mercoledì 22 febbraio 2012

War Horse, la favola di Spielberg


43 - War Horse (febbraio 2012)



War Horse è la storia di un puledro, un mezzosangue. Un cavallo veloce, certo, ma non abbastanza robusto per trainare o essere d'aiuto nei lavori delle aperte campagne del Devonshire.
Siamo in Inghilterra, all'alba dello scoppio della prima guerra mondiale. Presto, Joey - così viene battezzato il cavallo dal fedele addestratore Albert Narracott - si troverà suo malgrado a fronteggiare il campo di battaglia, costretto a dire addio alle praterie nelle quali scorazzava libero, e si ritroverà al centro di una serie di vicissitudini attraverso le quali si compirà il suo destino. Diventerà un War Horse , cioè un cavallo da guerra.
Avrà diversi nomi e diversi padroni, ma la costante dell'orgoglio e della tenacia, doti inculcategli dal giovane Narracott, lo preserveranno dalla morte, addivenendo ad un lieto fine, francamente prevedibilissimo.

Nel tentativo di raccontare quest'avventura in formato famiglia abbastanza peculiare, segnata da una storia tragica ma allo stesso tempo favolistica, Spielberg confeziona un prodotto per la verità piatto, finendo per incarnare il tipico canovaccio americano, retto dalle illustrazioni archetipiche della fiera tradizione dell'eroe e inciampando nei soliti sensazionalismi maniacali che irrimediabilmente squarciano la realtà con punte di improbabile e di grottesco che alla fine liberano una risata involontaria.

Perché se è vero che gli spunti drammatici non mancano, non si può nemmeno pensare che sia per l'ennesima volta il magico e il sovannaturale, siano essi racchiusi in un cuore umano o animale, a mettere le cose a posto, a trarre d'impaccio dall'ineluttabile certezza della sofferenza.
Il film si regge per gran parte sull'austerità, sul penoso distacco del cavallo dal suo padrone, l'allontanamento necessario ad entrambi per fortificare l'amore dell'uno per l'altro, gli ostacoli escogitati per dare l'impressione che la notizia più lieta sia sempre più lontana.
Poi, mentre l'incubo più grande del lobotomizzato spettatore sembra sul punto di avverarsi, ecco che Spielberg fa una cosa deplorevole: esce dal film. Lo interrompe con la stravaganza e con l'assurdo. Lo fa nel tentativo di strappare un sorriso, di sdrammatizzare, di invitare a riflettere (tra virgolette). Ma il tentativo è goffo quanto è forzato, e la conclusione è che il meccanismo si inceppa.
E quale che sia l'intento, non si può fare a meno di storcere il naso per questa intrusione.

Viene meno il patriottismo (almeno quello) e la partigianeria spicciola (anche perché l'America non c'entra nulla); così la guerra può diventare una volta di più metafora e l'indomito cavallo che viene adoperato alla stregua di uno schiavo sopravvive oltre che per sé, anche per la speranza che la vita trionfi sulla morte. Tutti coloro che avranno il destino di trovarlo sulla propria strada, in un modo o nell'altro, gli rimarranno legati quasi che il suo essere speciale sia visibile solo a certuni.
Il tema della lotta, onnipresente, è terreno, ed è di questo mondo; ma al cavallo viene impressa una raffigurazione antropomorfa, come se egli fosse in grado di dimenticarsi che non è umano. Egli porta con sé l'anima del suo padrone, ed è questo ibrido che ne scaturisce a gettare su di lui un'aura protettiva, come un deus ex machina che il regista gli cala sopra in ogni momento di criticità, accompagnandolo per mano proprio come fa con lo spettatore.

I consueti valori del singolo, famiglia-patria-e-dio, messi alla prova in un contesto più grande, più doloroso come quello della guerra, non segnano una novità gran che sorprendente; se non che, il fango viene alzato pesantemente dagli zoccoli di un cavallo, fra le trincee. Animale che è cosa viva e furente, la bestia che per mettersi in salvo è costretta a sopportare le bestialità (naturalmente) degli uomini (più bestie della bestia medesima, c.v.d.).
Uomini che, però, riusciranno a smettere di trucidarsi e torneranno fratelli per un momento, accomunati dalla pietà.
In questo modo, Spielberg, dimostra di non interessarsi più di tanto alle vicende nelle quali suo malgrado Joey si imbatte, elevando invece il suo protagonista a Forrest Gump del regno equino, e costruendo tutto intorno uno scenario verosimile per corroborare questo suo arbitrio.

Spielberg è notevolissimo quando si tratta di raccontare storie, impossibile non trovare in parte avvincente anche questa, soprattutto perché anche senza scavare più di tanto nella psiche umana, si accontenta di cogliere nella superficie di ognuno dei suoi spettatori l'essenza dell'esistenza: la vita e la morte.
Per questo, la guerra forma l'oggetto delle sue attenzioni, all'interno vi ritroviamo tutti i temi più eviscerati di Spielberg: lotta, coraggio, fratellanza, spirito, umanità, crudeltà e debolezza, libertà, redenzione. E per questo la sua documentata e febbrile passione per la rilettura della storia lo portano ad essere appassionante anche qui, in alcune sequenze oggettivamente inattaccabili.
Ed è altresì indubbio che sul piano stilistico-formale il signor Spielberg sia effettivamente inappuntabile; le scenografie stupende, la fotografia sontuosa, le musiche del fido John Williams. Tecnicamente un film fatto benissimo, riscontri ce ne sono.
Ma può bastare?

Se si guarda indietro, ci si chiede oggi come mai il cinema stenti tanto a proporre idee nuove. Ma non è tanto l'idea, infatti, quanto il suo sviluppo a latitare, è l'obsolescenza di un certo insieme di valori che si riflette sul modo di fare cinema che inevitabilmente invalida la veridicità ed il bisogno di immedesimazione del pubblico.
Poi capita di imbattersi nell'ennesimo film didascalico, quasi da collezione Disney, e capita di scoprire che il suo realizzatore non è una persona qualunque.
E, beh, forse è proprio quando sono i grandi a scivolare, che i piccoli del proprio tempo non riescono a capire come stare in piedi...


Scena scelta







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