domenica 24 febbraio 2019

Roma

141 - Roma (febbraio 2019)





Cleo è una domestica di origine indigena al servizio di una famiglia della media borghesia messicana nel quartiere "Roma" di Mexico City, dove Cuarón (che ritorna cinque anni dopo Gravity, che gli valse l'oscar come migliore regista) è cresciuto. Sono i suoi occhi, la sua soggettiva, a trascinarci dentro a quell'incanto che è questo film, avvolto da una fotografia indescrivibile in bianco e nero che riporta alla memoria un passato indelebile e funziona anche in un senso artistico che cattura lo stato d'animo perfetto di questo film così essenziale, dignitoso, intimamente ricercato nei più piccoli dettagli.

Lo stile neorealista impiegato qui da Cuarón va un po' in controtendenza con quanto ci ha abituato a vedere il regista messicano, soprattutto perché agisce con estrema sottrazione sulla storia (che era stata sempre l'innesco fondamentale del pathos o dell'avventura nei suoi lavori precedenti), ridotta a frammenti di vita da ricostruire con occhio attento e osservatore. Per quanto sembra che non succeda nulla, c'è sempre una scena che arriva a smentirlo; è il particolare respiro di questo film a determinarlo, con una regia che è la migliore dell'anno e una delle migliori degli ultimi anni: le intense soggettive, il dosaggio estremo dei piani ravvicinati, le lente panoramiche, i long-take, l'azione della profondità di campo, il sonoro minimale... tutto contribuisce a rallentare e fissare lo sguardo in un punto impreciso, mentre tutto si svolge davanti ai nostri occhi.

È come se Cuarón volesse immergere lo spettatore in una catarsi, per poi risvegliarlo dai silenzi e dalle pause con scene di una impellenza e di una vividezza unica (si pensi alla sequenza della protesta studentesca, o a quella finale); lavora molto, inoltre, sulle inquadrature cercando di staccare il più possibile la sua malinconica protagonista da ciò che la circonda (arriva addirittura a staccarla dal suo stesso corpo e sangue), ora relegandola sullo sfondo, ora tenendola a distanza dall'obiettivo. Questa separazione quando non è fisica è comunque concettuale, come dimostrano le confidenze che si concede solo con l'amica/collega e comunque sempre in un linguaggio che è quasi in codice, "segreto" (il mixtec). Due mondi a parte, costretti a convivere dalle circostanze nel medesimo luogo d'azione, che costituiscono quasi una scelta di montaggio interno.

La stoicità della sua protagonista (una meravigliosa Yalitza Aparicio) è tutta in quell'ultima scena, in quella confessione di una madre mancata che per lavoro cresce, ricambiata d'affetto, i figli di un'altra famiglia, e che finisce con il salvarli quando non ha potuto salvare la propria. Proprio l'assenza di un qualsiasi commento esplicito ad un sottotesto già pregno di materiale rende il tutto ancora più straziante e più vero, soprattutto perché non esistono, a guardar bene, nel film di Cuarón molti punti di tangenza ed è lo sguardo libero dell'osservatore a catturare ciò che davvero lo interessa, guidato dalla sua esperienza personale.

Cuarón fa un film che per alcuni sembrerà privo di passione, forse anemico, e forse per lo spettatore meno esigente sarà giudicato noioso, ma che in realtà costituisce la sua prova di regista più autentica, non solo perché intimamente autobiografica ma anche perché lo sforzo confluisce nel racconto di una vita che ha poco di raccontabile, nel senso che il dolore esistenziale di Cleo ha molto di comune e anche molto di invisibile; è il cinema allo stato puro.


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