lunedì 20 febbraio 2012

Il Baseball secondo "Moneyball"


41 - Moneyball - L'arte di vincere (febbraio 2012)



Bill Beane è il general manager della squadra di baseball degli Oakland Athletics, l'unico ex giocatore di questo sport a rivestire quella carica e l'unico abbastanza folle da prendere seriamente in considerazione una rivoluzione dell'intera filosofia su cui si basa non solo la storia del gioco, ma che alimenta gli stessi pilastri sociali ed economici che reggono l'industria nel paese.
I giornalisti, gli esperti, il suo stesso staff diventano le forze invisibili contro cui si batte, perché rappresentano la concezione per lui sbagliata del baseball; una visione univoca, covata da menti ristrette che si credono infallibili e scommettono contro di lui.

Dopo la sconfitta con i titani dei NY Yankees nella finale dei playoff del 2001 e l'essere stati depredati dai medesimi dei loro tre giocatori più forti, Beane comprende quanto impari sia il duello, quanto improbo sia il tentativo di competere contro l'impero del denaro che foraggia il meccanismo; un sistema nel quale l'unico modo in cui Davide può sconfiggere Golia è quello di adattarsi al gioco, evolversi.
Quello che Beane propone è una sorta di darwinismo sportivo.

E' così che, dopo aver conosciuto ed assunto Peter Brand, neo-laureato a Yale in economia che gli espone alcuni suoi pensieri sul baseball, i due mettono a punto una strategia incentrata sui numeri, anziché sui nomi; le statistiche sono il punto di partenza di un nuovo approccio c.d. sabermetrico, matematico e scientifico, volto a sostituirsi all'esperienza e all'intuito.
Questioni come l'età, lo stato di salute, l'attitudine dei giocatori distraggono dal vero obiettivo e dal risultato espresso dalla teoria, per la verità molto semplice e radicalizzante, secondo cui vince "chi conquista più basi".

I due formano un team estremamente bizzarro, l'uno l'antitesi dell'altro. Ma l'intesa funziona perché entrambi hanno più di un motivo per credere in quello che stanno facendo.
Ed è proprio l'estraneità ai concetti fondamentali ed il mancato assorbimento degli insegnamenti rudimentali del gioco da parte di Brand a suggerire a Bean una diversa e funzionante chiave di lettura per aprire porte altrimenti blindate e a condurlo in modo sempre più convinto lungo il percorso intrapreso già molto tempo prima.

I continui flashback ci mostrano infatti le immagini di un giovane Beane giocatore, riempito di promesse e sogni successivamente disattesi. Sarà lo spartiacque della sua vita, oltre che della sua carriera. Da questo insuccesso, basato su una scelta fin troppo scontata, dipenderà il successivo scetticismo nei confronti di tutto l'ambiente che lo circonda, delle opinioni degli stessi che nella sua mente sono coloro che lo illusero, che lo presero in giro, originando il suo desiderio di rivalsa.

Il film lo rappresenta come un cinico disilluso, ma per lui non esiste nulla di più sentimentale del baseball.
E' spietato quanto basta per svolgere il suo incarico, ma è il primo a calarsi con empatia nei panni dei giocatori che deve tagliare.
E' un tipo concreto, senza fronzoli: comprende le metafore, ma non le accetta. La vittoria è la vittoria, la sconfitta è la sconfitta, e non ci sono sfumature in mezzo. E' proprio questo che lo rende quasi "Achabiano", e, di conseguenza, simpatico.
Il suo contributo porterà a sconvolgere il "know-how" di base del sistema, e la sua perseveranza frutterà ad altri i titoli di cui si sarebbe voluto fregiare lui.
La sua geniale intuizione lascerà un solco profondo sul futuro del baseball, portando i suoi concorrenti ad imitarne le idee, e tuttavia egli non riuscirà ad ammettere con se stesso di aver "vinto", nemmeno in un questo senso.
Il forte attaccamento ai suoi valori e alla sua ossessività, lo porta al punto di rifiutare un'offerta vertiginosa da parte di una delle più blasonate squadre di baseball americane per il solo motivo che non è questo che per lui significa il baseball.
Vincere non significa semplicemente riuscirci, ma riuscirci alle proprie condizioni; non è un semplice mestiere, è un'arte. E solo chi possiede il suo background è effettivamente capace di percepirne le sottigliezze.

La sfida è per lui vissuta in maniera compulsiva, molto nervosa, al punto che non riesce ad andare alle partite, non ascolta le radiocronache, le sequenze con lui nell'auto che guida senza meta consolidano una prassi quasi autoterapeutica.
Di lui, sul piano strettamente personale, di ciò che esula dal baseball, sappiamo ben poco: ha una figlia, una ex moglie. Ma non ci sono legami intimi, né ne traspare l'intenzione. L'unico sentimento vagamente accostabile all'affetto realmente visibile è quello per la figlia, che lo incoraggia a credere in se stesso.
Ed è solo in quei momenti che può sentirsi legittimato a tornare indietro alla sua infanzia precocemente bruciata, a quella parte di lui che gli manca.
Quella stessa parte che, essendo stata dimenticata, lotta per riemergere e gli impone di credere in qualcosa di improbabile: Davide che batte Golia.

Il film, tratto dal romanzo Moneyball: The Art of Winning an Unfair Game di Michael Lewis (sceneggiatura non originale alla quale ha contribuito lo zampino di Aaron Sorkin, in nomination) è estremamente trasparente, sin da subito.
Il plot è lineare, articolato e tecnico, ma lineare.
Colui che ci si addentra da profano - e vale non solo per il non-sportivo, ma anche per chi non conosce il baseball, più simile ad una religione in Patria, che non ad uno sport -, farà fatica all'inizio a capire di cosa di parla.
Le riunioni tecniche, le discussioni, le trattative, sono tutti elementi manageriali che servono a fornire l'idea generale, ma non si può considerare un film sul baseball, quanto semmai, un film su un uomo che vive del baseball, senza avere la minima idea di cos'altro fare.

Brad Pitt si guadagna un'altra nomination interpretando una parte veramente impressionante, agevolata dall'ottima spalla fornitagli da Jonah Hill (anche lui candidato, come supporting actor). Fra i due esiste una chimica anche fuori, cosa che rende un buon servizio al film.
Sono i loro dialoghi a raccontarci quello che sta succedendo, mentre Miller fa uso delle voci fuoricampo, dai cronisti ai commentatori sportivi (espediente tipico dei titoli sportivi) idoneo a dipingere la cosiddetta "normalità" della maggioranza e a riprodurre anche sullo spettatore le sensazioni di assurdità e di diffidenza che accompagnano i due, pur rafforzati vicendevolmente dalla loro intesa, motivati dalla convinzione di essere nel giusto.

Oltre alla nomination per il miglior film, e alla recitazione, questo Moneyball trova ottimi riscontri anche sul piano tecnico: montaggio, sonoro sono lì a dimostrarlo.
In conclusione, film scritto bene, recitato anche meglio, magari meno appassionante dei soliti, ebbri e retorici lungometraggi su questo sport made in U.S.A., ma sincero ed oggettivamente apprezzabile, al di là dell'esclusività del micromondo di cui parla.

D'altra parte, così come l'arte di vincere, anche l'arte di raccontare una storia deve fare affidamento sulla conoscenza degli strumenti del mestiere. Si entra forse un po' troppo negli aspetti "off-the-field", a scapito dell'universalità della storia.
Se l'obiettivo era quello di attirare a sé i discepoli del gioco e fare una bella figura sull'Academy (che ama ogni cosa sia emblema dell'America, e il baseball non lo è meno dell'Aquila di mare o dello Zio Sam) allora è un lavoro ben fatto. Viceversa, probabilmente qualcuno finirà per dimenticarlo in fretta.


Scena scelta







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