sabato 23 febbraio 2019

BlacKkKlansman

139 - BlacKkKlansman (febbraio 2019)





Il passato per Spike Lee è una ferita sempre aperta, sempre in via di rimarginazione, e per quanto faccia, finisce sempre a riprendere un discorso che a fasi alterne ha alimentato per più di vent'anni. Ovviamente il tema del "colore della pelle" (più circostanziato ancora rispetto al puro e semplice argomento razzismo) è cucito senza via d'appello al suo cinema, fatto di ricorsi storici e provocazioni incanalate lungo un processo di consapevolezza che sfocia, semmai, da qualche parte in un equilibrio di identità, costruita attraverso frammenti: di personalità, di culture, di cronaca, di avvenimenti sociali, e di cinema.

Proprio come la scena iniziale che dà la stura cinefila al suo film riprendendo il famosissimo carrello aereo di Via col vento (per poi lasciare il posto ad una scena lisergica e scioccante che ha in Alec Baldwin il suo protagonista) o i continui metariferimenti a Griffith. Nessun riferimento è mai casuale: proprio come Birth of a nation determinava con la sua enorme popolarità la rinascita del movimento del Ku Klux Klan oltre un secolo fa, anche oggi assistiamo a revivalismi di movimenti dell'estrema destra suprematista (che suggellano il film in chiusura andando a comporre un arazzo ideale della questione americana se lo si collega alla scena d'apertura) che mettono sotto accusa diretta la presidenza e quindi la linea di condotta di un paese che vacilla fra il populismo reazionario e la promessa di un politically correct asfissiante.

La recriminazione intima del cinema di S. Lee regala ancora una volta una una breccia fra i due estremi, per cercare un suo equilibrio da qualche parte: la lotta armata delle Black Panthers diventa una violenza di parola più che di fatti, e l'intelligenza prevale sull'impulsività.
Così si prende gioco del KKK senza produrre maggior sforzo di una semplice caricatura dell'Organizzazione con tutte le sue assurdità autoeloquenti mentre dall'altro foraggia un linguaggio irriverente, politicamente e linguisticamente scorretto, che supera continuamente le definizioni di buon senso per tramortire lo spettatore e risvegliarlo da un'etica che porta inevitabilmente ad un sistema di pensiero chiuso e unificato se non correttamente affrontato da obiezioni individuali.

Così al di là di come la si pensi, non c'è, talvolta, grossa differenza fra le ridicole rimostranze del gruppo terroristico o la mentalità piena di pregiudizi di un corpo di polizia a sua volta inviso a chi non fa distinzione fra un bianco e un altro, fra un poliziotto e un altro.

Al di là della componente politica, si tratta di un film divertente e ben diretto che non manca mai di ritmo o di sorprese, paga qualche ingenuità qua e là ma l'effetto stordente con cui Lee è in grado di rigirare ironicamente il conto allo spettatore lo pone su di un livello più alto di quanto sembri in apparenza. L'idea del poliziotto nero (in tempi in cui vederne uno era più raro di una stella cometa) fa già sorridere di per sé (pensando all'inevitabilità di ciò che vedremo) ma l'annientamento del KKK per propria mano, mentre scorre, veloce, il montaggio alternato di Griffith (manca solo Wagner, forse) sono puro propellente per un film tanto impegnato a mostrare un parallelo con l'attualità quanto sinceramente intenzionato a rivalutare un passato con qualche errore di troppo pur mantenendone inalterato il fascino, che è quello del racconto, della citazione, della consapevolezza che prima o poi, in una forma o in un'altra, tutto ritorna.

Anche Spike Lee, per fortuna.


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