domenica 26 febbraio 2012

The tree of life, il mistero della vita secondo Malick


46 - The tree of life (febbraio 2012)



A sei anni di distanza dal suo ultimo lavoro - Il nuovo mondo - Malick torna ad appassionare il suo pubblico con The tree of life, ennesimo, sublime, esercizio di stile del regista texano che ci ha abituati negli anni allo strapotere delle immagini dei suoi film, quasi rendendoci dipendenti e succubi, persino in soggezione rispetto all'infinitezza dei mondi da lui ricreati, nei quali a volte ci sorprendiamo a perderci e a volte ritroviamo noi stessi.
Malick è esattamente questo: è il mortale che si lega all'immortale, l'abile alchimia capace di rendere indistinguibili la poesia della narrazione e l'esplorazione dell'ignoto.

In questo film, che è forse il suo più ambizioso, ritroviamo una storyline piuttosto semplice, netta, banale nella sua straordinarietà: quello del genitore che sopravvive al proprio figlio non è certo un soggetto inedito ma è, tuttavia, qualcosa di molto personale e quindi rispetto alla versatilità del messaggio che se ne vuole trarre parecchio audace, di per sé; e Malick non si accontenta certamente di raccontare, è un virtuoso: a lui piace addentrarsi, giocare, entrare nel vivo, anche dilungarsi. A questo va ad aggiungersi una complessità di linguaggio e una ricerca laboriosa quanto appagante del significato tale da rivestire la sua opera di un fascino raro.

La prospettiva principale è quella di Jack, la sua evoluzione in una famiglia rigorosamente cattolica degli anni '50 e del contrasto interiore fra la Natura, espressa dal padre autoritario ed intransigente e la Grazia, rappresentata dalla madre devota a Dio, pura e amorevole; ciò ne agiterà lo stato d'animo, rendendolo ansioso di dare un senso al risultato di quel conflitto e di conseguenza alla sua vita.
Il senso della vita diventa allora l'oggetto dell'indagine dal punto di vista del microcosmo del nucleo famigliare e dell'individuo in contrapposizione con il macrocosmo dell'universo, del Tutto; la comprensione dell'esperienza umana muove dal passato, dal big bang in poi, e su questo si calca la mano mentre sul piano strettamente più immediato si sprecano le citazioni bibliche e si fa largo uso del simbolismo religioso e dell'approccio spirituale.
Dal punto di vista concettuale, i parallelismi ed i rimandi sono tanto incisivi e notevoli che salta immediatamente alla mente il capolavoro di Kubrick 2001: Odissea nello spazio, citato anche da parte della critica e senza dubbio suggeritore ed ispiratore di alcune delle sequenze visionarie più memorabili, nel loro avvilupparsi con il sottofondo delle musiche (incredibili, anch'esse) di Desplat.

Mentre si dipana la storia della famiglia, di cui quell'albero che cresce in giardino è simbolo (biblico, letterario, terreno ed ultraterreno) e costruzione, siamo trascinati, su un livello differente pur se adiacente, nel climax della rappresentazione della creazione dell'universo, e poi ancora su quello di una realtà parallela che vede Jack adulto, eterea ed irreale.
La sovrapposizione ideologica si combina con quella visiva delle immagini, nitide e veramente fantastiche.
L'imperfezione raffigurata nel dilemma insolubile dell'impurità delle radici (il metaforico albero), che potremmo sintetizzare anche con il detto "le colpe dei padri ricadono sui figli", prende il sopravvento su qualunque velleità di scoprire realmente chi siamo e da dove veniamo.

Gli input sono talmente numerosi e a loro volta capaci di reindirizzare a livello interpretativo ad altrettante soluzioni che si finisce per smarrire quelle poche certezze che invece il film si prodiga a darci per tessere la trama e non perdersi nella vacuità di ciò che intende rappresentare.
Così, ne esce qualcosa di non facile assimilazione, ma di universale ed esteticamente impagabile: sul piano visivo, Malick dà il meglio di sé, aiutato dalla fotografia eccelsa di Lubezki, frutto di febbrili sperimentazioni, e dalle inquadrature sempre così azzeccate in ragione di una spontaneità ossessiva che accompagna a livello stilistico Malick da sempre.
La naturalezza di certe sequenze, a livello scenico - si pensi ad esempio al mancato sfruttamento delle luci di scena, sostituite dalla luce naturale che viene raccolta e profusa grazie ad accorgimenti scenografici e alla sottolineatura cromatica - la si ritrova anche nelle espressività degli attori, nella sorpresa che coglie l'occhio, nella ricerca paziente di simbiosi fra la vita umana e la vita di ciò che la ospita.

Il risultato finale è un'opera straordinariamente potente, colma di significati e che racchiude in sé un potenziale anche maggiore, e non potrebbe essere altrimenti, avendo avuto l'"impertinenza" di riunire elementi filosoficamente e contenutisticamente complessivi, ma anche molto antitetici, dell'esperienza e del pensiero umano, pur restituendo comunque un'impronta specifica, più spirituale, facile imprimatur riconoscibile e per altro già enuncleato nell'incipit della voce fuoricampo all'inizio del film, che preclude già alla difettosità dell'umano sapere ciò che invece è consentito all'onniscienza perseguibile attraverso la virtù.

Una volta tirate le somme, individuati i paragoni con le opere precedenti del regista - e naturalmente anche con quelle di altri - quel che rimane è una matassa di sensazioni non troppo dissimile a quella di un universo, in costante espansione, che ci risucchia in sé e nel quale, come ci ricorda questo The tree of life possiamo solo tentare di abbozzare un riscontro del tutto personale e soggettivo se davvero vogliamo avvicinarci alla verità.


Scena scelta








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