domenica 1 febbraio 2015

Under the skin


88 - Under the skin (febbraio 2015)




Acclamato dalla critica, controverso invece nell'impatto sul pubblico, l'originalità di Under the Skin non poteva che prevedibilmente sortire l'effetto di dividere perfettamente a metà la schiera dei suoi spettatori.

Sì perché il sentiero che Jonathan Glazer, famoso regista di videoclip musicali fra i quali spiccano alcuni dei lavori più noti della storia pop recente, percorre è uno di quelli che non si può che attraversare completamente bendati, muniti di una buona dose di fede in quello che questo film indipendente permette di avvinghiarsi.

Appare chiaro sin dal principio come la regia di Glazer, ovviamente portata per deformazione personale a dare grande risalto alle immagini e a legarle assieme lasciandone fluttuare i temi portanti fra i meandri del subconscio di chi assiste, sia composta per gran parte nel tentativo di esprimersi liberamente, ripudiando e uscendo da ogni forma o schema conosciuti e semmai recuperando dal simbolismo surrealista la potenza evocativa delle idee astratte, lasciando che sia poi la percezione personale a coglierne un significato.

Fra le molte cose che questo film non vuole essere, c'è l'idea di un film che non lascia dietro di sé la sensazione della ricerca di un senso esteso di quel che propone, che non va accusato semplicemente nell'evanescenza dello script o nella mancanza di linearità della storia - persino l'inesistenza di una storia, convenzionalmente parlando - ma che vuole invece partire dalla frammentazione, dal dettaglio, per ricondurre al quadro generale, che ammesso esista, è comunque appannaggio dello spettatore.

Glazer non spiega cosa vuole dire, non dà riferimenti né indizi troppo accurati sui suoi personaggi - non tanto su quello che fanno, che è lasciato all'esplicito voyeurismo, quanto sulle motivazioni - e disegna tutto intorno a questa sorta di collage un'aura di mistero e di morte che penetra in profondità riuscendo a comunicare in modo anche critico e provocatorio, sulla natura ostile, sulla bellezza, sulla condizione umana, apparentemente in maniera più spontanea di quanto non saprebbe farlo a parole (parole che sono quasi deprecate), e trova in questo senso nella collaborazione di una ombrosa maneater aliena, Scarlett Johansson, tutta un'ambivalenza che fa al film il grande dono (o il grande torto) di una dimensione ignota, inesplorata.

È un'opera coraggiosa, dall'intento avanguardistico che prima ancora di un film desidera essere un'esperienza visiva e auditiva, prima ancora che un prodotto cerca un suo stile originale (che non fa rima per forza con piacevole) e in definitiva lo trova nella sua esaltazione di forme, superfici, apparenze e sembianze che sono in grado di provocare, talvolta disturbare, comunque lasciare in sospeso e infine di attrarre verso di sé una reazione, come solo la vera arte sa farlo.

Quello che Glazer aggiunge all'interpretazione idealmente perfetta della Johansson è tutto in un'estetica ipnotica, imprevedibile, che alterna sequenze di una quotidianità ovvia a trovate prese dal nulla e le lega ad un sottofondo musicale (e qui ancora emerge l'esperienza sul campo dell'autore) in una sensazione inaspettatamente e sinistramente conosciuta.
Le inquadrature poco convenzionali che inframezzano la narrazione, la fotografia che sembra a tratti impressionista e a tratti "occlusa" in spazi amorfi privi di profondità e di luce, e un montaggio ai limiti dell'inespressività raccontano, sull'atmosfera straniante di questo film, tutto quello che resta da sapere su un lavoro che riecheggia di importanza mentre allo stesso tempo è quasi impossibile stabilire perché.

Non qualcosa a cui in molti sono disposti a rinunciare, ma se si perde per un momento l'ossessione di un significato, se ne potranno scovare altri, e magari più personali, all'interno di questo piccolo viaggio, tra le impenetrabili Highlands Scozzesi e la straordinaria ordinarietà di una fantascienza diversa, e meritevole.


Scena scelta











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