquadrature sempre così azzeccate in ragione di una spontaneità ossessiva che accompagna a livello stilistico Malick da sempre.
La naturalezza di certe sequenze, a livello scenico - si pensi ad esempio al mancato sfruttamento delle luci di scena, sostituite dalla luce naturale che viene raccolta e profusa grazie ad accorgimenti scenografici e alla sottolineatura cromatica - la si ritrova anche nelle espressività degli attori, nella sorpresa che coglie l'occhio, nella ricerca paziente di simbiosi fra la vita umana e la vita di ciò che la ospita.

Il risultato finale è un'opera straordinariamente potente, colma di significati e che racchiude in sé un potenziale anche maggiore, e non potrebbe essere altrimenti, avendo avuto l'"impertinenza" di riunire elementi filosoficamente e contenutisticamente complessivi, ma anche molto antitetici, dell'esperienza e del pensiero umano, pur restituendo comunque un'impronta specifica, più spirituale, facile imprimatur riconoscibile e per altro già enuncleato nell'incipit della voce fuoricampo all'inizio del film, che preclude già alla difettosità dell'umano sapere ciò che invece è consentito all'onniscienza perseguibile attraverso la virtù.

Una volta tirate le somme, individuati i paragoni con le opere precedenti del regista - e naturalmente anche con quelle di altri - quel che rimane è una matassa di sensazioni non troppo dissimile a quella di un universo, in costante espansione, che ci risucchia in sé e nel quale, come ci ricorda questo The tree of life possiamo solo tentare di abbozzare un riscontro del tutto personale e soggettivo se davvero vogliamo avvicinarci alla verità.


Scena scelta








venerdì 24 febbraio 2012

Payne torna con 'The Descendants', ci era mancato


45 - The Descendants - Paradiso Amaro (febbraio 2012)



Elizabeth King è una donna sposata, ha due figlie, conduce una vita agiata ed avventurosa nell'isola di Kaua'i (Hawaii), un posto incantevole, un paradiso.
Un giorno, mentre partecipa ad una gara in barca, ha un incidente ed entra in coma. Il marito, Matt (George Clooney), cerca di raccogliere i pezzi, ma la cosa non si dimostra facile per lui che è spesso lontano da casa, dalla sua famiglia, praticamente un estraneo in terra propria.
I suoi avi hanno lasciato a lui, e agli altri cugini eredi (descendants), vastissimi appezzamenti dell'isola, ma ora si rende necessario vendere in fretta o rischieranno di perderla.

Mentre quindi si avvicina per Matt il momento di prendere una decisione, è l'incombenza del dramma famigliare ad offrirgli importanti spunti di riflessione e l'occasione di fare il punto sulla sua vita, di fermarsi per un attimo e fare un bilancio.
Come in Little Miss Sunshine, l'unione, anche forzata, della famiglia diventa una reazione simbolica alle sferzate impresse dalla malasorte su una base già traballante. Più ci si spinge a raschiare e più i segreti nascosti in profondità vengono a galla, riportando alla mente, come puntualmente ci chiarisce il monologo d'apertura, che nonostante l'umana idealizzazione del paradiso, nessun luogo sulla Terra è vagamente immune dai problemi; che, in altre parole, la perfezione non esiste.
Partendo da questo presupposto che è una vera dichiarazione distensiva, di semplicità e di normalità, il film si sdoppia, mostrandoci una doppia anima: quella pura e intonsa rappresentata dalle scenografie patinate e dalle locations hawaiiane e quella mortale, terrena, della complessità tragicomica della vita dei suoi protagonisti, sempre pronti a vestire di ironia le situazioni di conflittualità.

Non è nuovo per Payne lo spunto della ricerca interiore così come non lo è il pretesto del lutto, usato con grande naturalezza dal regista (vedi A proposito di Schmidt) a fungere da valvola di sfogo, e a liberare le emozioni con energia in un vortice misto di dramma e di humour, ragionevolmente dosati con equilibrio lungo il film, diretto ancora una volta egregiamente (ma non può più essere una sorpresa per nessuno).
Anche se il rischio dell'insopportabile morale è dietro l'angolo, e qualche espediente può essere più di intoppo che di utilità, il film ha il grande merito di risultare scorrevole e gradevole nonostante l'indubbia gravità degli argomenti trattati, anche perché Payne costruisce, in chiaroscuro, tutto quanto attorno a quel concetto di paradiso con cui gioca sin dai titoli di apertura e lo suggella come metafora, se ne serve per ribadire il bisogno di capire qual è il proprio posto, di sentirsi a casa: il senso di appartenenza realizzato grazie all'esplorazione interiore di sé.
Le radici che ci mantengono al sicuro, quando sembriamo pensare che la sola risposta sia fuggire.

Si conferma il grande amore per il gusto del racconto dell'autore, ma a sedimentarsi è anche se non soprattutto la delineazione dei suoi personaggi, tutti così immediatamente interessanti, autoironici, divertenti od eccentrici, segnati da una profondità quasi letteraria ma al tempo stesso figli di una mente che ha sempre come epicentro le esperienze comuni della vita. Non a caso i suoi personaggi sono estremamente realistici, spesso affrontano crisi esistenziali, sono afflitti dai problemi che tutti conosciamo e cercano di uscirne con la stessa genuinità.
Gli stilemi sono perciò anche qui quelli classici della commedia indipendente, caratterizzata dai toni drammatici mitigati da una leggerezza di fondo, uno humour talvolta anche caustico, ma mai banale.

Il fatto che si tratti di una storia tutto sommato abbastanza semplice non significa che sia arida dal punto di vista concettuale, e se la sceneggiatura (in candidatura), per quanto non si basi su intuizioni particolarmente geniali od originali, è il piatto forte di questo film davvero molto ben riuscito, non sono da meno da un lato l'interpretazione degli attori e dall'altro la ricreazione delle atmosfere, sia visive che sonore.
L'impatto di questa combinazione riesce ad essere tremendamente efficace, e mentre Payne pianifica le fermate e pondera il tragitto da seguire, lascia alle scenografie, alle musiche, alla liricità e all'esplosività dei dialoghi convincenti gran parte della ragione per cui vale, in sostanza, la pena di vedere questo film.
Ad arricchire il contesto funzionante di attori (dalla sorprendente Shailene Woodley, ai Robert Forster, Judy Greer e Beau Bridges) ci pensa paradossalmente un Clooney che fa di tutto per allontanarsi dal concetto di attore; è ordinato, funzionale, mai ingombrante, cioè perfetto. Un'interpretazione stranamente tenuta in gran conto anche dalle platee più in linea con altri canoni di cinema.

E se questo film trova un grande riscontro da parte della critica (fra cui si aggiunge quella dei Globes, che ne hanno premiato film ed interpretazione maschile), se il pubblico non ha potuto fare a meno di affezionarsi ad esso, si tende a pensare che un motivo, in fondo, ci sia.
5 le nominations (film, regia, attore, sceneggiatura, montaggio) che non sono solamente la prova di un lavoro ben fatto, ma anche la conferma che l'Academy si stia progressivamente disponendo anche verso un certo genere di pellicole che in effetti meriterebbero più attenzione.
Perché, una volta aperta la mente, è difficile tornare indietro, soprattutto se hai conosciuto il cinema di Payne.


Scena scelta







giovedì 23 febbraio 2012

The Help, un affresco storico e sociale


44 - The Help (febbraio 2012)



Jackson, Mississippi, anni '60.
Aibileen Clark, aiutante domestica, viene intervistata per conto di "Skeeter" Phelan, aspirante giornalista-romanziera che in attesa di scrivere qualcosa di significativo si è procurata un lavoro di poco conto nel giornale della ridente cittadina. Nera la prima, bianca la seconda.
Il film si apre così, già tracciando e proiettando su di sé con questo simbolismo quella che sarà la ricorrente tematica della distanza e di quella barriera invisibile fra le razze, in uno degli Stati del profondo sud d'America più conservatori ed ostili all'accettazione dell'uguaglianza etnica.

Il paese intero è come assopito, asservito ad un codice di regole non scritte che fa capo al costume imposto tempo prima dai bianchi e ricchi coloni, perpetrato per molti anni e praticato ormai per osmosi.
Nella ricostruzione storica, si evidenziano in rassegna i grandi accadimenti che segnarono la lotta per i diritti civili, da Medgar Evers (un ragazzo proprio del Mississippi) a JFK e Marthin Luther King; ma è un sottofondo silenzioso, perché la t.v., i giornali, e in generale quello che accade nel mondo non sembra reale, non lo è perché il rigorismo estremista su cui è fondato l'interesse a mantenere lo status quo poggia su antiche e robuste radici.

In un regime fondato sull'odio, sulla paura, sulla legalizzazione della prevaricazione, è proprio la resistenza alla rassegnazione a porre le premesse per un cambiamento, che certamente non può essere materiale, concreto, ma in "The Help", libro che verrà scritto da Skeeter con l'intenzione di raccogliere le testimonianze di tutte le domestiche della città, si scorgeranno le prime parvenze di un risveglio delle coscienze teso ad ottenere la restituzione di quella dignità negata.
E se l'inganno e la mistificazione sono le armi più efficaci per mantenere il divario con la servitù, allora sarà solo attraverso la ricalcatura e la parificazione anche in questo aspetto, che sarà possibile smuovere le cose.

In questo film tutto al femminile, nel quale le figure maschili compaiono solo per ricordarci che sono le donne le assolute protagoniste, sia che tengano le redini del matrimonio sfornando bambini e assumendo aiutanti, sia che siano in prima linea contro la disuguaglianza e la discriminazione qualunque sia il colore della loro pelle, spicca anche una bella caratterizzazione della comunità, nella quale sono, giocoforza, i ceti della scala sociale ad essere al centro delle dinamiche più coinvolgenti.
E se sono i titoli, i possedimenti, le appartenenze e le apparenze ad innescare il circolo vizioso nel quale si radica l'ipocrisia di una società che prende come garantiti determinati valori, sono poi, invece, gli affetti e le cure delle derelitte aiutanti ad insegnare il contrario.

E' questa matassa fatta di sentimenti contrastanti, di credenze che si contraddicono, di un'illogicità morbosa e tollerata a fare presa, a prescindere dalla reale capacità di capirlo e di combatterlo, proprio come naturale è la codardia e commendevole il coraggio.
Solo quando il secondo si ribella al primo, solo quando si capisce che si ha tutto da perdere ma anche tutto da guadagnare, il passaggio viene completato.

Sarà Skeeter ad iniziare questa "crociata", anche se non pienamente consapevole, perché fisiologicamente incapace di comprendere l'altrui mondo, e viceversa.
Si avvertirà sempre la deferenza dei neri nei confronti dei bianchi, e simmetricamente se non il sussiego, perlomeno l'incapacità di vestire pienamente i panni dell'altro da parte dei bianchi; solamente l'estraneità dal contesto modificherà questa prospettiva: in Miss Stein, che tenterà di sfruttare il momento storico per averne un ritorno editoriale, o in Miss Foote, chiaramente un pesce fuor d'acqua.
E ovviamente nella stessa Skeeter, corteggiata dal "gruppo" per via della sua discendenza privilegiata, ma restia ad abbracciarne la forma mentis.

Film sincero e accorato, ennesimo manifesto dell'antirazzismo, trasposto dal romanzo omonimo di Kathryn Stockett (sceneggiatura non originale). Una storia a tratti vibrante, di per sé drammatica perché evocativa di un periodo buio, ricreato ad arte con sapienza.
I sentimenti messi in gioco sono autentici, come lo è la prova delle sue attrici, su tutte l'eccezionale Viola Davis (destinata all'Oscar), ma anche la validissima Emma Stone e la non protagonista Octavia Spencer.
Impegnato, e già di per sé quindi rimarchevole, anche se nel suo genere si potrebbe definire un po' "infallibile", The Help è una continua provocazione nella sua graffiante messa alla berlina della superficialità e della mediocrità dell'etichetta, con la messinscena realistica e allo stesso tempo così fuori dal mondo atta a ribadire l'assurdità di certe situazioni viste con gli occhi di oggi; ma c'è anche un chiaro messaggio di speranza, che è conciliabile con l'adagio "il tempo è sempre galantuomo", e che risiede nella maturità delle coscienze dei posteri. Il tramite è qui la carta stampata, ricettacolo di segreti inconfessabili e simbolo di riscatto, conclusione ne è l'avallarsi di una morale forse non facile con cui interagire, ma fruttuosa.

Elegante, preciso, commovente, The Help trova nella storia e quindi nella sua componente più viscerale la sua più grande attrattiva, anche se non è da disdegnare certamente il lavoro sul piano scenico.
Ma è nell'incisività del racconto e dei suoi personaggi, così umani e quindi facilmente suscettibili di empatia, che lascia il segno; si può convenire che il suo punto forte sia indubbiamente la recitazione.
Difficile che l'Academy lo lasci a mani vuote. E se per film e regia i giochi sembrano già fatti, sarebbe il caso che alcune delle attrici di questo film venissero premiate.
Perché, francamente, senza di loro, parleremmo di altro.


Scena scelta








mercoledì 22 febbraio 2012

War Horse, la favola di Spielberg


43 - War Horse (febbraio 2012)



War Horse è la storia di un puledro, un mezzosangue. Un cavallo veloce, certo, ma non abbastanza robusto per trainare o essere d'aiuto nei lavori delle aperte campagne del Devonshire.
Siamo in Inghilterra, all'alba dello scoppio della prima guerra mondiale. Presto, Joey - così viene battezzato il cavallo dal fedele addestratore Albert Narracott - si troverà suo malgrado a fronteggiare il campo di battaglia, costretto a dire addio alle praterie nelle quali scorazzava libero, e si ritroverà al centro di una serie di vicissitudini attraverso le quali si compirà il suo destino. Diventerà un War Horse , cioè un cavallo da guerra.
Avrà diversi nomi e diversi padroni, ma la costante dell'orgoglio e della tenacia, doti inculcategli dal giovane Narracott, lo preserveranno dalla morte, addivenendo ad un lieto fine, francamente prevedibilissimo.

Nel tentativo di raccontare quest'avventura in formato famiglia abbastanza peculiare, segnata da una storia tragica ma allo stesso tempo favolistica, Spielberg confeziona un prodotto per la verità piatto, finendo per incarnare il tipico canovaccio americano, retto dalle illustrazioni archetipiche della fiera tradizione dell'eroe e inciampando nei soliti sensazionalismi maniacali che irrimediabilmente squarciano la realtà con punte di improbabile e di grottesco che alla fine liberano una risata involontaria.

Perché se è vero che gli spunti drammatici non mancano, non si può nemmeno pensare che sia per l'ennesima volta il magico e il sovannaturale, siano essi racchiusi in un cuore umano o animale, a mettere le cose a posto, a trarre d'impaccio dall'ineluttabile certezza della sofferenza.
Il film si regge per gran parte sull'austerità, sul penoso distacco del cavallo dal suo padrone, l'allontanamento necessario ad entrambi per fortificare l'amore dell'uno per l'altro, gli ostacoli escogitati per dare l'impressione che la notizia più lieta sia sempre più lontana.
Poi, mentre l'incubo più grande del lobotomizzato spettatore sembra sul punto di avverarsi, ecco che Spielberg fa una cosa deplorevole: esce dal film. Lo interrompe con la stravaganza e con l'assurdo. Lo fa nel tentativo di strappare un sorriso, di sdrammatizzare, di invitare a riflettere (tra virgolette). Ma il tentativo è goffo quanto è forzato, e la conclusione è che il meccanismo si inceppa.
E quale che sia l'intento, non si può fare a meno di storcere il naso per questa intrusione.

Viene meno il patriottismo (almeno quello) e la partigianeria spicciola (anche perché l'America non c'entra nulla); così la guerra può diventare una volta di più metafora e l'indomito cavallo che viene adoperato alla stregua di uno schiavo sopravvive oltre che per sé, anche per la speranza che la vita trionfi sulla morte. Tutti coloro che avranno il destino di trovarlo sulla propria strada, in un modo o nell'altro, gli rimarranno legati quasi che il suo essere speciale sia visibile solo a certuni.
Il tema della lotta, onnipresente, è terreno, ed è di questo mondo; ma al cavallo viene impressa una raffigurazione antropomorfa, come se egli fosse in grado di dimenticarsi che non è umano. Egli porta con sé l'anima del suo padrone, ed è questo ibrido che ne scaturisce a gettare su di lui un'aura protettiva, come un deus ex machina che il regista gli cala sopra in ogni momento di criticità, accompagnandolo per mano proprio come fa con lo spettatore.

I consueti valori del singolo, famiglia-patria-e-dio, messi alla prova in un contesto più grande, più doloroso come quello della guerra, non segnano una novità gran che sorprendente; se non che, il fango viene alzato pesantemente dagli zoccoli di un cavallo, fra le trincee. Animale che è cosa viva e furente, la bestia che per mettersi in salvo è costretta a sopportare le bestialità (naturalmente) degli uomini (più bestie della bestia medesima, c.v.d.).
Uomini che, però, riusciranno a smettere di trucidarsi e torneranno fratelli per un momento, accomunati dalla pietà.
In questo modo, Spielberg, dimostra di non interessarsi più di tanto alle vicende nelle quali suo malgrado Joey si imbatte, elevando invece il suo protagonista a Forrest Gump del regno equino, e costruendo tutto intorno uno scenario verosimile per corroborare questo suo arbitrio.

Spielberg è notevolissimo quando si tratta di raccontare storie, impossibile non trovare in parte avvincente anche questa, soprattutto perché anche senza scavare più di tanto nella psiche umana, si accontenta di cogliere nella superficie di ognuno dei suoi spettatori l'essenza dell'esistenza: la vita e la morte.
Per questo, la guerra forma l'oggetto delle sue attenzioni, all'interno vi ritroviamo tutti i temi più eviscerati di Spielberg: lotta, coraggio, fratellanza, spirito, umanità, crudeltà e debolezza, libertà, redenzione. E per questo la sua documentata e febbrile passione per la rilettura della storia lo portano ad essere appassionante anche qui, in alcune sequenze oggettivamente inattaccabili.
Ed è altresì indubbio che sul piano stilistico-formale il signor Spielberg sia effettivamente inappuntabile; le scenografie stupende, la fotografia sontuosa, le musiche del fido John Williams. Tecnicamente un film fatto benissimo, riscontri ce ne sono.
Ma può bastare?

Se si guarda indietro, ci si chiede oggi come mai il cinema stenti tanto a proporre idee nuove. Ma non è tanto l'idea, infatti, quanto il suo sviluppo a latitare, è l'obsolescenza di un certo insieme di valori che si riflette sul modo di fare cinema che inevitabilmente invalida la veridicità ed il bisogno di immedesimazione del pubblico.
Poi capita di imbattersi nell'ennesimo film didascalico, quasi da collezione Disney, e capita di scoprire che il suo realizzatore non è una persona qualunque.
E, beh, forse è proprio quando sono i grandi a scivolare, che i piccoli del proprio tempo non riescono a capire come stare in piedi...


Scena scelta







martedì 21 febbraio 2012

Un viaggio nel cinema: "Hugo"


42 - Hugo (febbraio 2012)



Un inedito Scorsese ci trascina pronti-via, con forza, in una stazione ferroviaria. Due sono i suoni che odiamo, in sottofondo: il sibilo dei treni a vapore che partono ed arrivano, e il ticchettio senza soluzione di continuità degli orologi.
Sono gli occhi di Hugo Cabret (Asa Butterfield) a rivelarci, con fare clandestino, il viavai di persone indaffarate, ignare della sua presenza e del fatto che sia lui, e non più lo zio Claude, ad occuparsi degli orologi.
Il padre, orologiaio, è morto lasciandogli in ricordo un vecchio taccuino e un automa, un uomo meccanico rinvenuto in un museo ma ormai da tempo senza vita.
Hugo cerca disperatamente di ripararlo, convinto che sia la chiave di un messaggio nascosto grazie al quale conoscerà finalmente le risposte alle sue domande.

Isabelle (Chloe Moretz), una ragazzina piena di immaginazione in cerca di un'avventura paragonabile a quella dei libri che le piacciono tanto, lo accompagna alla biblioteca del sig. Labisse; qui scoprirà che il minaccioso giocattolaio che lo ha sorpreso a rubare e gli ha sottratto il taccuino del padre non è semplicemente il padre adottivo di Isabelle, ma uno dei più grandi pionieri del cinema, che ha cancellato le sue tracce da molto tempo: nientemeno che George Méliès (lo straordinario, nonché usuale, Sir Ben Kingsley)
Il bambino, orfano e solo al mondo, troppo piccolo per conoscere altro che quello che gli è stato insegnato, fa della sua curiosità e della sua abilità gli strumenti per ridare ad un vecchio uomo, dimentico ed afflitto dalla forzata negazione di un passato che gli è stato portato via quella magia che pensava di aver perduto per sempre.

Scorsese fa largo uso della metafora rappresentata dagli onnipresenti orologi: il loro funzionamento dipende da automatismi e tante componenti meccaniche che lavorano assieme ed allora e solo allora sono in grado di dettare il tempo in maniera perfetta, riprendendo a fare ciò per cui sono stati creati. Allo stesso modo, George è costretto a sospendere le proprie emozioni, estromesso da un ingranaggio nel quale il suo genio fantasioso di illusionista non può trovare più posto; il tempo si ferma per un momento lunghissimo, e riprende a scorrere solo quando tutti i pezzi sono al loro posto.
Mentre, sul piano narrativo avviene questo, Scorsese si addentra, ad un livello ancora diverso, in un altro viaggio nel tempo: quello del cinema.
Ci si aspetterebbe che a parlare dei grandi della cinepresa, coloro da cui tutto cominciò, fossero i grandi prosecutori della loro opera. E allora chi, è più adatto di Scorsese, per raccontare quest'avvincente storia, omaggiante l'epoca dei primi vagiti del grande schermo? Il tempo in cui i primi proiezionisti cominciavano a rapire alle strade le folle curiose.
Quella che sembrava una moda, e poi divenne il cinema.

La cinepresa di questo film riprende un vecchio cineasta, felice all'inverosimile nel ripensare ai tempi in cui il cinema si fondeva alla magia e significava sperimentare continuamente, per stupire ogni volta di più, per meravigliare. Ma, dietro la cinepresa, si agita impetuoso il cuore di un altro uomo che non sogna di meno. Il risultato è una full immersion delle più avvolgenti atmosfere che, almeno il 2011 cinematografico, abbia saputo restituire all'occhio succube dello spettatore.

La fotografia di R. Richardson spicca, ma sono i costumi, le scenografie e la colonna sonora di Howard Shore a finalizzare il tuttuno concepito nella mente di Scorsese, e prima ancora di Brian Selznick (dal cui romanzo è trasposto Hugo).
E, come in un film Felliniano, veniamo piacevolmente sorpresi dalla girandola di personaggi che animano la stazione: dal poliziotto intransigente e alquanto grottesco (non a caso interpretato dal caratterista Baron Cohen), alla fioraia misericordiosa, all'anziana signora seduta sempre allo stesso posto.
Il tutto mentre i treni continuano a sbuffare, il tempo scorre ma tutto sembra sempre lo stesso. Proprio come in un incantesimo.
Lo stesso protagonista, Hugo Cabret, per il quale Scorsese attinge a piene mani dal romanzo picaresco, funge da pretesto per affrontare anche un'indagine del cinema dal punto di vista sociologico; a come le masse ne condizionarono il successo, a come le asperità sociali in generale rappresentino in senso figurato un punto di incontro verso i sogni: così, Hugo si farà strada attraverso un mondo ostile, che lo vuole in un orfanotrofio ed infelice, ma lotterà contro le insidie e solo sconfiggendole riuscirà a trovare la chiave per giungere al lieto fine, condensato nella riscoperta di se stesso da parte di Méliès e nella rivalutazione dell'opera del cinema.
E' dunque attraverso queste misure che siamo dirottati nel treno preso in avvio di film in direzione di altri binari, ormai in disuso, e che tuttavia lasciano intravedere all'orizzonte le manifestazioni visive di uno spettacolo destinato a durare, fin tanto che esisteranno orologi a segnarne il tempo.

Per contro, è proprio il suo coinvolgimento totale e passionale, e la sua chiara immedesimazione quasi sopraffatta nel racconto, a condurre Scorsese in un tripudio di enfasi tale da rimuovere in lui qualsiasi filtro e censura, anche, se non soprattutto, alla retorica...
E così, appaiono ridondanti determinate scelte, poco calibrate in funzione di un messaggio che perde un po' di autenticità, e che invece di essere intuito consapevolmente dallo spettatore finisce per rischiare di sembrare artificioso e preconfezionato.
All'insistenza si unisce anche il timbro impresso ai dialoghi, oltre che piuttosto banali, non realmente in grado di funzionare e di esercitare una presa paritetica allo scopo prefisso.

Un film più di forma che di sostanza, e in questo non c'è nulla di male, ovviamente.
Il gradimento e l'affetto sorgono spontanei, per questo Hugo , forse anche troppo...
L'accuratezza dei dettagli, lo stile grafico, l'avventura nell'avventura, i ritmi ragionati, sono tutti strumenti che donano un'armonia unica. Ma a parte gli ammiccamenti per i cinefili, l'impresa di Scorsese è destinata a scontrarsi contro lo scoglio rappresentato dalla pretesa di conciliare verità storica, onestà di linguaggio e spettacolo per un vasto pubblico. E anche il più grande dei maestri può fallire.

11 le candidature agli Oscar. Se le merita tutte.


Scena scelta








lunedì 20 febbraio 2012

Il Baseball secondo "Moneyball"


41 - Moneyball - L'arte di vincere (febbraio 2012)



Bill Beane è il general manager della squadra di baseball degli Oakland Athletics, l'unico ex giocatore di questo sport a rivestire quella carica e l'unico abbastanza folle da prendere seriamente in considerazione una rivoluzione dell'intera filosofia su cui si basa non solo la storia del gioco, ma che alimenta gli stessi pilastri sociali ed economici che reggono l'industria nel paese.
I giornalisti, gli esperti, il suo stesso staff diventano le forze invisibili contro cui si batte, perché rappresentano la concezione per lui sbagliata del baseball; una visione univoca, covata da menti ristrette che si credono infallibili e scommettono contro di lui.

Dopo la sconfitta con i titani dei NY Yankees nella finale dei playoff del 2001 e l'essere stati depredati dai medesimi dei loro tre giocatori più forti, Beane comprende quanto impari sia il duello, quanto improbo sia il tentativo di competere contro l'impero del denaro che foraggia il meccanismo; un sistema nel quale l'unico modo in cui Davide può sconfiggere Golia è quello di adattarsi al gioco, evolversi.
Quello che Beane propone è una sorta di darwinismo sportivo.

E' così che, dopo aver conosciuto ed assunto Peter Brand, neo-laureato a Yale in economia che gli espone alcuni suoi pensieri sul baseball, i due mettono a punto una strategia incentrata sui numeri, anziché sui nomi; le statistiche sono il punto di partenza di un nuovo approccio c.d. sabermetrico, matematico e scientifico, volto a sostituirsi all'esperienza e all'intuito.
Questioni come l'età, lo stato di salute, l'attitudine dei giocatori distraggono dal vero obiettivo e dal risultato espresso dalla teoria, per la verità molto semplice e radicalizzante, secondo cui vince "chi conquista più basi".

I due formano un team estremamente bizzarro, l'uno l'antitesi dell'altro. Ma l'intesa funziona perché entrambi hanno più di un motivo per credere in quello che stanno facendo.
Ed è proprio l'estraneità ai concetti fondamentali ed il mancato assorbimento degli insegnamenti rudimentali del gioco da parte di Brand a suggerire a Bean una diversa e funzionante chiave di lettura per aprire porte altrimenti blindate e a condurlo in modo sempre più convinto lungo il percorso intrapreso già molto tempo prima.

I continui flashback ci mostrano infatti le immagini di un giovane Beane giocatore, riempito di promesse e sogni successivamente disattesi. Sarà lo spartiacque della sua vita, oltre che della sua carriera. Da questo insuccesso, basato su una scelta fin troppo scontata, dipenderà il successivo scetticismo nei confronti di tutto l'ambiente che lo circonda, delle opinioni degli stessi che nella sua mente sono coloro che lo illusero, che lo presero in giro, originando il suo desiderio di rivalsa.

Il film lo rappresenta come un cinico disilluso, ma per lui non esiste nulla di più sentimentale del baseball.
E' spietato quanto basta per svolgere il suo incarico, ma è il primo a calarsi con empatia nei panni dei giocatori che deve tagliare.
E' un tipo concreto, senza fronzoli: comprende le metafore, ma non le accetta. La vittoria è la vittoria, la sconfitta è la sconfitta, e non ci sono sfumature in mezzo. E' proprio questo che lo rende quasi "Achabiano", e, di conseguenza, simpatico.
Il suo contributo porterà a sconvolgere il "know-how" di base del sistema, e la sua perseveranza frutterà ad altri i titoli di cui si sarebbe voluto fregiare lui.
La sua geniale intuizione lascerà un solco profondo sul futuro del baseball, portando i suoi concorrenti ad imitarne le idee, e tuttavia egli non riuscirà ad ammettere con se stesso di aver "vinto", nemmeno in un questo senso.
Il forte attaccamento ai suoi valori e alla sua ossessività, lo porta al punto di rifiutare un'offerta vertiginosa da parte di una delle più blasonate squadre di baseball americane per il solo motivo che non è questo che per lui significa il baseball.
Vincere non significa semplicemente riuscirci, ma riuscirci alle proprie condizioni; non è un semplice mestiere, è un'arte. E solo chi possiede il suo background è effettivamente capace di percepirne le sottigliezze.

La sfida è per lui vissuta in maniera compulsiva, molto nervosa, al punto che non riesce ad andare alle partite, non ascolta le radiocronache, le sequenze con lui nell'auto che guida senza meta consolidano una prassi quasi autoterapeutica.
Di lui, sul piano strettamente personale, di ciò che esula dal baseball, sappiamo ben poco: ha una figlia, una ex moglie. Ma non ci sono legami intimi, né ne traspare l'intenzione. L'unico sentimento vagamente accostabile all'affetto realmente visibile è quello per la figlia, che lo incoraggia a credere in se stesso.
Ed è solo in quei momenti che può sentirsi legittimato a tornare indietro alla sua infanzia precocemente bruciata, a quella parte di lui che gli manca.
Quella stessa parte che, essendo stata dimenticata, lotta per riemergere e gli impone di credere in qualcosa di improbabile: Davide che batte Golia.

Il film, tratto dal romanzo Moneyball: The Art of Winning an Unfair Game di Michael Lewis (sceneggiatura non originale alla quale ha contribuito lo zampino di Aaron Sorkin, in nomination) è estremamente trasparente, sin da subito.
Il plot è lineare, articolato e tecnico, ma lineare.
Colui che ci si addentra da profano - e vale non solo per il non-sportivo, ma anche per chi non conosce il baseball, più simile ad una religione in Patria, che non ad uno sport -, farà fatica all'inizio a capire di cosa di parla.
Le riunioni tecniche, le discussioni, le trattative, sono tutti elementi manageriali che servono a fornire l'idea generale, ma non si può considerare un film sul baseball, quanto semmai, un film su un uomo che vive del baseball, senza avere la minima idea di cos'altro fare.

Brad Pitt si guadagna un'altra nomination interpretando una parte veramente impressionante, agevolata dall'ottima spalla fornitagli da Jonah Hill (anche lui candidato, come supporting actor). Fra i due esiste una chimica anche fuori, cosa che rende un buon servizio al film.
Sono i loro dialoghi a raccontarci quello che sta succedendo, mentre Miller fa uso delle voci fuoricampo, dai cronisti ai commentatori sportivi (espediente tipico dei titoli sportivi) idoneo a dipingere la cosiddetta "normalità" della maggioranza e a riprodurre anche sullo spettatore le sensazioni di assurdità e di diffidenza che accompagnano i due, pur rafforzati vicendevolmente dalla loro intesa, motivati dalla convinzione di essere nel giusto.

Oltre alla nomination per il miglior film, e alla recitazione, questo Moneyball trova ottimi riscontri anche sul piano tecnico: montaggio, sonoro sono lì a dimostrarlo.
In conclusione, film scritto bene, recitato anche meglio, magari meno appassionante dei soliti, ebbri e retorici lungometraggi su questo sport made in U.S.A., ma sincero ed oggettivamente apprezzabile, al di là dell'esclusività del micromondo di cui parla.

D'altra parte, così come l'arte di vincere, anche l'arte di raccontare una storia deve fare affidamento sulla conoscenza degli strumenti del mestiere. Si entra forse un po' troppo negli aspetti "off-the-field", a scapito dell'universalità della storia.
Se l'obiettivo era quello di attirare a sé i discepoli del gioco e fare una bella figura sull'Academy (che ama ogni cosa sia emblema dell'America, e il baseball non lo è meno dell'Aquila di mare o dello Zio Sam) allora è un lavoro ben fatto. Viceversa, probabilmente qualcuno finirà per dimenticarlo in fretta.


Scena scelta







domenica 19 febbraio 2012

Midnight in Paris, brilla di luce propria


40 - Midnight in Paris (febbraio 2012)



Le strade parigine sfilano in apertura di film sotto le musiche evocative di Sidney Bechet, jazzista americano in attività negli anni '20, l'età dell'oro per Gil (Owen Wilson, qui in versione Alleniana, cosa che gli riesce niente male), scribacchino a comando delle major hollywoodiane ma al contempo aspirante romanziere in cerca di una risposta alla domanda delle domande, nella vacuità dell'esistenza che conduce.
Un nostalgico smarrito nel caos e nella frenesia della modernità.

Il contrasto fra gli ansiogeni Stati Uniti, terra di conquista del capitalismo e simbolo eterno della fatuità e la Francia, che si presta al ruolo di purificatrice delle anime in pena, inadatte a conformarsi ai precetti del loro tempo, si rispecchia nel divario fra Gil e Inez, tanto netto quanto superficiale è la considerazione che l'uno ha dell'altra.

Lui, che si ispira a Fitzgerald ed Hemingway, che trova sollievo nelle lunghe passeggiate notturne lungo la Senna e sogna di essere bagnato dalla pioggia, attirato dalle vecchie musiche di Cole Porter e dai richiami di un passato (forse) irraggiungibile e sfocato nella sua visione del tutto idealizzata e distorta di un'epoca che possiede tutte le attrattive che il presente non ha; lei, diretta emanazione di un padre duro e puro, yankee d.o.c., dalle idee politiche estremiste, condotto e trattenuto a Parigi solo dai suoi affari e di una madre snob da cui percepisce ed impara a misurare il valore delle cose della vita dal loro prezzo.
Mentre lei viene irretita dalla favella ipnotica di un intellettualoide superbo e pomposo, per Gil si aprono le porte del passato, esattamente a mezzanotte, come in un episodio di "Ai confini della realtà": vedrà esattamente ciò che desidera vedere, verrà a contatto con gli artisti e gli intellettuali di cui sa tutto, vivrà al centro delle sue stesse fantasie, coltivando un'illusione che scoprirà essere comune a tutti gli artisti quanto umane sono la curiosità e la nostalgia e quanto desiderabile è la prospettiva di conoscere se stessi al di fuori di un presente nel quale ci si sente fuori posto, cullati dall'irrealtà di un posto più familiare ed ospitale.

Allen ricaccia in questa sua ennesima gemma tutta quella magnifica ironia che gli conosciamo bene, condita però da una punta di serafico distacco, rimescolando gli ingredienti classici dei suoi film: l'emarginazione sociale, l'incomprensione, l'idea repellente della realtà nevrotica e ossessivamente ripetitiva (perfettamente sintetizzata dal pragmatismo esasperato e dallo sfarzo fine a se stesso), che allontana l'uomo dai suoi impulsi naturali e dall'indagine personale cui ognuno di noi sarebbe destinato, ma allo stesso tempo mette in guardia lo spettatore che troppo in fretta si fosse immedesimato nella fantasticheria del protagonista, Gil, e lo fa proprio attraverso le parole di quest'ultimo: il presente è sempre meno soddisfacente del passato, perché è la vita stessa ad essere insoddisfacente; ma sono le scelte, quelle vere, pur se prese su presupposti illusori a rendere meritevole di essere vissuta la vita.

Sono le divagazioni, le distrazioni e le fughe da ciò che è reale a far capire a Gil quanto siano importanti virtù come il coraggio e la fiducia in ciò che si ricerca in quanto artisti, ma è solo attraverso il più intricato labirinto rappresentato dalla realtà e dalle innumerevoli vie che vi si intersecano che gli sarà davvero possibile cambiare ciò che non lo appaga, cominciare ad essere sincero con se stesso.

Il tutto con in sottofondo Parigi, che diventa la protagonista assoluta (come New York lo era stata per "Manhattan") con le sue stravaganze, i suoi ricordi e le impronte della sua gente sul povero turista americano. Ci sono, forti, le usuali note jazz cui Allen è da sempre affezionato e, ancora una volta, Allen lascia aperta una porta al surreale e al fantastico, dopo "Scoop" e "Harry a pezzi".
Belle e interessanti le ricostruzioni storiche, i personaggi variegati della società parigina sono volutamente caricature, tratteggiate a bella posta per soddisfare il subconscio di Gil, ed è attraverso di essi che lui comprende ciò che non sapeva di volere.

Ottimo cast (ovviamente), e numerose le star (su tutte K. Bates, M. Cotillard, A. Brody) che si sono gettate a capofitto al servizio del lavoro di un Maestro, che più invecchia e più migliora. Certo, col tempo diventa meno esplosivo e meno profano, ma ne guadagnano l'armonia e l'espressività.

Nominations, scontate, per film, regia, sceneggiatura originale e scenografia, per Midnight in Paris c'è stata anche la (piccola) soddisfazione di essere stato anche il film più prolifico di Allen ai botteghini italiani.
Se non altro, non è mai troppo tardi per imparare...


Scena scelta