martedì 21 febbraio 2012

Un viaggio nel cinema: "Hugo"


42 - Hugo (febbraio 2012)



Un inedito Scorsese ci trascina pronti-via, con forza, in una stazione ferroviaria. Due sono i suoni che odiamo, in sottofondo: il sibilo dei treni a vapore che partono ed arrivano, e il ticchettio senza soluzione di continuità degli orologi.
Sono gli occhi di Hugo Cabret (Asa Butterfield) a rivelarci, con fare clandestino, il viavai di persone indaffarate, ignare della sua presenza e del fatto che sia lui, e non più lo zio Claude, ad occuparsi degli orologi.
Il padre, orologiaio, è morto lasciandogli in ricordo un vecchio taccuino e un automa, un uomo meccanico rinvenuto in un museo ma ormai da tempo senza vita.
Hugo cerca disperatamente di ripararlo, convinto che sia la chiave di un messaggio nascosto grazie al quale conoscerà finalmente le risposte alle sue domande.

Isabelle (Chloe Moretz), una ragazzina piena di immaginazione in cerca di un'avventura paragonabile a quella dei libri che le piacciono tanto, lo accompagna alla biblioteca del sig. Labisse; qui scoprirà che il minaccioso giocattolaio che lo ha sorpreso a rubare e gli ha sottratto il taccuino del padre non è semplicemente il padre adottivo di Isabelle, ma uno dei più grandi pionieri del cinema, che ha cancellato le sue tracce da molto tempo: nientemeno che George Méliès (lo straordinario, nonché usuale, Sir Ben Kingsley)
Il bambino, orfano e solo al mondo, troppo piccolo per conoscere altro che quello che gli è stato insegnato, fa della sua curiosità e della sua abilità gli strumenti per ridare ad un vecchio uomo, dimentico ed afflitto dalla forzata negazione di un passato che gli è stato portato via quella magia che pensava di aver perduto per sempre.

Scorsese fa largo uso della metafora rappresentata dagli onnipresenti orologi: il loro funzionamento dipende da automatismi e tante componenti meccaniche che lavorano assieme ed allora e solo allora sono in grado di dettare il tempo in maniera perfetta, riprendendo a fare ciò per cui sono stati creati. Allo stesso modo, George è costretto a sospendere le proprie emozioni, estromesso da un ingranaggio nel quale il suo genio fantasioso di illusionista non può trovare più posto; il tempo si ferma per un momento lunghissimo, e riprende a scorrere solo quando tutti i pezzi sono al loro posto.
Mentre, sul piano narrativo avviene questo, Scorsese si addentra, ad un livello ancora diverso, in un altro viaggio nel tempo: quello del cinema.
Ci si aspetterebbe che a parlare dei grandi della cinepresa, coloro da cui tutto cominciò, fossero i grandi prosecutori della loro opera. E allora chi, è più adatto di Scorsese, per raccontare quest'avvincente storia, omaggiante l'epoca dei primi vagiti del grande schermo? Il tempo in cui i primi proiezionisti cominciavano a rapire alle strade le folle curiose.
Quella che sembrava una moda, e poi divenne il cinema.

La cinepresa di questo film riprende un vecchio cineasta, felice all'inverosimile nel ripensare ai tempi in cui il cinema si fondeva alla magia e significava sperimentare continuamente, per stupire ogni volta di più, per meravigliare. Ma, dietro la cinepresa, si agita impetuoso il cuore di un altro uomo che non sogna di meno. Il risultato è una full immersion delle più avvolgenti atmosfere che, almeno il 2011 cinematografico, abbia saputo restituire all'occhio succube dello spettatore.

La fotografia di R. Richardson spicca, ma sono i costumi, le scenografie e la colonna sonora di Howard Shore a finalizzare il tuttuno concepito nella mente di Scorsese, e prima ancora di Brian Selznick (dal cui romanzo è trasposto Hugo).
E, come in un film Felliniano, veniamo piacevolmente sorpresi dalla girandola di personaggi che animano la stazione: dal poliziotto intransigente e alquanto grottesco (non a caso interpretato dal caratterista Baron Cohen), alla fioraia misericordiosa, all'anziana signora seduta sempre allo stesso posto.
Il tutto mentre i treni continuano a sbuffare, il tempo scorre ma tutto sembra sempre lo stesso. Proprio come in un incantesimo.
Lo stesso protagonista, Hugo Cabret, per il quale Scorsese attinge a piene mani dal romanzo picaresco, funge da pretesto per affrontare anche un'indagine del cinema dal punto di vista sociologico; a come le masse ne condizionarono il successo, a come le asperità sociali in generale rappresentino in senso figurato un punto di incontro verso i sogni: così, Hugo si farà strada attraverso un mondo ostile, che lo vuole in un orfanotrofio ed infelice, ma lotterà contro le insidie e solo sconfiggendole riuscirà a trovare la chiave per giungere al lieto fine, condensato nella riscoperta di se stesso da parte di Méliès e nella rivalutazione dell'opera del cinema.
E' dunque attraverso queste misure che siamo dirottati nel treno preso in avvio di film in direzione di altri binari, ormai in disuso, e che tuttavia lasciano intravedere all'orizzonte le manifestazioni visive di uno spettacolo destinato a durare, fin tanto che esisteranno orologi a segnarne il tempo.

Per contro, è proprio il suo coinvolgimento totale e passionale, e la sua chiara immedesimazione quasi sopraffatta nel racconto, a condurre Scorsese in un tripudio di enfasi tale da rimuovere in lui qualsiasi filtro e censura, anche, se non soprattutto, alla retorica...
E così, appaiono ridondanti determinate scelte, poco calibrate in funzione di un messaggio che perde un po' di autenticità, e che invece di essere intuito consapevolmente dallo spettatore finisce per rischiare di sembrare artificioso e preconfezionato.
All'insistenza si unisce anche il timbro impresso ai dialoghi, oltre che piuttosto banali, non realmente in grado di funzionare e di esercitare una presa paritetica allo scopo prefisso.

Un film più di forma che di sostanza, e in questo non c'è nulla di male, ovviamente.
Il gradimento e l'affetto sorgono spontanei, per questo Hugo , forse anche troppo...
L'accuratezza dei dettagli, lo stile grafico, l'avventura nell'avventura, i ritmi ragionati, sono tutti strumenti che donano un'armonia unica. Ma a parte gli ammiccamenti per i cinefili, l'impresa di Scorsese è destinata a scontrarsi contro lo scoglio rappresentato dalla pretesa di conciliare verità storica, onestà di linguaggio e spettacolo per un vasto pubblico. E anche il più grande dei maestri può fallire.

11 le candidature agli Oscar. Se le merita tutte.


Scena scelta








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