sabato 21 febbraio 2015

Birdman


93 - Birdman (febbraio 2015)




Riggan Thompson, un tempo Birdman, adesso un attore nel pieno della sua fase discendente. Sente di aver fallito la sua missione artistica, ha gravi problemi economici, una famiglia che ha ripetutamente deluso.
Dopo aver assorbito per anni le nevrosi di Hollywood adesso se ne è allontanato, rifugiandosi a Broadway, dicono in America, dove recitano i veri attori.

Il Teatro si contrappone così al Cinema, e così anche l'arte al vuoto ma ben più remunerativo spettacolo dello showbusiness.
In tutto questo, Riggan Thompson deve fare i conti con un ego che è ormai talmente ingombrante da aver un alter ego che lo tormenta perché torni alle sue origini, ai bei, facili, fasti della sua saga supereroistica, nonostante voglia assolutamente seguire una nuova strada.

Ma il Teatro non sembra essere la risposta: la sua popolarità è in calo, lo spettacolo che ha deciso di sceneggiare appartiene ad un passato che sembra lontanissimo e anacronistico, ha problemi con gli altri attori del cast, e finisce per sentirsi stritolato dalle fauci di quello stesso concetto per cui ha abbandonato e ripudiato i facili guadagni; così, è costretto a vagare in questo limbo cercando un'ultima chance per lasciare il segno.

Nel pieno delle banalità dell'ambiente cui attinge (e di cui è nientemeno che il prodotto), a cominciare dalle motivazioni, fortemente puerili, che spingono il suo protagonista a fare quello che fa, Iñárritu realizza una esilarante critica di tutto quello che gli capita a tiro sotto la forma di una mordace parodia che non può dirsi mai interamente commedia, ma che ne incorpora invece gli elementi cardine per mescolarla al dramma esistenziale, portandone via con sé il risultato surreale finale.
Il Cinema del nuovo millennio tutto brividi-azione-effettispeciali, l'enorme incontrollabile potere dei new media che veicola in realtà un non-pensiero perché omologato dall'esigenza dei grandi numeri, la pigrizia intellettuale, il graduale distacco da se stessi e quindi dall'arte; in questo incredibile caos, c'è invece un uomo la cui crisi d'identità rispecchia i valori di un'America vanesia, che sembra non conoscere i propri limiti, che è banale a sua volta nella ricerca del gusto: vuole tutto, in un modo o nell'altro, convinta che gli spetti.

Con un paese incapace di guardare a se stesso se non con autoindulgenza e culturalmente arrogante, è solo attraverso l'ironia della beffa che le meschinità e le mediocrità possono elevarsi in valore, e allora Birdman si piega a se stesso, confonde e si auto-confonde.

Ma mentre la vita reale permette di fingere senza troppe ripercussioni, l'arte insegna che non si può trasmettere autenticità se autentici non lo si è davvero: è questa la più grande lezione del film, una lezione impartita prima di tutto a se stesso, con quei tratti autoironici e autoparodistici che lo accompagnano lungo l'idea di girare tutto quanto come fosse un intero long take (in realtà è montato per sembrarlo) e che si infiltra persino nei tratti biografici dei suoi veri attori, tutti con alle spalle ruoli simili a quelli di cui ci si prende gioco o che hanno riferimenti nel film al proprio stile di vita (dal Batman - che assomiglia molto nel nome a Birdman - di Keaton, alle tendenze di Norton in poi).

Ed è in realtà meta-arte quella che Iñárritu in un senso più lato pone in essere, elaborando un film a più livelli semantici, distribuendo un'infinità di citazioni colte o meno e non solo perché facciano ridere (come in effetti succede) ma anche per ricordarci sempre di cosa stiamo parlando, con quale ambiguità abbiamo a che fare volteggiando fra la realtà della fiction e la finzione della realtà; infine spettacolarizzando una storia incredibile (nel senso di non-credibile) con uno stile spontaneo e completamente personale in grado di trasformarsi in una continua ispirazione visiva grazie anche alla magnifica fotografia di qualcuno che non delude mai come Lubezki, che riporta alla primitiva realtà il confuso spettatore, ammesso che sia ancora in grado di riconoscerla.

Così il Riggan di Keaton (straordinario) messo davanti ad un bivio si traveste anche senza il suo costume e impersona con coraggio disperato l'eroe tragico e accidentale di un intero paese, e poi succede una cosa che non avevamo previsto: il Cinema, in tutta la sua essenza.

In questo film, con punte recitative altissime (detto di Keaton, ma si potrebbero citare quasi tutti, e comunque assolutamente E. Norton) e una regia che non può che entusiasmare, con i suoi continui movimenti di macchina a braccare gli attori, le riprese tutte mosse degli interni del St. James Theatre, la profondità di campo e l'uso della prospettiva (anch'essa una citazione, come il lungo tappeto rosso che vediamo), che ha richiesto un grande sforzo organizzativo e tecnico da parte di tutto il cast, c'è un tale metodo, quasi una venerazione per il metodo, per la realizzazione che sono encomiabili, freschi, pieni di spunti; al di là della sua (doppia) storia, delle sue interpretazioni, persino della sua dubbia capacità di addolcire i cuori rimanendo infatti un'opera cerebrale, di pensiero, di intelletto, intelligente e coraggiosa, visionaria per certi versi e certamente piena zeppa di originalità, resta il marchio inconfondibile di un autore che non è spaventato dalla sua bramosia di protagonismo.

Gira tutto quanto perseguendo la sua invasiva (e geniale) idea originaria, e gli attori anziché mostrare nervosismo gli offrono sul piatto d'argento alcune delle migliori prove della loro vita. E mentre sfoga il proprio cinismo fra le risate, definisce un nuovo slang cinematografico capace di urtare qualche inevitabile sensibilità, e gli crea tutto intorno un'atmosfera ibrida in cui il fantastico si lega al banale e il volume della risata riecheggia sempre di riflessione.

Si dice che a volte la realtà superi in stranezza la finzione, quale che sia l'idea di Iñárritu al riguardo, di sicuro però in tempi di grande vuoto ideologico è quello che ti uccide che ti rende più forte.


Scena scelta












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