venerdì 24 febbraio 2012

Payne torna con 'The Descendants', ci era mancato


45 - The Descendants - Paradiso Amaro (febbraio 2012)



Elizabeth King è una donna sposata, ha due figlie, conduce una vita agiata ed avventurosa nell'isola di Kaua'i (Hawaii), un posto incantevole, un paradiso.
Un giorno, mentre partecipa ad una gara in barca, ha un incidente ed entra in coma. Il marito, Matt (George Clooney), cerca di raccogliere i pezzi, ma la cosa non si dimostra facile per lui che è spesso lontano da casa, dalla sua famiglia, praticamente un estraneo in terra propria.
I suoi avi hanno lasciato a lui, e agli altri cugini eredi (descendants), vastissimi appezzamenti dell'isola, ma ora si rende necessario vendere in fretta o rischieranno di perderla.

Mentre quindi si avvicina per Matt il momento di prendere una decisione, è l'incombenza del dramma famigliare ad offrirgli importanti spunti di riflessione e l'occasione di fare il punto sulla sua vita, di fermarsi per un attimo e fare un bilancio.
Come in Little Miss Sunshine, l'unione, anche forzata, della famiglia diventa una reazione simbolica alle sferzate impresse dalla malasorte su una base già traballante. Più ci si spinge a raschiare e più i segreti nascosti in profondità vengono a galla, riportando alla mente, come puntualmente ci chiarisce il monologo d'apertura, che nonostante l'umana idealizzazione del paradiso, nessun luogo sulla Terra è vagamente immune dai problemi; che, in altre parole, la perfezione non esiste.
Partendo da questo presupposto che è una vera dichiarazione distensiva, di semplicità e di normalità, il film si sdoppia, mostrandoci una doppia anima: quella pura e intonsa rappresentata dalle scenografie patinate e dalle locations hawaiiane e quella mortale, terrena, della complessità tragicomica della vita dei suoi protagonisti, sempre pronti a vestire di ironia le situazioni di conflittualità.

Non è nuovo per Payne lo spunto della ricerca interiore così come non lo è il pretesto del lutto, usato con grande naturalezza dal regista (vedi A proposito di Schmidt) a fungere da valvola di sfogo, e a liberare le emozioni con energia in un vortice misto di dramma e di humour, ragionevolmente dosati con equilibrio lungo il film, diretto ancora una volta egregiamente (ma non può più essere una sorpresa per nessuno).
Anche se il rischio dell'insopportabile morale è dietro l'angolo, e qualche espediente può essere più di intoppo che di utilità, il film ha il grande merito di risultare scorrevole e gradevole nonostante l'indubbia gravità degli argomenti trattati, anche perché Payne costruisce, in chiaroscuro, tutto quanto attorno a quel concetto di paradiso con cui gioca sin dai titoli di apertura e lo suggella come metafora, se ne serve per ribadire il bisogno di capire qual è il proprio posto, di sentirsi a casa: il senso di appartenenza realizzato grazie all'esplorazione interiore di sé.
Le radici che ci mantengono al sicuro, quando sembriamo pensare che la sola risposta sia fuggire.

Si conferma il grande amore per il gusto del racconto dell'autore, ma a sedimentarsi è anche se non soprattutto la delineazione dei suoi personaggi, tutti così immediatamente interessanti, autoironici, divertenti od eccentrici, segnati da una profondità quasi letteraria ma al tempo stesso figli di una mente che ha sempre come epicentro le esperienze comuni della vita. Non a caso i suoi personaggi sono estremamente realistici, spesso affrontano crisi esistenziali, sono afflitti dai problemi che tutti conosciamo e cercano di uscirne con la stessa genuinità.
Gli stilemi sono perciò anche qui quelli classici della commedia indipendente, caratterizzata dai toni drammatici mitigati da una leggerezza di fondo, uno humour talvolta anche caustico, ma mai banale.

Il fatto che si tratti di una storia tutto sommato abbastanza semplice non significa che sia arida dal punto di vista concettuale, e se la sceneggiatura (in candidatura), per quanto non si basi su intuizioni particolarmente geniali od originali, è il piatto forte di questo film davvero molto ben riuscito, non sono da meno da un lato l'interpretazione degli attori e dall'altro la ricreazione delle atmosfere, sia visive che sonore.
L'impatto di questa combinazione riesce ad essere tremendamente efficace, e mentre Payne pianifica le fermate e pondera il tragitto da seguire, lascia alle scenografie, alle musiche, alla liricità e all'esplosività dei dialoghi convincenti gran parte della ragione per cui vale, in sostanza, la pena di vedere questo film.
Ad arricchire il contesto funzionante di attori (dalla sorprendente Shailene Woodley, ai Robert Forster, Judy Greer e Beau Bridges) ci pensa paradossalmente un Clooney che fa di tutto per allontanarsi dal concetto di attore; è ordinato, funzionale, mai ingombrante, cioè perfetto. Un'interpretazione stranamente tenuta in gran conto anche dalle platee più in linea con altri canoni di cinema.

E se questo film trova un grande riscontro da parte della critica (fra cui si aggiunge quella dei Globes, che ne hanno premiato film ed interpretazione maschile), se il pubblico non ha potuto fare a meno di affezionarsi ad esso, si tende a pensare che un motivo, in fondo, ci sia.
5 le nominations (film, regia, attore, sceneggiatura, montaggio) che non sono solamente la prova di un lavoro ben fatto, ma anche la conferma che l'Academy si stia progressivamente disponendo anche verso un certo genere di pellicole che in effetti meriterebbero più attenzione.
Perché, una volta aperta la mente, è difficile tornare indietro, soprattutto se hai conosciuto il cinema di Payne.


Scena scelta







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