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Moneyball - L'arte di vincere (febbraio 2012)
Bill
Beane è il general manager della squadra di baseball degli Oakland
Athletics, l'unico ex giocatore di questo sport a rivestire quella
carica e l'unico abbastanza folle da prendere seriamente in
considerazione una rivoluzione dell'intera filosofia su cui si basa non
solo la storia del gioco, ma che alimenta gli stessi pilastri sociali ed
economici che reggono l'industria nel paese.
I giornalisti, gli
esperti, il suo stesso staff diventano le forze invisibili contro cui si
batte, perché rappresentano la concezione per lui sbagliata del
baseball; una visione univoca, covata da menti ristrette che si credono
infallibili e scommettono contro di lui.
Dopo la sconfitta con i
titani dei NY Yankees nella finale dei playoff del 2001 e l'essere stati
depredati dai medesimi dei loro tre giocatori più forti, Beane
comprende quanto impari sia il duello, quanto improbo sia il tentativo
di competere contro l'impero del denaro che foraggia il meccanismo; un
sistema nel quale l'unico modo in cui Davide può sconfiggere Golia è
quello di adattarsi al gioco, evolversi.
Quello che Beane propone è una sorta di darwinismo sportivo.
E'
così che, dopo aver conosciuto ed assunto Peter Brand, neo-laureato a
Yale in economia che gli espone alcuni suoi pensieri sul baseball, i due
mettono a punto una strategia incentrata sui numeri, anziché sui nomi;
le statistiche sono il punto di partenza di un nuovo approccio c.d.
sabermetrico, matematico e scientifico, volto a sostituirsi
all'esperienza e all'intuito.
Questioni come l'età, lo stato di
salute, l'attitudine dei giocatori distraggono dal vero obiettivo e dal
risultato espresso dalla teoria, per la verità molto semplice e
radicalizzante, secondo cui vince "chi conquista più basi".
I due
formano un team estremamente bizzarro, l'uno l'antitesi dell'altro. Ma
l'intesa funziona perché entrambi hanno più di un motivo per credere in
quello che stanno facendo.
Ed è proprio l'estraneità ai concetti
fondamentali ed il mancato assorbimento degli insegnamenti rudimentali
del gioco da parte di Brand a suggerire a Bean una diversa e funzionante
chiave di lettura per aprire porte altrimenti blindate e a condurlo in
modo sempre più convinto lungo il percorso intrapreso già molto tempo
prima.
I continui flashback ci mostrano infatti le immagini di un
giovane Beane giocatore, riempito di promesse e sogni successivamente
disattesi. Sarà lo spartiacque della sua vita, oltre che della sua
carriera. Da questo insuccesso, basato su una scelta fin troppo
scontata, dipenderà il successivo scetticismo nei confronti di tutto
l'ambiente che lo circonda, delle opinioni degli stessi che nella sua
mente sono coloro che lo illusero, che lo presero in giro, originando il
suo desiderio di rivalsa.
Il film lo rappresenta come un cinico disilluso, ma per lui non esiste nulla di più sentimentale del baseball.
E'
spietato quanto basta per svolgere il suo incarico, ma è il primo a
calarsi con empatia nei panni dei giocatori che deve tagliare.
E' un
tipo concreto, senza fronzoli: comprende le metafore, ma non le
accetta. La vittoria è la vittoria, la sconfitta è la sconfitta, e non
ci sono sfumature in mezzo. E' proprio questo che lo rende quasi
"Achabiano", e, di conseguenza, simpatico.
Il suo contributo porterà a
sconvolgere il "know-how" di base del sistema, e la sua perseveranza
frutterà ad altri i titoli di cui si sarebbe voluto fregiare lui.
La
sua geniale intuizione lascerà un solco profondo sul futuro del
baseball, portando i suoi concorrenti ad imitarne le idee, e tuttavia
egli non riuscirà ad ammettere con se stesso di aver "vinto", nemmeno in
un questo senso.
Il forte attaccamento ai suoi valori e alla sua
ossessività, lo porta al punto di rifiutare un'offerta vertiginosa da
parte di una delle più blasonate squadre di baseball americane per il
solo motivo che non è questo che per lui significa il baseball.
Vincere
non significa semplicemente riuscirci, ma riuscirci alle proprie
condizioni; non è un semplice mestiere, è un'arte. E solo chi possiede
il suo background è effettivamente capace di percepirne le sottigliezze.
La
sfida è per lui vissuta in maniera compulsiva, molto nervosa, al punto
che non riesce ad andare alle partite, non ascolta le radiocronache, le
sequenze con lui nell'auto che guida senza meta consolidano una prassi
quasi autoterapeutica.
Di lui, sul piano strettamente personale, di
ciò che esula dal baseball, sappiamo ben poco: ha una figlia, una ex
moglie. Ma non ci sono legami intimi, né ne traspare l'intenzione.
L'unico sentimento vagamente accostabile all'affetto realmente visibile è
quello per la figlia, che lo incoraggia a credere in se stesso.
Ed è
solo in quei momenti che può sentirsi legittimato a tornare indietro
alla sua infanzia precocemente bruciata, a quella parte di lui che gli
manca.
Quella stessa parte che, essendo stata dimenticata, lotta per
riemergere e gli impone di credere in qualcosa di improbabile: Davide
che batte Golia.
Il film, tratto dal romanzo
Moneyball: The Art of Winning an Unfair Game di
Michael Lewis (sceneggiatura non originale alla quale ha contribuito
lo zampino di Aaron Sorkin, in nomination) è estremamente trasparente,
sin da subito.
Il plot è lineare, articolato e tecnico, ma lineare.
Colui
che ci si addentra da profano - e vale non solo per il non-sportivo, ma
anche per chi non conosce il baseball, più simile ad una religione in
Patria, che non ad uno sport -, farà fatica all'inizio a capire di cosa
di parla.
Le riunioni tecniche, le discussioni, le trattative, sono
tutti elementi manageriali che servono a fornire l'idea generale, ma non
si può considerare un film sul baseball, quanto semmai, un film su un
uomo che vive
del baseball, senza avere la minima idea di cos'altro fare.
Brad
Pitt si guadagna un'altra nomination interpretando una parte veramente
impressionante, agevolata dall'ottima spalla fornitagli da Jonah Hill
(anche lui candidato, come supporting actor). Fra i due esiste una
chimica anche fuori, cosa che rende un buon servizio al film.
Sono i
loro dialoghi a raccontarci quello che sta succedendo, mentre Miller fa
uso delle voci fuoricampo, dai cronisti ai commentatori sportivi
(espediente tipico dei titoli sportivi) idoneo a dipingere la cosiddetta
"normalità" della maggioranza e a riprodurre anche sullo spettatore le
sensazioni di assurdità e di diffidenza che accompagnano i due, pur
rafforzati vicendevolmente dalla loro intesa, motivati dalla convinzione
di essere nel giusto.
Oltre alla nomination per il miglior film, e alla recitazione, questo
Moneyball trova ottimi riscontri anche sul piano tecnico: montaggio, sonoro sono lì a dimostrarlo.
In
conclusione, film scritto bene, recitato anche meglio, magari meno
appassionante dei soliti, ebbri e retorici lungometraggi su questo sport
made in U.S.A., ma sincero ed oggettivamente apprezzabile, al di là
dell'esclusività del micromondo di cui parla.
D'altra parte,
così come l'arte di vincere, anche l'arte di raccontare una storia deve
fare affidamento sulla conoscenza degli strumenti del mestiere. Si entra
forse un po' troppo negli aspetti "off-the-field", a scapito
dell'universalità della storia.
Se l'obiettivo era quello di attirare
a sé i discepoli del gioco e fare una bella figura sull'Academy (che
ama ogni cosa sia emblema dell'America, e il baseball non lo è meno
dell'Aquila di mare o dello Zio Sam) allora è un lavoro ben fatto.
Viceversa, probabilmente qualcuno finirà per dimenticarlo in fretta.
Scena scelta